Nell’autunno del 1993 la Francia era in testa al proprio girone di qualificazione per Usa ‘94, le bastava un punto nelle ultime due partite per avere la certezza matematica. Doveva giocare con Israele - ultimo in classifica, con sei sconfitte e un pareggio, che la Francia aveva battuto 4-0 in Israele un anno prima - e Bulgaria. Entrambe le partite si giocavano a Parigi, al Parc des Princes. La Francia aveva in attacco la coppia Papin-Cantona: il primo aveva vinto quattro campionati consecutivi con il Marsiglia, la sua prima Serie A con il Milan, il Pallone d’Oro; il secondo era da poco emigrato in Inghilterra e aveva vinto sia con il Leeds che la prima Premier League con il Manchester United. In panchina c’era David Ginola, che si lamentava di giocare poco, Gerard Houllier pensava di metterlo fuori squadra.
Nella prima partita la Francia va in svantaggio, ribalta il risultato e si fa raggiungere sul 2-2. Poco male, se non fosse che Israele con un contropiede nei minuti di recupero segna il 2-3. Basta, ancora, solo un pareggio con la Bulgaria. Va in vantaggio, la Bulgaria pareggia ma con la palla nella trequarti e il punteggio sull’1-1 la Francia è comunque qualificata. E invece, con l’ultimissima palla tra i piedi vicino alla bandierina del calcio d’angolo, David Ginola crossa al centro di un’area vuota, la Bulgaria riparte e Kostadinov segna il gol del 1-2 che li qualifica al Mondiale americano al posto dei francesi. Houllier se la prende con Ginola ma la pagherà anche lui stesso, come Cantona, che salterà l’Europeo del ‘96 giocato nella “sua” Inghilterra (la Francia uscirà ai rigori nel “suo” Old Trafford). Quattro anni e mezzo dopo Ginola, a trent’anni, non giocherà il Mondiale del 1998 con Zidane e Djorkaeff. Mondiale a cui la Francia non ha dovuto qualificarsi, ospitandolo, e che poi ha vinto, come l’Europeo del 2000.
Quella della Nazionale francese, che non aveva partecipato neanche al Mondiale precedente, Italia '90, è una storia quasi paradigmatica di come da un fallimento tremendo possa nascere un ciclo virtuoso. È una storia non così diversa, in fondo, da quella del Belgio che poco dopo la delusione di Italia ’90 avvia una rivoluzione del proprio calcio guidato dai nuovi metodi di formazione di Michel Sablon che, nel giro di quindici anni, porterà una nazionale tutto sommato piccola in cima al ranking Fifa.
Sono storie a cui guardiamo istintivamente dopo una sconfitta "incredibile", per usare le parole di Roberto Mancini. Ma sono storie che ci riguardano? Ancora? Non ci siamo già passati?
La mia generazione, quella nata tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, è cresciuta anestetizzata dalla teoria della “Fine della storia” (il titolo originale del libro di Francis Fukuyama, oltretutto, è The End of History and the last man, anche se il nome di questo sito non viene da lì bensì dal romanzo distopico di Mary Shelley), con la noia di chi ha raggiunto, addirittura, l’apice dell’evoluzione umana. Come ci si sente, invece, a vivere in mezzo alla storia? Due anni di pandemia, una guerra potenzialmente mondiale, nucleare, la crisi climatica che ha messo le marce veloci e - con una drammaticità certo diversa - l’Italia che non si qualifica al Mondiale per due edizioni consecutive.
Non era mai successo prima, a noi e a nessun’altra “grande” squadra moderna (oltre alla Francia c'è l'Uruguay '94-'98 e ancora indietro negli anni ottanta l'Olanda e nei settanta l'Inghilterra). Con in mezzo un Europeo vinto, poi. Assurdo. Senza senso. Difficile cercare ragioni razionali, figurarci storie che possano ispirarci. Quattro anni fa, dopo l’eliminazione con la Svezia, si era parlato di «apocalisse», «tragedia», «catastrofe». Abbiamo usato tutte le parole utili quattro anni fa, adesso sembrano finite. Sembra uno scherzo. Giorgio Chiellini, sempre quattro anni fa, lo aveva definito «il punto più basso della mia carriera». Che dire di questo allora, di punto? Chiellini è entrato in campo all’89' con in mente i supplementari e tre minuti dopo si è visto sfilare dietro la schiena il tiro di Trajkovski diretto giusto giusto all’angolino più lontano per Donnarumma.
