C’è sempre un senso dell’ineluttabile intorno alle cadute recenti dell’Italia. Cambiano i giocatori, cambiano gli allenatori, ma rimane la sensazione che la Nazionale non possa fare altro che arrendersi al proprio destino, anche quando basterebbe davvero poco per cambiarlo: bastava un gol contro la Slovacchia nel 2010 e contro la Svezia nel 2018, sarebbe bastato addirittura non perdere contro l’Uruguay nel 2014; e probabilmente sarebbe bastato portare la contesa ai supplementari per avere ragione della piccola e tenace Macedonia del Nord.
In ognuno di questi fallimenti l’Italia non è stata in grado di capovolgere l’inerzia del confronto. Da fuori o da dentro, c'è la sensazione che il risultato sia compromesso prima di entrare in campo. La prassi è la stessa: arrivano un pareggio o una sconfitta inattesi, l’ambiente si incupisce e per osmosi la squadra cade in un vortice di negatività, perde tutte le proprie certezze e anche il più piccolo degli avversari appare imbattibile. L’Italia va sempre al tappeto al primo colpo, non riesce mai a reagire. Un atteggiamento impensabile per una grande squadra e contrario anche al modo in cui ci piace raccontarci: una Nazionale che dà il meglio di sé spalle al muro, nelle difficoltà.
Stavolta, va detto, la gara decisiva non è stata disastrosa come le altre grandi sconfitte degli ultimi dodici anni. Di solito l’Italia cede al piano partita degli avversari, si dimostra inadeguata innanzitutto dal punto di vista tattico. Invece ieri la squadra di Mancini, per due terzi di campo, ha eseguito alla perfezione il proprio spartito: sicura nel possesso e nel portare tanti uomini sopra la linea della palla, eccellente sia in fase di pressing che di riaggressione. Tutti gli elementi di modernità tattica con cui l'Italia ha cambiato il proprio corso storico negli ultimi anni. La Macedonia, a differenza della Svezia nel 2017, ha fatto poco per portare il match dalla propria parte. Non ci siamo trovati di fronte neanche la classica Nazionale scomoda, che spezzetta il gioco a suon di falli e perde tempo ogni volta che la palla va fuori.
La Macedonia del nord era un avversario che non cercava sotterfugi e che non aveva nemmeno l'arma del contropiede. Innocua rispetto alla Svezia, che aveva dettato il contesto tra lanci, gomitate sui contrasti aerei e spazzate dei suoi difensori.
La grande costante di tutte queste sconfitte, al di là del clima plumbeo intorno alla squadra, diventa allora l’incapacità di risolvere la contesa dalla trequarti in su. È un tema che si lega a tanti problemi. Sono anni, ormai, che lamentiamo genericamente l’assenza del "fuoriclasse", del numero dieci in grado col solo talento di guarire ogni male degli azzurri. Questa poteva essere una scusante valida per giustificare 2010, 2014 e 2018, dove l’Italia non aveva proprio idea di cosa fare col pallone. Non lo è del tutto per la partita di ieri, dove sarebbe bastato anche qualcosa di meno di Baggio o Totti per piegare la Macedonia, vista la puntualità con cui la Nazionale ha assediato l’area avversaria, senza perdere la bussola di cosa fare con la palla. Forse sarebbero bastati proprio quei giocatori che hanno giocato, magari in una giornata migliore, magari in una forma più simile a quella che vediamo in Serie A.
Chi lascia la strada vecchia per quella nuova...
