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Italia-Francia 69-67
12 lug 2024
12 lug 2024
Una delle partite più memorabili nella storia della Nazionale italiana di basket.
(foto)
IMAGO / TT
(foto) IMAGO / TT
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Pubblichiamo un estratto di "Argento vivo. L'Italbasket da Euro 2003 alle Olimpiadi 2004", il nuovo libro di Marco Gaetani edito da 66thand2nd. Potete acquistare il libro cliccando qui.

Le prime avvisaglie arrivano quando la partita è ancora lontana qualche ora e al tavolo dell’albergo appaiono, una più assonnata dell’altra, le facce dei nostri eroi, che buttano un occhio distratto ai giornali locali in cui si parla del referendum che cattura l’attenzione della Svezia, chiamata proprio quel giorno alle urne per scegliere se adottare o meno l’Euro. «Io venivo da zero minuti nei quarti e nelle semifinali, avevo accettato serenamente quella situazione. La mattina della finale terzo posto vado a fare colazione, mi siedo al tavolo e c’è Denis che mi fa: “Davide stai pronto oggi perché Bullo, hmmm, non è a postissimo”. Non avevo inteso che sapesse qualcosa che non sapevo» mi dice riavvolgendo il nastro alla mattinata di Stoccolma. Si arriva all’arena, i giocatori si preparano fisicamente, quindi gli azzurri cominciano a fare la tradizionale ruota, la squadra divisa in due gruppi, c’è chi va a canestro e chi va a rimbalzo, poi le posizioni si scambiano. Una routine che serve più a trovare la concentrazione che a mettersi davvero in moto a livello fisico, con la fase di riscaldamento vero e proprio ormai già alle spalle. «Nel riscaldamento ho sentito un risentimento, che sarebbe poi stata la prima avvisaglia di tanti problemi vissuti nella stagione a seguire, con tre mesi saltati per problemi muscolari» mi rivela Bulleri, per gerarchia e talento il play titolare, inamovibile, di quella squadra. «Da parte mia ci fu la sorpresa, non avevo tempo di pensare a cosa potesse succedere» aggiunge. Sono momenti frenetici, perché Recalcati ha già consegnato ad arbitro e avversari il quintetto azzurro con dentro Bulleri, che però non può cominciare il match. «Davide aveva giocato poco fino a quel momento, però io non volevo togliere Basile dal ruolo di guardia. La cosa più facile» mi spiega Recalcati come se fosse ancora lì, in piedi davanti alla panchina, a parlare con Fabrizio Frates nel tentativo di risolvere il rebus «sarebbe stata far scalare Gianluca da play e Mian da numero due. Ma ho voluto preservare Basile da guardia e inserire Lamma. Per me fu una scelta scontata».

Torniamo sul parquet, sui giocatori che fanno la ruota: due palleggi, l’appoggio al vetro, il compagno che prende il rimbalzo, i corpi che cambiano direzione. C’è Recalcati che si avvicina, si fa piccolo, silenzioso, alle spalle di Lamma. «Lo sento che mi passa dietro e mi fa: “Allora cominciamo a uomo, poi se siamo in difficoltà ci mettiamo 3-2”. Me lo dice passando, e io continuo a fare la ruota, torno indietro, vado a rimbalzo, poi realizzo e torno da Charlie: “Scusa ma parto io?”. Lui mi guarda: “Eh, Bullo s’è fatto male”. Solo in quel momento mi giro e vedo che Bullo non sta facendo la ruota con noi. Non so se l’ha fatto scientemente, ma me l’ha detto a un minuto dalla palla a due, non ho avuto il tempo di ragionare, peraltro c’era anche il problema di dover cambiare il quintetto avvisando il coach della Francia». Questo è il ricordo ancora cristallizzato nella mente di Lamma. E allora c’è lui nei primi cinque dell’Italia che deve giocarsi un bronzo Europeo e un biglietto per Atene, con il numero 11 sulle spalle («Ma avrei voluto prendere il 9, che era il mio numero: c’era stata l’asta di beneficenza per i numeri e l’offerta di Sandrino De Pol fu inarrivabile») e, dall’altra parte, il 9 da prendere in consegna. Il 9, purtroppo, si chiama Tony Parker.