Quattro anni fa Gigi Buffon, al termine di un’intervista in lacrime, strappacuore, quando gli è stato chiesto se c’era un futuro di cui parlare, ha risposto con una sicurezza interiore rassicurante: «Il futuro c’è». Stavolta Chiellini non ha pianto, ma sembrava una persona a cui uno scagnozzo aveva appena infilato la testa in un lavandino pieno d’acqua per costringerlo a parlare. «Rimarrà sicuramente dentro di noi un grande vuoto», ha detto. «E spero per il futuro che questo vuoto possa dare quell’energia che abbiamo avuto negli anni scorsi, per ripartire». Non bisogna essere un fisico, però, per sapere che dal vuoto non si genera proprio nessuna energia . Il vuoto, semmai, è proprio l’assenza di energia. (edit: in realtà è sempre meglio essere un fisico, nel senso che mi hanno fatto notare che nel vuoto c'è dell'energia, dovuta alla "fluttuazione quantica", che insomma, d'accordo, ma anche lasciando perdere il fatto che quello non è un vuoto assoluto, e che il vuoto assoluto non si conosce in natura, anche ripartire dalla "fluttuazione quantica" del calcio italiano potrebbe non bastare questa volta).
Foto di Alberto Pizzoli / Getty Images.
Quattro anni fa eravamo arrivati ai playoff con la Svezia perché nel girone avevamo la Spagna a cui eravamo stati nettamente inferiori, perdendo 3-0 nella partita di ritorno. La squadra di Ventura veniva quel ridimensionamento duro, non si era mai ripresa, pareggiando proprio con la Macedonia poco dopo. Era una squadra triste, uscita giocando con un 3-5-2 che sembrava vecchissimo. Una squadra di cui ci siamo vergognati, che ha perso la doppia sfida con la Svezia in modo persino ridicolo, crossando 51 volte verso l’area di rigore svedese nella sola partita di ritorno, con De Rossi che contesta la scelta dell’allenatore di farlo entrare in campo nei minuti finali. Era anche una Nazionale meno forte di questa, con Florenzi mezzala, Parolo che ha avuto l’unica occasione chiara della partita di ritorno (un colpo di testa finito di poco fuori), con Darmian e Candreva sugli esterni, Gabbiadini seconda punta.
Subito dopo la sconfitta di ieri, con quella strana aria assente che assume dopo le sconfitte, gli occhi sbarrati e lo sguardo vitreo, con una leggera fretta nella voce che prende il posto del tono calmo e senza sforzo che di solito ha, Roberto Mancini ha detto che vuole «più bene» oggi ai suoi giocatori di quanto non gliene volesse lo scorso luglio. Anche Chiellini ha ribadito di essere «orgoglioso» di questa squadra. Che poi è la stessa che ha vinto un Europeo difficile, resistendo con le unghie e con i denti alla Spagna ma battendo bene il Belgio, recuperando lo svantaggio con l’Inghilterra in finale, a Wembley, vincendo «meritatamente» - come si è sentito in dovere di specificare ieri Mancini stesso.
Eppure è anche la squadra che ha perso la prima partita in casa nella storia delle qualificazioni mondiali. Una squadra che non segna un gol dal 2 settembre scorso - il gol del vantaggio con la Bulgaria, Chiesa che parte da destra, taglia verso il centro, triangola con Immobile e conclude di sinistro a incrociare - e che ha vinto solo due delle ultime 10 partite giocate - con il Belgio in Nations League, e sempre con il Belgio aveva vinto la partita precedente, durante l’Europeo. Una squadra che pareva scarica, forse demotivata, sicuramente stanca. Una squadra che ci stavamo preparando a vedere eliminata dal Portogallo, forse lo avremmo persino accettato, e invece si è fatta eliminare la Macedonia del Nord, subendo due tiri in porta in tutta la partita.