L’Italia di Mancini occupa sempre con ordine tutti i corridoi offensivi, ma molto del suo rendimento dipende dallo stato di forma degli interpreti. Forse per il poco tempo a disposizione nei ritiri, l’Italia non cerca rotazioni troppo elaborate e così di volta in volta può essere un ricorso individuale, ben canalizzato nel sistema, a cambiare faccia al nostro attacco. Di solito si trattava di una rifinitura di Insigne, di una finta di corpo di Berardi, di un break di Barella o della verticalità di Chiesa e Spinazzola. Ieri non c’è stato niente di tutto questo. L’Italia è rimasta piatta, poco ispirata vicino all’area, e la scelta di Mancini di rinunciare a Zaniolo e Zaccagni, profili di tutt’altro spessore atletico e agonistico, prima che tecnico, sta facendo discutere.
Un po' per fretta, un po' per necessità, un po' per rispetto del proprio percorso, Mancini ha pensato di non dover abbandonare sentieri già battuti. Così, nonostante le indicazioni del campionato, si è presentato a Palermo con i titolari degli Europei, eccezion fatta per la difesa. Con Chiellini e Bonucci di ritorno dai loro infortuni, il CT ha puntato sull’inedita coppia Bastoni-Mancini, mentre per sostituire Di Lorenzo ha seguito le gerarchie affidando il ruolo di terzino destro a Florenzi.
L’Italia si impossessa subito della metà campo avversario ed effettua le sue classiche rotazioni in fase di possesso. Florenzi rimane vicino ai due difensori da terzo centrale di destra, con Mancini al centro e Bastoni terzo centrale di sinistra. Sul lato dell’interista, Emerson si alza sull’altezza dei trequartisti per occupare l’ampiezza, con Insigne nel mezzo spazio, mentre a destra a occupare la linea laterale si alternano Berardi e Barella, per ampi tratti della gara più largo dell’ala del Sassuolo. Gran parte del possesso, ovviamente, passa da Jorginho e Verratti, con l’abruzzese libero di sistemarsi su più altezze per attirare gli avversari e creare buchi nelle linee macedoni.
La Nazionale di Milevski, senza più Pandev e senza lo squalificato Elmas, gioca con un blocco difensivo medio-basso, compatta in un 4-4-2 asimmetrico. Preoccupato di coprire soprattutto il lato forte del possesso azzurro, quello di Insigne, Verratti ed Emerson, il ct macedone assegna compiti diversi agli esterni di centrocampo. Sulla costruzione dell’Italia e anche nella propria metà campo, l’esterno sinistro Trajkovski stringe su Florenzi, mentre l’esterno destro Churlinov si abbassa anche fin sulla linea difensiva per dare una mano al terzino Ristovski contro l’accoppiata Insigne-Emerson. Per il resto, i mediani rimangono a copertura del centro, con Nikolov in particolare incaricato di affrontare Verratti, e la seconda punta Bardhi marca a uomo Jorginho. In alcune fasi, quello della Macedonia sembra un 5-2-2-1, con Trajkovski e Bardhi quasi in linea visto il loro riferimento su Jorginho e Florenzi. Si forma, insomma, quasi un quadrilatero davanti alla difesa, con lo scopo di negare sviluppi al centro e di indirizzare il possesso dove forse Milevski sapeva che l’Italia non aveva troppo talento differenziale: sulle fasce.
La squadra di Mancini costruisce con pazienza, occupa tutti i corridoi verticali, ma arrivata sulla trequarti è costretta a fermarsi. Gli aiuti di Churlinov al terzino destro diventano l’ostacolo più grande per la partita dell’Italia. Senza spazio per convergere, su quel lato, Insigne si limita al cambio gioco verso Berardi o Barella aperti. Una situazione a volte anche forzata: di solito costruire il cambio gioco significa far ricevere il compagno sul lato opposto in situazione di vantaggio, con spazio per provare l’isolamento. Per l’Italia, però, non è così, con la Macedonia pronta a scivolare senza troppa fatica da sinistra verso destra dell’attacco azzurro.
