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Italia-Lituania, la notte più dolce della pallacanestro italiana
27 ago 2024
Vent'anni fa l'Italbasket vinceva una delle più belle partite della sua storia.
(articolo)
13 min
(copertina)
IMAGO / Claus Bergmann
(copertina) IMAGO / Claus Bergmann
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Saulius Stombergas ha lo sguardo torvo di un serial killer, uno di quelli presi al quarto o quinto omicidio, che nemmeno si ribellano alla cattura: nel migliore dei casi fanno i complimenti alla polizia, nel peggiore la deridono per esserci arrivati così tardi. Dalla canotta bianca cadono bicipiti scolpiti, gomiti appuntiti, mani che sanno, alla bisogna, essere dolcissime. Ha passato trenta minuti da spettatore, incapace di inserirsi nel flow di una delle squadre più belle da vedere della storia recente della pallacanestro mondiale, lasciando che a prendere la scena fosse Arvydas Macijauskas, tiratore letale, un professore capace di trovarsi perennemente nei cinquanta centimetri di campo liberi per alzare la mano dall’arco.

Dopo questi trenta minuti di sostanziale anonimato, Stombergas si alza dalla panchina, butta un occhio al tabellone: i suoi sono sotto di dieci a un quarto dalla fine della semifinale olimpica del 2004. Una novantina di secondi dopo, quello stesso tabellone dice che la Lituania è improvvisamente a -1, trascinata da due triple e da un gioco "and-one" di Stombergas.

Se fosse davvero un serial killer, e sappiamo che non lo è, penseremmo che è tutto pronto, l'Italia è la sua prossima vittima, deve solo decidere quando assestare il colpo mortale. Le dodici potenziali vittime sono vestite di un azzurro che, a distanza di vent’anni, ci sembra di un’intensità così forte da stordirci. Ne mette anche un’altra, di tripla, e allora è lecito pensare che i nostri stiano davvero per soccombere. È il 27 agosto del 2004, siamo ad Oaka, ad Atene. Sullo sfondo, ovunque, i cinque cerchi. Quel braccio scolpito che si agita, quel numero 7 verde stampato sul petto bianco, quello sguardo truce, oggi non ci fa più paura. Perché quella è stata la notte più dolce della pallacanestro italiana.

Un gruppo granitico

A dirlo due anni prima, anzi, a dirlo un anno prima, ma nemmeno, a dirlo, a sognarlo, a immaginarlo due settimane prima, non ci avrebbe creduto nessuno. Gli stracci avevano iniziato a volare nel settembre 2001: Europei in Turchia, l’Italia campione in carica che si sfalda nel playoff contro la Croazia, ad Antalya, non riuscendo ad arrivare a sessanta punti, portandosi ancora nella testa e nelle gambe l’amarezza di Sydney 2000, di un’Olimpiade vissuta con l’assillo di andare a medaglia, fermandosi però nei quarti di finale contro la non straordinaria Australia padrona di casa. Boscia Tanjevic aveva dunque deciso di chiudere il suo ciclo e al timone era stato chiamato Carlo Recalcati, per tutti Charlie, lasciato a piedi da una delle più clamorose incursioni farlocche della storia del nostro basket, la settimana di delirio di Mimmetto Barbaro, che ad agosto aveva annunciato di aver preso la Viola Reggio Calabria, di aver messo in panchina Recalcati e Carlton Myers in campo, di aver scelto Sandro Santoro come GM, di avere un accordo verbale con Arvydas Sabonis, di voler mettere in piedi una polisportiva con l’acquisto della Volley Capo Sud femminile.

Non era vero niente, non c’era nulla di concreto sul tavolo nonostante una settimana di conferenze stampa altisonanti e firme su contratti valide come scarabocchi su un tovagliolo di carta. Recalcati, scottato dalla vicenda dopo aver lasciato sul tavolo un anno di contratto con la Fortitudo Bologna pur di tornare nell’amata Reggio Calabria, si era trovato libero al momento giusto. Ma era davvero giusto il momento? Conveniva davvero prendere una Nazionale che stava per incassare contemporaneamente i passi indietro di Myers e Gregor Fucka, icone del ciclo precedente che ci aveva portato sul trono d’Europa a Parigi nel 1999, e si apprestava a conoscere l’agonia fisica di Andrea Meneghin?