In casi del genere si dice che una squadra si è segnata da sola, come una specie di “desiderio di morte” che prende forma inconsapevolmente, una profezia che si autoavvera, l’attesa di una delusione che, sotto sotto, crea i presupposti per la delusione stessa. Oppure, magari, è stata solo sfortuna?
Foto di Jonathan Moscrop / Getty Images.
Certo, la sfortuna è parte di quello che è successo. Quel tipo di sfortuna che un po’ ti meriti. Che non è la sfortuna di un passante a cui cade un vaso in testa, quanto piuttosto la sfortuna di chi sbatte la testa sempre sullo stesso stipite, di chi si chiude tre volte fuori casa, di chi fa l’incidente col motorino il giorno dell’esame per cui non ha studiato. La sfortuna di Berardi che riceve palla dai piedi del portiere avversario e non riesce a segnare a porta vuota. La sfortuna di Jorginho che sbaglia due rigori in altrettante partite decisive, uno addirittura a pochi minuti dalla fine, rigori a cui «penserò per tutta la mia vita, purtroppo».
Volendo si possono cercare altri dettagli crudeli in questa manciata di partite che ci è costata il nostro secondo Mondiale consecutivo, dodici anni, minimo, senza partecipare alla Coppa del Mondo. Nella partita di andata con la Svizzera, ad esempio, sempre Berardi aveva avuto sui piedi un’occasione piuttosto semplice, lanciato in contropiede da Locatelli, arrivato da solo davanti a Sommer gli ha calciato, piano, praticamente addosso. Contro la Bulgaria, a mezz’ora dal termine, Chiesa si è liberato in area girandosi sul destro e arrivando solo davanti al portiere, ma non è riuscito a scavalcarlo mentre usciva.
Per non parlare della crudeltà del gol bellissimo di Widmer, un tiro da fuori che “entra una volta nella vita” dopo una bella azione di Okafor in transizione; di quello di Iliev, dopo la grande azione di Despodov che ha saltato Florenzi in campo aperto e crossato di esterno al centro dell’area; e poi certo di quello di Trajkovski che per un attimo, solo un attimo nella sua carriera, è sembrato Kevin De Bruyne. Ma insomma, ci possiamo lamentare perché dei giocatori più normali dei nostri fanno qualcosa di eccezionale? Perché non lo hanno fatto i nostri? E perché, visto che sono anche tre situazioni tattiche simili, non abbiamo messo a posto i problemi in transizione?
Il calcio si gioca sui dettagli, lo sappiamo bene, ma dopo sconfitte così gravi, soprattutto quando capitano due volte di seguito, è difficile fermarsi a questi. Si tende, al contrario, a fare analisi il più larghe possibili. Si parte dagli undici in campo e si arriva al sistema di formazione e selezione, al rapporto tra nazionale e club, tenendo sempre presente che se solo Jorginho avesse segnato un rigore. Se solo Berardi avesse segnato a porta vuota. Se solo uno tra Emerson e Chiellini avesse provato a contrastare Trajkovski anziché scappare all’indietro. Se Jorginho non avesse perso qualche frazione di secondo a protestare per un possibile fallo di mano…
Foto di Jonathan Moscrop / Getty Images.
Qualche giorno fa Roberto Mancini ha detto di volersi fidare dei ragazzi. E in campo, contro la Macedonia del Nord, ha messo in campo i “titolari”, sostituendo solo Bonucci e Chiellini non ancora al meglio. È stato questo l’errore? La fedeltà a pochi giocatori che, in un certo senso, va anche contro l’idea di una squadra forte anche perché non ha fenomeni, un gruppo unito con un livello medio alto, in cui nessuno è davvero insostituibile? Sarebbe cambiato qualcosa con Scamacca, Zaccagni o Zaniolo in campo? Sarebbe cambiato qualcosa convocando Caprari o Frattesi? E se invece ci fosse stato Federico Chiesa, sarebbe bastato (ricordiamoci però che durante l’Europeo abbiamo dovuto fare a meno, in corsa, di Spinazzola che era il miglior giocatore del torneo)?
