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Campionesse del mondo
21 nov 2024
L'Italia vince in Billie Jean King Cup ed è un'impresa da celebrare.
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Un mercoledì sera qualsiasi, quando il mondo del tennis aveva spostato lo sguardo dallo strapotere quasi noioso di Jannik Sinner all’addio sofferto di Rafael Nadal, in un piccolo stadio temporaneo a Malaga, non lontano da quello delle star, si giocava la finale dalla Billie Jean King Cup: Italia-Slovacchia.

Le ragazze capitanate da Tathiana Garbin partivano da super-favorite contro la selezione della piccola nazione centro europea, da sempre messa in ombra in ambito tennistico dalla vicina Cechia (che sforna tenniste splendide generazione dopo generazione, come se fossero assemblate in laboratorio). Il nostro però era un vantaggio potenzialmente insidioso: le slovacche erano arrivate alla finale vincendo tutti gli incontri precedenti da grandi sfavorite. Anzi avevano trovato la loro strategia di successo nella scalata: illudere le avversarie che batterle fosse solo una pratica da sbrigare. Matej Lipták, il capitano della nazionale slovacca, nell’intervista a bordo campo dopo la vittoria in semifinale contro le britanniche ci aveva tenuto a ribadire che sarebbero state le underdog anche in finale. Ovviamente. Lo erano davvero, ma forse dietro c’era anche un tentativo di ipnotizzare le nostre, indurle a non prenderle troppo sul serio, come dovevano un po’ aver fatto anche le avversarie precedenti.

Le slovacche avevano battuto prima gli Stati Uniti, che non erano rappresentati dalle migliori in assoluto, ma da giocatrici solide come Taylor Townsend e Danielle Collins – e benché Collins stia vivendo un periodo complicato dopo un inizio di stagione scoppiettante, Townsend è stata vincitrice Slam e finalista alle WTA Finals in doppio insieme a Kateřina Siniaková. Poi, l’Australia nei quarti di finale, unica squadra a non opporre troppa resistenza. Infine, la Gran Bretagna, con la ritrovata Emma Raducanu – almeno nella Billie Jean King Cup e nei pochi tornei disputati in stagione – e Katie Boulter.

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Le nostre avversarie avevano conquistato due tiesu tre in rimonta, con l’enorme contributo di un’inarrestabile Rebecca Šramková. La ventottenne slovacca – che non a caso è tra le candidate ai WTA Awards nella categoria newcomer – sta vivendo un periodo di crescita verticale nella sua carriera. Ricorda, pur con molte differenze, la traiettoria di Jasmine Paolini lo scorso anno: dopo aver iniziato la stagione da 129 al mondo, è riuscita nel giro di due mesi a raggiungere la 43esima posizione, vincendo venti delle sue ultime ventiquattro partite.

Dall’altra parte, la nostra squadra aveva esordito con un po’ di fatica. Elisabetta Cocciaretto aveva perso la prima partita contro la giapponese Ena Shibahara, numero 133 al mondo. La sconfitta, che di per sé non aveva pesato più di tanto nell’andamento del tie, aveva generato qualche inquietudine in vista dell’avversaria successiva: la Polonia della numero due del mondo Iga Świątek.

Prima però facciamo un passo indietro, tanto lo sappiamo già come è andata a finire. L’Italia si presentava a questa edizione della BJK Cup con speranza e voglia di riscatto. Nell’edizione 2023, la selezione azzurra era riuscita a raggiungere la finale e sfiorare il titolo, guidata da una Jasmine Paolini sempre più dirompente e fiduciosa – anche se ancora non nella sua forma definitiva – insieme a Martina Trevisan che aveva trovato la settimana quasi perfetta. Certo, non si può dire che fosse un’edizione particolarmente competitiva: oltre alla fisiologica assenza di molte top players, la scorsa BJK Cup era stata vittima collaterale delle WTA Finals, disputate in mezzo agli uragani messicani. Sotto sotto, aleggiava la sensazione che le italiane fossero state fortunate ad arrivare in finale e chissà se e quando sarebbe successo di nuovo. Del resto, era la prima volta in dieci anni e non c’era ancora stato il 2024 di Paolini (da sola e con Sara Errani).

In pochi giorni la finale era stata dimenticata, seppellita tra la vittoria di Novak Djokovic su Jannik Sinner alle ATP Finals e la vendetta dell’altoatesino alla Davis Cup. L’aria era elettrica per gli appassionati di tennis nostrani e la parentesi della BJK era stata accolta un po’ come una casualità sensata.