Eppure la soluzione per scardinare la difesa l’avevamo trovata, Marco Verratti aveva indicato chiaramente la strada. È amaro constatare che due delle migliori prestazioni con l’Italia di un talento così puro, siano arrivate in due delle partite più tragiche della nostra Nazionale, ieri contro la Macedonia e nel 2014 contro l’Uruguay. Verratti ci ha provato a offrire spiragli, con quella capacità unica di far credere agli avversari di essersi infilato in una situazione scomoda. Li invita a lasciare dei buchi e per poi uscire dal pressing e ritrovarsi con più campo da attaccare. Attraverso il suo talento nel magnetizzare le marcature e di conservare il pallone, Verratti è riuscito ad allontanare Churlinov dal terzino Ristovski e a permettere a Emerson e Insigne di ricevere sul lato corto dell’area di rigore. Verratti, controllato all’inizio dal mediano Nikolov, tiene palla fino a quando Churlinov non pensa sia possibile uscire a pressarlo. Ristovski, grazie a Churlinov, poteva permettersi di rimanere stretto vicino ai centrali. Così, appena Churlinov si alza su Verratti, Ristovski rimane troppo stretto e la Macedonia fatica a coprire l’ampiezza: Insigne e Emerson possono ricevere e condurre fin dentro l’area. Da lì, devono essere loro a fare la differenza, soprattutto l’ala del Napoli.
Davanti a lui Insigne non trova mai lo spunto né per calciare né per rifinire, nonostante la zona favorevole. Una volta, per esempio, tira sulla schiena del difensore, un’altra volta sbaglia il controllo. In generale, non dà mai l’idea di poter creare vantaggi. Se è vero che il dribbling non è proprio nelle sue corde, Insigne di solito trova la giocata giusta per accumulazione. Ieri non ha mai trovato l’ispirazione di spostarsi palla e risolvere, magari con un tiro o un cross.
Nel suo Diario degli Europei, Daniele Manusia aveva scritto: «Se vorrà farla crescere Mancini dovrà fare autocritica. Non dovremo ripetere l’errore fatto nel 2006, cioè. E d’accordo questa squadra non è a fine ciclo, a differenza di quella, ma Mancini non dovrà sentirsi in debito con nessuno. Dovrà continuare a sperimentare, a fare ricerca. […] Se davvero vogliamo fare di questa vittoria storica un punto di partenza, dobbiamo guardare in faccia anche quello che non ha funzionato». Mancini, invece, si è agganciato alla tradizione degli altri CT vincenti, di Lippi e Bearzot, che hanno preservato il gruppo storico senza innovare.
Per rimanere in alto, invece, occorre ritoccare mentre si è al top, sostituendo di volta in volta i pezzi non più funzionali. Le scelte in attacco, invece, sono indicative del conservatorismo post Europei. Insigne, Immobile e Berardi, di norma, bastano a battere la Macedonia? Certamente. Il campionato non ha creato nessuna risposta italiana a Mbappé? Chiaro. Però Spinazzola ha dimostrato che bastava un esterno più aggressivo e verticale a dare tutt’altro senso all’attacco dell’Italia, e lo stesso vale per Chiesa. È troppo semplicistico invocare Zaniolo o Zaccagni come salvatori della patria, il loro curriculum non lo giustifica. D'altra parte, però, avrebbero permesso di arieggiare il nostro attacco, senza farlo appiattire su cambi gioco poco vantaggiosi e tentativi di uno contro uno abortiti. Non c'era bisogno di troncare di netto con i titolari, ma si poteva integrare qualcosa di diverso per rendersi meno prevedibili. O per individualità, o per nuovi pattern offensivi, qualcosa rispetto all’Europeo andava cambiata per forza. Vale anche per la posizione di centravanti, dove la variabile dello scatto in profondità a chiamare il lancio di Florenzi non riesce comunque a dare senso a Immobile in un sistema lontano dalle sue caratteristiche.