Sono domande inutili, oggi, anche se è vero che in Italia fatichiamo a cambiare, a sperimentare, a innovare a tutti i livelli, e che anche in questo caso Mancini avrebbe potuto osare qualcosa di più. Ed è vero anche in Italia i giovani, tranne poche eccezioni, faticano a conquistarsi la fiducia degli allenatori. A livello dilettantistico sono dovute intervenire riforme molto vincolanti per far mettere in campo diciottenni che altrimenti, persino in Promozione o Eccellenza, facevano la panchina a ultratrentenni. E quando giocano, i giovani vengono giudicati da media e tifosi con una severità e un cinismo autolesionista. Più in profondità, ci deve essere qualche problema strutturale se più o meno con gli stessi abitanti della Francia e dell’Inghilterra non abbiamo i nostri Mbappé e Jadon Sancho, per non parlare del settore giovanile norvegese o di quello inarrivabile spagnolo.
Ma questa di Mancini nel suo piccolo - che è sempre il piccolo dei campioni d’Europa - era già una squadra rappresentativa di una piccola svolta rispetto a quella del 2017. Ci sono giovani adatti ai ritmi e alle richieste tecniche del calcio contemporaneo (Barella, Bastoni, Tonali, Raspadori, Pessina, per non parlare di Chiesa o delle possibilità che si giocheranno in futuro Scamacca, Zaniolo, Frattesi, Rovella, Ricci) e giocatori arrivati nel proprio picco giocando per squadre italiane o europee di prima fascia (Verratti, che contro la Macedonia del Nord ha giocato benissimo, Jorginho, Donnarumma). E sicuramente era una squadra in grado di battere la Macedonia del Nord, non era un problema di uomini.
Anche dal punto di vista tattico era una squadra magari un po’ prevedibile, con difficoltà a entrare negli ultimi metri di campo e a costruire un’occasione pulita contro squadre chiuse, ma la proposta di gioco è aggiornata, ambiziosa e valorizza la tecnica. Forse la sola lezione che possiamo trarre da questa sconfitta tremenda è che nel calcio non c’è niente di semplice, né stabile. Che non ti puoi fermare o accontentare di quello che hai ottenuto, che non c’è una ricetta, una formula magica, per arrivare al successo. E che non puoi neanche parlare sempre e solo delle qualità tecniche, fisiche o morali dei giocatori in campo, altrimenti non vai da nessuna parte. Può sembrare banale ma in un Paese che tende a semplificare e polarizzare qualsiasi dibattito e, quando si parla di calcio a cercare l’errore, il colpevole, il difetto caratteriale - saranno stati pigri, o arroganti, quanto possono cambiare le stesse undici persone in così pochi mesi? - in cui scrivendo un post su Facebook mentre il proprio figlio gioca al parco, o facendo una storia su Instagram guidando nel traffico, si pensa di avere la soluzione per risolvere una guerra, una pandemia, per far qualificare la propria nazionale al Mondiale, forse è una lezione di cui abbiamo bisogno.
Abbiamo bisogno di studiare e di imparare da chi fa meglio di noi. Prima ancora, abbiamo bisogno di rispettare chi fa meglio di noi, o diversamente da noi, senza sminuirlo perché magari non ci piace, perché dice cose con cui non siamo d’accordo. E poi abbiamo bisogno di provare cose nuove, fare cose che non abbiamo ancora fatto, pazziare, divertirci anche a costo di sbagliare. Anzi, adesso che non abbiamo niente da perdere abbiamo proprio bisogno di sbagliare, pasticciare, di fare un casino sperando che ne venga fuori qualcosa di utile. Quindi, abbiamo bisogno di pazienza. E poi abbiamo bisogno di fiducia in chi ci sta vicino, di sentirci parte di qualcosa di unico, e non perché essere “italiani” ci renda migliori di chi non lo è, ma perché solo collaborando, includendo e non escludendo, possiamo costruire qualcosa di valido e duraturo.