In un periodo di eccesso di ebbrezza dovuto ai successi del tennis maschile poteva sembrare parte della slavina. Alla fine il processo che ha portato alla nascita di una generazione di talenti maschili insperata, fatto di finanziamenti ai circoli e creazione di tornei minori, deve necessariamente aver aiutato anche lo sviluppo delle tenniste.

Ma da chi hanno tratto ispirazione? Dai maschi, che domande.

Angelo Binaghi, presidente della Federazione italiana tennis, ai microfoni di SuperTennis ha detto che quest’anno le ragazze hanno «colto alla lettera l’insegnamento di Jannik, due set a zero e due set a zero». Peccato che la Davis sia cronologicamente successiva alla BJK, magari avrebbero imparato prima, in tempo per affrontare le canadesi lo scorso anno.

Durante la premiazione Binaghi, che a sua discolpa è molto più alto di Paolini e delle altre, ha preso la coppa e l’ha sollevata fino a non fargliela toccare più. Poi ai microfoni di SuperTennis, dopo aver fatto i complimenti alle ragazze e allo staff, ha ricordato: «È stata un’annata fantastica, mi sembra un gran viatico per iniziare l’ultimo torneo dell’anno». Cioè la Davis, che, ricordiamo, non si gioca qui, ma qualche metro più in là, nello stadio molto più grande.

In realtà, per la storia recente del tennis italiano la BJK Cup (una volta nota come Fed Cup) è una competizione speciale e il più grande manifesto della generazione straordinaria di tenniste che abbiamo avuto: Sara Errani, Flavia Pennetta, Francesca Schiavone, Roberta Vinci. In questo secolo la nostra squadra ha raggiunto sette finali: nel 2006, 2007, 2009, 2010, 2013, 2023 e 2024. Ne ha perse solo due, 2007 e 2023. In un solo caso il tie si è disputato in casa: Cagliari 2013, l’ultimo prima dello iato. Se lo ricordano bene tutte le neocampionesse del mondo, quella finale in in Sardegna. Alcune, come Jasmine Paolini, erano andate a vedere dal vivo, convocate da Tathiana Garbin, che da un paio di anni collaborava con la federazione. Ancora non lo sapeva, ma stava piantando il primo semino.

L’esordio di Garbin come capitana della nazionale è stato nel 2017: a soli quattro anni dall’ultima vittoria a Cagliari, la squadra era scivolata in serie C. La selezione rifletteva il tramonto di un’era e un piccolo lumicino di ricambio generazionale: Francesca Schiavone (37 anni all’epoca), Sara Errani (30), Martina Trevisan (24), Jasmine Paolini (21). Dall’altra parte, nemmeno a farlo apposta, c’erano la Slovacchia e Rebecca Šramková (21), che in quell’occasione sconfisse Errani e Schiavone e fu decisiva per la vittoria del tie(2-3). Trevisan fece il suo esordio nel doppio a risultato acquisito, mentre Paolini, coetanea di Šramková, non mise piede in campo.

La seconda volta che l’Italia di Garbin ha incontrato la Slovacchia (ma non Rebecca Šramková) è stata ad aprile 2023, nella fase di qualificazione per le fasi finali della BJK Cup. In compenso c’era Camila Giorgi, giocatrice anarchica e mercuriale, protagonista e vero emblema del periodo di ricambio generazionale. Le azzurre in quell’occasione riuscirono a strappare la vittoria (3-2) soltanto con il doppio decisivo, conquistato da Cocciaretto e Trevisan. La coppia d’oro Errani-Paolini era ancora lontana dal realizzare il suo potenziale e Sara non era nemmeno convocata. In ogni caso, grazie a quel risultato sofferto, le ragazze riuscirono a staccare il biglietto per Siviglia, dove raggiunsero la finale per la prima volta in un decennio.

Ora che abbiamo più elementi di contesto, possiamo tornare dove eravamo rimaste: Elisabetta Cocciaretto, sconfitta nei quarti di finale contro la giapponese Ena Shibahara, numero 133 al mondo. La squadra successiva nel cammino verso la vittoria sarebbe stata la Polonia di Iga Świątek, assoluta favorita per la vittoria del tie e della BJK. Per continuare a sognare, era indispensabile vincere il primo singolare contro Magda Linette, numero 38 del ranking WTA. Si era aperto un bivio per Garbin. Da una parte Cocciaretto, numero 53 al mondo (ma è stata top 30) che a soli 23 anni è già una veterana della squadra: ha partecipato a undici tie e giocato quattordici partite tra singolare e doppio. La scelta scontata sarebbe stata darle fiducia. Oppure si porovare a sparigliare le carte e schierare Lucia Bronzetti, che non ha mai giocato un singolare in BJK Cup e nelle classifiche si trova quaranta posizioni tonde più in basso rispetto a Linette.