Dentro il pomeriggio di Stoccolma si giocano mille partite in una, gioca anche chi non può giocare, come Bulleri, che torna negli spogliatoi temendo di aver perso la possibilità di prendere parte alla finale per il bronzo mentre i suoi compagni si dannano l’anima in campo per cercare di non far scappare via una Francia che alza immediatamente la voce, volando sul +7 dopo nemmeno cinque minuti e affollando la mente degli azzurri dei fantasmi di Luleå. Ma stavolta la difesa inizia a funzionare, la zona, che la Francia aveva dimostrato di soffrire ampiamente già in semifinale con la Lituania, dà non poco fastidio all’attacco transalpino. Il resto lo fanno Galanda e Marconato e gli azzurri si ritrovano a toccare il massimo vantaggio a metà secondo quarto (30-15), il tutto mentre Recalcati perde anche Basile per infortunio e Lamma si fa dare una controllata a una caviglia per una distorsione. «Loro sembrava avessero litigato tra giocatori, ci sembrava che non ci fosse feeling e ne abbiamo approfittato» mi confessa Marconato. L’eroe del primo tempo è dunque Lamma, che si fa carico di responsabilità che mai avrebbe immaginato, dando ordine all’attacco e solidità alla difesa contro Parker: «In quel momento dovevo “solo” scendere in campo contro una squadra con giocatori Nba che ci aveva già dato 33 punti. Dovevamo partire bene, non fargli prendere distacco all’inizio, mettere in campo il piano partita. Fai tre cose fatte bene ed entri anche in un mood positivo e lo tieni. Non riuscivo a fare canestro ma forse è stato ancora più bello, non ho fatto la partita in cui mi è entrato tutto, sono stato solido: letture, assist, difesa, rimbalzi, quello che ero io. Nel piccolo di quello che siamo stati nel mondo, è un film, una sceneggiatura riuscita. Entrare in campo, giocare bene contro Parker, vincere. Io tredici mesi prima ero in Serie B. Certo, la Serie B dei primi Duemila, un livello altissimo, ma sempre Serie B. Ma il livello non c’entra, c’entrano i tuoi compagni e quanto chiedi a te stesso, quanta attenzione, quanta disciplina. Per me è stato sempre così: una perenne e meticolosa autoesigenza che mi ha permesso di migliorare costantemente nell’arco di tutta la mia carriera, di diventare e poi rimanere un giocatore di Serie A di alto livello. È la mentalità che ho portato anche nel mio post-carriera, in quello che oggi è il mio lavoro». A supportarlo nel ruolo di playmaker improvvisato c’è Soragna: «Perdiamo Bullo e Baso, parte Davide in quintetto, poi esce e devo giocare playmaker, che non è il mio ruolo, contro i difensori della Francia che sono super atletici: perdo due palloni perché non sono nel mio. Per fortuna sono rientrati Bullo e Baso nel secondo tempo...».

L’Italia rientra negli spogliatoi a metà partita apparentemente in controllo, avanti di 12 lunghezze anche grazie a una meravigliosa stoppata di De Pol su Sonko a fil di sirena. E Recalcati scopre che, in quei venti minuti, è successo anche dell’altro: «Rientro all’intervallo e mi dicono che il Bullo poteva essere usato, fortunatamente perché a quel punto ero senza Basile. Medico e preparatore avevano lavorato con Bulleri anche grazie a una cyclette negli spogliatoi, che non doveva esserci: l’aveva messa lì il nostro magazziniere, che si sentiva totalmente compenetrato nelle sorti della squadra ed era considerato alla stregua di tutti gli altri componenti del gruppo, fino a recarsi a caccia di una cyclette da mettere nello spogliatoio avendola presa nell’area fitness dell’arena. Servì molto e ci permise di rimettere in piedi Bulleri». Lo staff procede con i massaggi e poi piazza il Bullo sulla cyclette per rimetterlo in moto, per cercare di comprendere come risponderanno quei muscoli doloranti. Se il magazziniere non avesse fatto, ben prima dell’infortunio, quel giro di ricognizione della Stockholm Globe Arena, che dal 2021 è stata intitolata al produttore musicale Avicii, forse la storia avrebbe preso una piega ben diversa. Bulleri ripercorre quei minuti di attesa e lavoro con il sorriso: «Massaggi, bicicletta, tanto lavoro nella speranza di riuscire a esserci e poi sono andato in campo nel secondo tempo, anche se chiaramente in condizioni rivedibili. Eravamo in un’arena di hockey riconvertita alla pallacanestro, probabilmente loro non usavano la cyclette che invece per noi fu fondamentale».