La prima cosa che aveva detto, davanti a una stampa inevitabilmente diffidente, aveva avuto il sapore di un percorso da lacrime e sangue: «Ho una mia idea sulla maglia azzurra: quella che si debba sempre rispondere presente. So che abbiamo stagioni intense, con troppe partite in calendario e che andrebbero ridotte. So che ci sono giocatori non vecchissimi ma abbastanza logori, più mentalmente che fisicamente. Capisco le loro necessità, io vedrò di far capire le mie. Un cavallo zoppo non serve, né possiamo sparargli per prenderne uno sano: dobbiamo curarlo».

Recalcati aveva iniziato a lavorare nella diffidenza, in un coro di "Ma chi ve lo fa fare", nella convinzione generale che il meglio fosse alle spalle e che il baratro fosse pronto a spalancarsi sotto i piedi dei superstiti. Si era aggrappato a qualche veterano di buon cuore e aveva iniziato una tournée in giro per il Paese, andando a scovare giocatori dove sembrava non ce ne fossero: un lavoro da GM oltre che da coach, con la necessità di regalare corpi a una Nazionale che ne aveva un disperato bisogno.

Aveva le sue pietre angolari, uomini conosciuti nelle sue esperienze di successo a Varese e Bologna oppure sfiorati da avversari: Giacomo Galanda, il nuovo capitano, un quattro che sarebbe al passo con i tempi nel basket di oggi, figurarsi vent’anni fa, capace di aprire il campo per tirare da tre e di far sentire i gomiti sotto canestro; Gianluca Basile, play-guardia dal range di tiro spaventoso, difensore tenace, un faticatore in grado anche di vestirsi da superstar; Denis Marconato e Roberto Chiacig, due corpi e un’anima, perfetti per dividersi i 40 minuti da centro, ognuno con le sue caratteristiche; Massimo Bulleri, nemmeno un metro e novanta di essere umano ma cosce di granito, un primo passo incontenibile, un jumper dai cinque metri da raccontare ai nipotini; Sandrino De Pol, uno dei figli prediletti di Recalcati, trasformato dal coach in ala grande versatile (e lasciato fuori alla vigilia di Atene non senza sofferenza).

Attorno aveva dovuto costruire, modellare un collettivo. Aveva pianto lacrime amare dovendo tagliare Gianmarco Pozzecco alla vigilia dell’Europeo del 2003, troppo irregolare per un gruppo che aveva bisogno di certezze e affidabilità; aveva lanciato Matteo Soragna, convinto che potesse diventare un Andrea Meneghin in miniatura; si era fidato di un ragazzo che aveva incrociato a Bergamo quand’era un ventenne che aveva una gran cartola come dicono dalle parti del suddetto ex ventenne, Davide Lamma, ai primi passi fuori dall’amata Fortitudo Bologna.

In Svezia aveva conosciuto l’inferno (il -33 preso dalla Francia nel girone a Lulea) e il paradiso (la vittoria proprio sulla Francia nella finale per il terzo posto, che oltre al bronzo continentale portava in dote il biglietto per Atene) nel giro di pochi giorni. Soprattutto, Recalcati aveva creato un gruppo di marmo, un blocco inscalfibile, nel quale aveva quindi reinserito l’amato Pozzecco, adesso sì, in grado di rappresentare un valore aggiunto e non una distrazione.

Nonostante tutto, nonostante la vittoria storica di Colonia in amichevole prima delle Olimpiadi contro gli Stati Uniti, erano bastati due passi falsi tutto sommato giustificabili nel girone contro Spagna e Serbia (all’epoca Serbia e Montenegro), per far ripartire la rumba dei critici: e allora ecco gli articoli su un gruppo senza picchi di talento, senza idee, che nasce e muore con il tiro da tre. Il passaggio ai quarti era stato vissuto in un clima di generale sottovalutazione, stemperato solo in parte dall’autorevole successo contro Porto Rico che valeva la semifinale. Sì, ma adesso vedrai, questi andranno a sbattere. O forse no.