Mi immagino Garbin nelle ore che precedevano la sfida più difficile, mentre parla con le giocatrici e poi resta in silenzio a osservarne i movimenti del volto e degli arti in allenamento. In questi sette anni al comando della squadra deve essere diventata una specie di Tim Roth in Lie to me, la serie che ha avuto come unico demerito il far nascere un genere di video su YouTube in cui si analizzano le micro-espressioni facciali dei presunti assassini a processo e degli influencer che chiedono scusa per dei vecchi tweet. A quanto pare non si può davvero capire cosa prova qualcuno da come piega per una frazione di secondo la bocca, però ci si può andare davvero molto vicino quando si conoscono tutti i movimenti e le diverse intonazioni della voce di una persona.

Comunque, anche se avesse deciso tirando una moneta, Garbin aveva scelto Bronzetti. Tanto Cocciaretto avrebbe capito, perché è così che funzionano le squadre. La romagnola esordiente ha giocato contro Linette una partita intelligente e paziente. Ha vinto il primo set in sicurezza; è stata capace di accettare il rientro della polacca nel secondo set senza farsi travolgere. Nonostante la numero 38 avesse recuperato entrambi i break di svantaggio e avesse tutta l’inerzia dalla sua parte, Bronzetti è riuscita a trascinare la polacca al tie-break e poi anche a vincerlo guadagnando il punto vitale alla sopravvivenza.

Paolini, liberata da un macigno di ansia e responsabilità, ha fatto una partita splendida, fuori da ogni pronostico contro Świątek: per la prima volta in un loro scontro, la nostra numero uno ha strappato un set alla polacca ed è rimasta competitiva fino all’ultima palla. Świątek poi è riuscita a vincere, ma ha solo rimandato l’inevitabile. Annullato un set point nel primo e un vantaggio di 5 game a 1 nel secondo, le medaglie d’oro olimpiche Errani e Paolini hanno chiuso la pratica con un doppio 7-5.

Con quella vittoria ha inizio il capitolo conclusivo di questo piccolo racconto mitopoietico di una nuova generazione di tenniste italiane: l’ultima sfida contro la Slovacchia e Rebecca Šramková. Ha aperto le danze Bronzetti, vittoriosa su Viktória Hrunčáková. La nostra, che ormai era diventata una specie di yogini e aveva raggiunto l’atarassia – dopo la premiazione ha ammesso che «di solito piango, da quanto sono felice non riesco, non mi scendono neanche le lacrime» –, ha liquidato la faccenda in due set dopo che era stata sotto nel secondo per 4-2 e servizio dell’avversaria (6-2, 6-4).

Poi è stato il turno di Paolini contro Šramková, l’imbattuta. Era il 113esimo match in stagione per la numero quattro al mondo e alle WTA Finals aveva dato segni evidenti di spossatezza, sia in singolare che in doppio. È stato chiaro fin da quasi subito che qua la faccenda è diversa: «Sono cotta, però oggi ripetevo a me stessa “dai Jas l’ultimo sforzo teniamo duro teniamo duro” ed è andata bene. Quando le energie iniziano a essere un pochino meno, aiuta tanto avere il supporto delle altre giocatrici». La ventottenne toscana, che era in svantaggio nei precedenti con la slovacca (2 partite vinte, 4 perse), ieri ha concesso solo tre game, giusto il tempo di prendere le misure con la risposta (6-2, 6-1). E così è finita, in poco meno di tre ore, la finale della quinta BJK Cup vinta dall’Italia. La prima della nuova generazione.

Paolini, che in fin dei conti è una formichina lavoratrice e per sua natura sempre pragmatica, ha detto in conferenza stampa: «Qualche anno fa nessuno ci avrebbe dato una lira. Anche io personalmente mi sentivo molto distante dal poter vincere questa competizione. Oggi eccoci qua». Garbin in soli sette anni è riuscita nell’impossibile. Ce la stava per fare anche in sei, prima che Paolini scoprisse la misura del suo potenziale: «È stato un viaggio incredibile. Ci speravamo era un sogno che sapevo che le ragazze potevano conquistare. Questo sarebbe proprio il momento giusto per lasciare perché più di così non so cosa desiderare».

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