Il match riprende e la Francia inizia a rosicchiare il vantaggio accumulato dagli azzurri in una maniera che pare inesorabile, Galanda si fa carico dell’attacco mettendo in mostra giocate che profumano di Nba ma nei minuti finali del terzo quarto Parker vive un momento di semi onnipotenza e da solo riporta i suoi a contatto, sfruttando le condizioni fisiche di Bulleri tutt’altro che presentabili nonostante cyclette e massaggi. «Una partita di una bruttezza, in questo terzo quarto, inimmaginabile» dice Flavio Tranquillo in cronaca senza usare giri di parole. Siamo ancora avanti di sei lunghezze, ma boccheggiando. Ogni penetrazione di Parker provoca o due punti o un rimbalzo in attacco di Diaw o Moïso. Il play franco-belga appare incontenibile, quando fa canestro anche da tre per il -1 il nostro pomeriggio sembra di colpo sull’orlo del dramma. Recalcati deve inventarsi qualcosa, non vuole più vedere Parker al ferro, prova a giocarsi la carta Basile ma anche il Baso gioca su una gamba a voler essere generosi. «Mi ricordo di aver giocato sul dolore, sentivo ancora il fastidio di quella che per me era stata veramente una botta assurda, ma c’era questo spirito di competizione: quando sei a quei livelli lì e devi giocare, con tanto in palio, tutto passa in secondo piano. Senza la voglia di competere, anche da infortunato, non puoi stare a quei livelli con gente molto più atletica e con molto più talento di te» ricorda Basile. Intanto Charlie dà fiducia a Mian e ad Alex Righetti in un momento cruciale e l’esterno della Virtus Roma lo ripaga con due canestri di fila che sono l’equivalente di una borraccia passata a un ciclista in crisi nera sul Mont Ventoux. La Francia non esce dai nostri specchietti retrovisori, Basile prova a seminarla con la tripla dalla punta per il +4, gap dimezzato dal primo canestro dal campo della giornata di Boris Diaw, che poi dalla lunetta fissa il 62 pari con due minuti e mezzo da giocare.

Una delle caratteristiche principali del biennio azzurro 2003-04 è la presenza, in campo, di giocatori «incapaci di avere paura». Più pesava il pallone, meno problemi si ponevano. Quindi Michele Mian affronta in penetrazione uno stoppatore come Moïso e lucra in un colpo solo due liberi e il quinto fallo del centro francese. Il ferro sputa la prima esecuzione, la seconda schiaffeggia soltanto la retina. Purtroppo dall’altra parte c’è Parker che legge bene la zona italiana, piega il corpo come se non avesse una colonna vertebrale e inventa un reverse layup andando a sinistra chiudendo con la mano destra, un canestro dal coefficiente di difficoltà gigantesco, tanto più con una posta del genere in palio. Mian forza malamente il potenziale canestro del sorpasso, Parker va ancora dentro come se avesse dei rollerblade ai piedi ma espone un po’ troppo il pallone e Righetti, pur battuto dal palleggio, riesce a smanacciare da dietro e a piazzare una rubata che scatena il contropiede, chiuso proprio dall’esterno virtussino che guadagna due liberi facendo due su due, e siamo ancora avanti di uno. Diaw combina un disastro epocale e c’è ancora lunetta per l’Italia, con Basile che ringrazia una follia difensiva della Francia.