La partita

Le possibilità di un successo azzurro contro la Lituania campione d’Europa in carica appaiono, alla vigilia, quantificabili non oltre un ottimistico 20-25%. Sarunas Jasikevicius ha fatto a fette la difesa degli Stati Uniti durante il girone, poi ci sono Macijauskas, Stombergas, Siskauskas, Zukauskas, Lavrinovic. L’Italia non riesce nemmeno a prendere confidenza con il parquet di Oaka che Macijauskas ha già crivellato il canestro, dopo neanche cinque minuti di partita è già in doppia cifra. In quintetto c’è, come da recente abitudine, Alex Righetti nello spot di ala piccola, ma ben presto Recalcati deve ricorrere a Soragna per provare ad alzare il volume della difesa azzurra. In un primo quarto in cui l’attacco azzurro fin troppo spesso si ritrova senza soluzioni, c’è da ringraziare Bulleri e Galanda, autori di canestri provvidenziali per cercare almeno di tenere sott’occhio il numero di targa dei lituani. Ritrovarsi sotto di soli sei punti dopo dieci minuti di partita, alla luce dell’esondazione di Macijauskas, è un lusso. Inizia una gara molto lontana da quella che era lecito attendersi alla vigilia: una squadra come la nostra, abituata a sporcare i possessi altrui, a trascinare gli avversari nel fango della lotta difensiva, di colpo trova una fluidità offensiva che nessuno pensava fosse possibile, con Bulleri e Pozzecco che si alternano nella gestione dell’attacco.

Uno dei temi ricorrenti del racconto, del ricordo, persino della leggenda di Italia-Lituania, è quello della difesa di Pozzecco, non proprio la specialità della casa. Recalcati sa che deve nasconderlo, può provare a farlo un po’ con la zona, ma i lituani non sono gli statunitensi, che a Colonia contro la zona orchestrata dal coach e dal suo assistente Fabrizio Frates hanno toccato vette di confusione irraggiungibili a questi livelli. Mandare Pozzecco su un Macijauskas che continua a fare canestro in ogni modo avrebbe il sapore del suicidio, cercare di fargli contenere Jasikevicius è fuori discussione. La soluzione è spedire il Poz su un avversario fisicamente più strutturato ma meno portato ad avere la palla in mano, Ramunas Siskauskas, promesso sposo della Benetton Treviso, ala piccola di due metri che rappresenta il perfetto complemento di lusso di quel quintetto. In questo modo, Pozzecco deve fare meno fatica sul punto d’attacco e allo stesso tempo ingolosisce la Lituania, che si intestardisce a cercare Siskauskas spalle a canestro per sfruttare un mismatch dal sapore del boomerang, perché a forza di intestardirsi la Lituania perde efficacia.

Una raffica di Pozzecco ci trascina fuori dal burrone con la Lituania tornata avanti in doppia cifra, segna in prima persona con un paio di arresti dalla punta che provocherebbero imprecazioni e bestemmie, se i tiri non finissero ad accarezzare la retina. Fa felici i lunghi cercandoli e trovandoli in chiusura di pick and roll, mette palla in mano a Basile e soci dietro l’arco. Non si tiene. E quando attaccano gli altri, non si sa come, ruba palla e lucra sfondamenti. Lo troviamo persino a rimbalzo. Il cronometro dice che siamo nel quindicesimo minuto nel momento in cui scopriamo, per la prima volta, cosa voglia dire essere in vantaggio, con un appoggio al vetro di Chiacig.

Ci prendiamo perfino il lusso di scappare via con due triple di quello che sarà uno degli assoluti protagonisti della serata, Gianluca Basile, fino alla semifinale mai all’altezza della sua fama anche per via di una condizione fisica tutt’altro che ottimale, con Recalcati che nell’ultima gara di girone contro l’Argentina aveva addirittura scelto di tenerlo a riposo. L’intervallo finisce per guastare la sua striscia, per il momento è a cinque su sette da tre: sono 15 punti pesantissimi, così densi da essere paragonati ai 24 di Macijauskas (sui 43 complessivi dei lituani).

Iniziano così dei minuti che provocano inevitabili riflessioni in Recalcati, che negli spogliatoi deve decidere con che quintetto ripresentarsi in campo. Rinunciare a Pozzecco è impossibile, ma un quintetto con lui, Bulleri e Basile rischia di rendere troppi centimetri alla Lituania. La via di mezzo scelta dal coach prevede la rinuncia al Bullo, con Soragna da tre per tenere alto il livello della difesa. Si comincia provando la zona, è un disastro: Jasikevicius si accende di colpo, chiudiamo gli occhi, li riapriamo e la Lituania è lì, dopo aver trovato il pareggio.