Weisz decide di parlare con i suoi prima dei due liberi, per mettere ordine in una squadra in preda alla confusione e per aggiungere nervosismo su nervosismo sulle spalle di Basile. Il primo tiro gli esce storto, il secondo no. La Francia si limita a ruotare palla sul perimetro assecondando la difesa a zona dalla quale Recalcati non si stacca più, quando Sonko si alza dall’arco sfruttando un mezzo blocco di Diaw su Mian non ci resta che pregare. La palla esce bene dalle mani del francese, ma tocca primo e secondo ferro, impennandosi quanto basta per consentire a Diaw, uscito dal blocco che egli stesso aveva portato, di volare a rimbalzo d’attacco e andare in tap-in. Ma il ferro è ancora azzurro e le mani grandi di Marconato tirano giù un pallone che ci fa respirare, perché Piétrus manda subito Denis in lunetta. «Ci difendiamo come nella guerra del ’15-18» dice Tranquillo mentre Marconato risale il campo a gioco fermo. Anche lui, come Mian e Basile, sbaglia il primo e infila il secondo: +3 Italia, trenta secondi da giocare, una vita. Parker prova una tripla in step back semplicemente priva di senso, al punto che Basile lo stoppa, ma la palla resta lì ed è ancora francese, con Foirest fermato fallosamente da Galanda. Inizia la rumba dei tiri liberi, il numero 7 avversario fa due su due, Recalcati rimette nella mischia Bulleri ma viene scelto Basile come ricevitore, che non trema. La scelta dell’Italia è di fare fallo, di non concedere la tripla dell’eventuale pareggio ai francesi. Bulleri scommette sulle percentuali di Parker in lunetta, la cui mano, specialmente in questa primissima fase della sua carriera ad alto livello, non è nobile come richiederebbero ruolo e status. Il fallo però arriva presto, ci sono dodici secondi da giocare. Il franco-belga sbaglia il primo, non il secondo. Poi succede tutto in fretta. Forse troppo in fretta. Galanda vede Bulleri libero e decide di non perdere tempo con la rimessa. Il Bullo, anche su una gamba, può attaccare qualche metro di campo e lucrare dei secondi. Ma scivola, e la sua mano destra tocca la linea laterale. Mancano 9,9 secondi, siamo sopra di due, ma il possesso è francese.

Non appena realizza cosa è accaduto, Bulleri si mette entrambe le mani sul volto, disperato. Lo sono praticamente tutti, sulla panchina. Solo Recalcati riesce a dissimulare, camminando lontano dall’azione. So che Massimo mi avrebbe risposto qualcosa, se gli avessi chiesto delle sue sensazioni in quel momento, ma ho scelto di non farlo: non c’è nulla che possa dirmi che valga più di quelle mani sul volto, di quella reazione di autentico strazio. Chiedo invece a Recalcati della sua apparente freddezza: «Io in quel momento me lo sarei mangiato, però non potevo farlo: devi cercare di infondere nei giocatori la fiducia, non puoi enfatizzare un errore, per quanto marchiano. Ho giocato e so che quando uno sbaglia, ne è consapevole: avere l’allenatore che ti insulta non serve a nulla. Bullo è sempre stato estremamente autocritico, molto esigente, si è sempre giudicato in maniera severa: se avessi rincarato la dose, avrei fatto soltanto danni. Ho cercato di rimanere imperturbabile camminando verso la linea di fondo». Avevo però la curiosità di chiedere qualcosa agli altri, ai compagni del Bullo, per capire come si reagisce a un evento del genere. Decido che il mio uomo è Gianluca Basile, e il pretesto me lo fornisce un’intervista rilasciata proprio dal Baso qualche settimana prima del Mondiale 2023, in cui spiega il motivo per il quale ha scelto di non intraprendere la carriera da allenatore: «Non sarei bravo a nascondere il nervosismo o lo sconforto». Gli chiedo allora cosa avrebbe fatto al posto di Recalcati, come avrebbe vissuto quei secondi interminabili. «Mi deprimo subito, sono un pessimista nato, ma nel mio pessimismo trovo sempre la forza per reagire. Io da giocatore avevo la palla in mano, da allenatore dovrei fidarmi di qualcun altro e quindi non sarei in grado. Al posto di Charlie sarei morto. Tutti quelli che allenano, e l’ho detto anche al Poz, che ho sentito dopo i Mondiali, per me ricoprono un ruolo veramente difficile: hai tante pressioni, devi pensare a centomila cose, devi trasmettere tranquillità anche in situazioni che tranquille non sono. Ci bastava subire un fallo, invece ci siamo infilati in un buco nel momento in cui ci stavamo giocando un posto ad Atene». Mentre penso che non aggiungerà altro, è proprio Basile a portarmi alla scena successiva: «Quello che non abbiamo mai fatto, però, in tutta la competizione, da quel -33 all’inizio che avrebbe ammazzato chiunque, era perdere la speranza: avevamo sempre la capacità di tenere le cose sotto controllo, perché sapevamo cosa fare. Ci fidavamo della nostra difesa e del nostro tiro, questo bastava. Inoltre eravamo una squadra con un’intelligenza cestistica sopra la media e riuscivamo a rimanere tranquilli, c’era fiducia l’uno nell’altro. Il possesso difensivo contro Parker è il manifesto di quella Nazionale, con Denis in aiuto su un piccolo: eravamo pronti a tutto». Soragna, invece, mi dà il suo punto di vista, molto dettagliato, sulla scivolata di Bulleri: «Quello fu un momento drammatico, sportivamente parlando. Era un atleta incredibile, con due gambe della madonna, fortissime. Parte su quella linea laterale e la gamba perde un appoggio, a mio modo di vedere, di pura tensione. Sapeva che portando palla dall’altra parte la partita sarebbe finita: si mise subito le mani in faccia perché aveva capito tutto».

La rimessa francese è per Diaw, ma tutto il mondo, in quel momento, sa che l’ultimo tiro dei tempi regolamentari lo prenderà Tony Parker. Adesso sì, devo chiedere a Bulleri come si rimette a posto il proprio umore in mezzo secondo per andare a marcare uno degli uomini più letali della storia del gioco in uno contro uno: «Quando ho iniziato a lavorare a Limoges mi sono ritrovato a parlare con un ragazzo che lavorava nella parte amministrativa della società e abbiamo parlato a lungo di quella partita. Penso di avere fatto fallo su Tony Parker, diciamo che è stato un risarcimento per il fallo che non mi avevano fischiato sul tiro preso per chiudere Italia-Spagna la sera prima. Poi a un certo livello, in una partita di quell’importanza, ci vuole un certo tipo di fallo per lanciarsi in un fischio decisivo a così poco dalla fine. Quello su di me con la Spagna era stato molto più netto, alla fine a Parker ho rifilato un’ancata, si poteva lasciar correre». È un’ancata lieve, che si vede soltanto analizzando nei minimi dettagli i replay, ma serve a rallentare in maniera impercettibile la penetrazione di Parker, che attacca dal palleggio andando verso destra.

A quel punto tocca a Marconato, costretto ad andare in aiuto per oscurare, per quanto possibile, l’angolo di conclusione. Finge di andare in stoppata e questo, probabilmente, genera un pensiero di reazione in Parker, che aspettandosi il braccio alto di Denis cerca di modificare l’arco della conclusione. Invece Denis oppone soltanto il corpo e la forzatura di Parker gli ricade in mano. «Sono momenti in cui non devi pensare, devi agire di istinto e lì dovevo proteggere la linea del canestro tra me e Parker, sempre tenendo un occhio al mio uomo, ma eravamo certi che avrebbe tirato lui e abbiamo giocato d’azzardo. Ci è andata benissimo, abbiamo preso il rimbalzo e siamo andati alle Olimpiadi». Recalcati inizia a urlare che non ci crede mentre in campo le maglie azzurre si muovono come impazzite, da una parte all’altra. È uno di quei momenti di gioia disordinata che spesso capitano nello sport, uomini che improvvisamente tornano bambini, in preda a una felicità che non riescono a controllare. C’è chi si abbraccia, chi si sdraia sul parquet, chi salta. È Galanda il primo a prendere Recalcati e a lanciarlo in aria. Si va addirittura per tagliare la retina ma poi qualcuno ricorda ai giocatori che c’è una finale ancora da giocare e forse non è il caso. Lamma salta sulle spalle di Alessandro Cittadini, è il sogno di una vita per due ragazzi che hanno appena condiviso la stagione a Reggio Calabria: nessuno dei due riuscirà ad andare ad Atene, ma in quel momento non hanno nemmeno il tempo per pensarci. «Tutti ad Atene, tutti ad Atene con la Nazionale» urla Tranquillo nel microfono, prima di dare spazio alla già citata commozione di Franco Casalini.