Una delle abilità principali di Recalcati è quella di tenere tutti, in maniera costante, al centro del progetto. In una Nazionale senza stelle conclamate, ognuno deve essere in grado di mettere il suo mattoncino. Bulleri entra e mette subito cinque punti preziosissimi, quasi senza accorgersene la Lituania è di nuovo sotto in doppia cifra. Songaila ricuce, Galanda dilata nuovamente il gap. Si arriva così al 73-63 accennato all’inizio, allo sguardo da serial killer di Stombergas, ai novanta secondi che puzzano di tempesta perfetta, in grado di spazzare via tutto e tutti, anche quest’Italia bella come poche se ne erano viste nella storia. Dopo la raffica del numero 7, due liberi di Zukauskas riportano la Lituania avanti. Arriva l’altra tripla di Stombergas, ma è l’ultima. Basile, mefistofelico, riesce a spostare un pallone quanto basta per farsi travolgere dall’avversario: è il suo quinto fallo, ci saluta con sette minuti ancora da giocare. Nemmeno Macijauskas fa più paura, perché Soragna gli si sta quasi infilando dentro i pantaloncini pur di non fargli ricevere un pallone pulito.

Si entra nei cinque minuti che portano alla sirena, 79 pari. Tenete a mente il numero, perché quello che riusciranno a fare i nostri eroi da qui alla fine ha dell’incredibile. Soragna, oltre a essere monumentale in difesa, piazza canestri fondamentali per rimettere e tenere il naso avanti. Poi rientra Galanda, che era rimasto fuori per ragioni di falli, e scuote la retina per quello che è un canestro generazionale: chi c’era, chi l’ha visto dal vivo, ha ancora nelle orecchie e negli occhi l’urlo del nostro capitano e il suo volto trasfigurato.

Galanda che per la Nazionale ha dato tutto, che c’è sempre stato ogni volta che arrivava la chiamata, Galanda che difende e attacca, che va a rimbalzo e tira da tre, che si sporca le mani se c’è da marcare la stella avversaria e sa a sua volta essere mortifero dall’altra parte del campo. Galanda che non sbaglia mai una scelta, che è preda dell’istinto ma sa persino come e quando sbagliare un tiro, perché tra una tripla presa con la squadra potenzialmente esposta al contropiede e una con tutti i compagni a posto passa un’enorme differenza. Galanda che si è fatto carico, come e più degli altri, di un passaggio d’epoca che rischiava di lasciare la pallacanestro italiana scottata, senza riferimenti. Galanda che torna verso il proprio canestro, il nostro canestro, con l’Italia avanti di sette. Galanda che all’improvviso diventa nazional popolare rimanendo però schivo e serio, granitico nei suoi valori.

Adesso la Lituania è confusa, sente che la partita gli sta scappando di mano, perché mancano due minuti e mezzo alla fine e l’Italia vede il traguardo vicinissimo. La spallata finale gliela dà un altro canestro rimasto nella leggenda del nostro basket, con Basile che si trova a raccattare il pallone tra i piedi con il cronometro dei 24 secondi agli sgoccioli, in una condizione disperata. Ma in una serata come questa, Basile si nutre di questa disperazione, la cavalca, la trasforma in nobiltà cestistica. Prende e segna uno dei tiri più ignoranti, come da sua prediletta definizione, di una carriera costruita in palestra, con il sudore che ti cala sugli occhi e ti sporca la vista quando è già annebbiata di suo dalla fatica.

La panchina italiana sta per tracimare e il più esaltato di tutti è Dino Meneghin, quattro Olimpiadi vissute da giocatore con tanto di argento olimpico a Mosca nel 1980. Baso continua a segnare, da tre, dalla lunetta, segnerebbe anche tirando direttamente dal Pireo verso Oaka, a venti chilometri di distanza. Finisce 100-91, in meno di cinque minuti sono arrivati 21 punti e se non sono i migliori cinque minuti della storia della nostra pallacanestro, fate voi la classifica.

Sono passati vent’anni, da quel momento abbiamo giocato una sola Olimpiade. Ci siamo illusi, quest’anno, al momento del sorteggio del Preolimpico: prima Porto Rico, poi realisticamente la Lituania, in un doppio scontro che poi si è effettivamente verificato. Le abbiamo affrontate di nuovo, come nel 2004, ed è andata male. Qualcuno di voi, magari, è andato su Youtube e si è rifugiato nel passato, cercando di dimenticare la sofferenza sportiva trovando conforto nei ricordi. Nel corso degli ultimi mesi ho avuto l’onore, la fortuna, l’enorme privilegio di parlare con quasi tutti i protagonisti di quella squadra: ognuno perfettamente consapevole del proprio ruolo, del proprio posto nella storia, senza per questo sforare nell’inutile protagonismo. E tutti, in un modo o nell’altro, mi hanno ribadito il desiderio di vedere un’altra Italia del basket in grado di arrampicarsi così in alto, a un passo dall’oro olimpico. Chissà se accadrà mai.

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