«Quel gruppo è riuscito a venir fuori nel momento delle difficoltà, ognuno con i propri valori, con quello che sapeva fare. Lì torniamo alla capacità di questa squadra, sono abilità che tu impari nel lungo periodo, è uno sviluppo di cinque, sei, sette anni: capire come stare in campo, cosa fare, essere sempre nella posizione giusta. La pallacanestro può essere letta a tanti livelli, c’è una partita a scacchi che è sempre più complicata, intricata man mano che analizzi. E molto spesso si torna al livello zero: io segno, tu no. È la sua bellezza, la sua semplicità e complessità. Volevamo entrare in ogni istante della partita per fare tutte le cose che servivano per vincerla: un tiro segnato, una palla persa ma in maniera giusta. Quella è stata una vittoria di concentrazione, è stato l’aspetto in cui abbiamo surclassato i francesi, la forza mentale» mi dice Galanda, che come al solito riesce a darmi la fotografia di cui ho bisogno per mettere tutto all’interno di un disegno più grande. «In una situazione del genere, esplodi: quando sei un atleta professionista essere alle Olimpiadi non ti basta, anche se sei felicissimo, sai già che devi ricominciare a vedere a che punto sei, dove puoi arrivare. Alcuni erano già stati a Sydney e sapevano cosa volesse dire, per loro però secondo me è stato il coronamento di un percorso: dopo esserci arrivati con le stelle, adesso ci erano arrivati anche con noi» è il ricordo di Soragna di quei momenti, con la testa già proiettata al futuro.

In campo intanto prosegue la festa, Marconato, reduce da una partita da 16 punti e 10 rimbalzi, si presta alle interviste post partita dicendo che «siamo i più forti di tutti anche se abbiamo vinto solo il bronzo, perché non abbiamo stelle eppure siamo una squadra vera». «Avevamo tutti questa faccia qua, questi occhi qua» dice subito dopo Lamma ai microfoni di Sky. Abbiamo vinto un bronzo europeo e siamo alle Olimpiadi in una partita in cui i nostri playmaker hanno chiuso con zero punti e zero su sette dal campo. E allora ripenso a una frase che proprio Davide mi ha detto durante l’intervista: «Ci sono vari tipi di talento. C’è il talento al tiro, c’è il talento atletico, nel palleggio, tutto da accompagnare sempre al lavoro. Il mio talento era imparare in fretta e allenarmi per adeguarmi a quello che serviva. Eravamo un gruppo incredibilmente abituato a lavorare insieme, di squadra, e questo ha permesso anche a un giocatore come me, senza un pedigree di livello come gli altri, di entrare immediatamente nei meccanismi. Il loro modo di intendere il lavoro di gruppo era di livello spaziale. Stando attenti, entrando subito nelle dinamiche, era facilissimo aiutare e farsi aiutare. Eravamo sempre pronti a fare la cosa giusta nell’interesse della squadra, che fosse prendere o rinunciare a un tiro». Con addosso ancora il brivido di quel tiro di Parker, perché alla fine la differenza tra una vittoria e una sconfitta può essere racchiusa anche in un singolo pallone che non entra in un canestro, la festa può andare avanti.

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