Ma vale pure per la difesa, dove qualche partita in più con Bastoni titolare avrebbe di certo aiutato a sfruttare meglio le sue caratteristiche. Con Churlinov basso e tanto spazio nel corridoio intermedio di sinistra, il centrale dell’Inter avrebbe potuto esasperare ancora di più l’uso delle conduzioni. A fine primo tempo, col mediano Nikolov su Verratti, Churlinov sulla linea difensiva per controllare Insigne e il terzino Ristovski stretto su Emerson nel mezzo spazio, Bastoni inizia a portare palla tagliando le linee, fino a giungere in area. Dentro i sedici metri, per l’Italia ci sono altri quattro uomini. Di questi, solo Immobile prova a smarcarsi sul secondo palo, gli altri restano fermi. Bastoni quasi si inventa il filtrante per la punta della Lazio, intercettato in extremis da un difensore. È un peccato non avvalersi in maniera costante del talento dell’interista in conduzione: un giocatore capace di leggere gli spazi e arrivare in zone profonde di campo palla al piede può essere un’ottima variabile per una squadra con problemi offensivi.
Integrare volti nuovi, cambiare meccanismi e abitudini, serve proprio a evitare la stagnazione di cui è stata preda la Nazionale. È un discorso più ampio dei singoli nomi. Magari non abbiamo i fuoriclasse, ma i modi per ampliare i nostri registri c’erano. Banalmente, sperimentare può essere utile a sopperire anche ai cattivi momenti di forma dei propri pretoriani. Barella per esempio è un pilastro della Nazionale da cui ripartire nel prossimo ciclo. Ieri, però, è stato poco lucido, come in tutto il suo ultimo periodo. Ci sono stati momenti della partita in cui Verratti aveva attirato l’uomo scoprendo il lato del centrocampista sardo, che riceveva con spazio per condurre. Una situazione perfetta per un giocatore come lui, eppure spesso ha finito per forzare il cross o la palla per Immobile invece di prendere scelte più razionali - magari servire Berardi libero sulla corsa. Allo stesso modo, si sono visti poco i suoi tagli verso il fondo. Ancora una volta, non ci saranno fuoriclasse, ma la Serie A di centrocampisti italiani con cui provare qualcosa di diverso, quest’anno ne ha prodotti.
Da dove ripartire?
Così, la nostra produzione offensiva si aggrappa sempre di più al recupero alto della palla, sia col pressing sia con la riaggressione. Se la Macedonia imposta in maniera canonica con i quattro difensori, Immobile va sul centrale in possesso e le ali si orientano sui terzini. Se uno dei mediani fa la salida lavolpiana, a seconda del lato Verratti o Barella si alzano sulla stessa linea di Immobile.
Molte occasioni capitano proprio grazie al gegenpressing. L’Italia attacca con ordine, in zona palla nell’ultimo terzo di campo ci sono tanti uomini e così è più facile riaggredire. Bastoni e Mancini possono difendere in avanti e trovano un contesto confortevole. Gli azzurri rubano spesso palla con gli avversari disordinati. Ancora una volta, il protagonista è Verratti, il più abile a coniugare recuperi e rifinitura. Il centrocampista del PSG libera i compagni dietro la difesa o li fa ricevere in situazioni particolarmente vantaggiose. Di nuovo, però, la scarsa lucidità nelle scelte penalizza l’Italia.
Il vero rimpianto è che la Nazionale non ha neanche bisogno di esacerbare l’intensità di pressing e gegenpressing, perché la Macedonia commette tanti errori banali, non forzati. Il più eclatante di tutti, quello del tiro di Berardi a porta vuota, oggi invocato come momento in cui l’Italia ha perso la qualificazione. Su una costruzione dal basso, la squadra di Milevski effettua la salida lavolpiana, col mediano Ademi che si abbassa e il centrale sinistro Musliu che si apre, mentre più avanti il terzino Alioski stringe verso il centro del campo. La palla va al portiere Dimitrievski, Barella e Immobile presidiano i riferimenti a lui più vicini, Jorginho segue Bardhi che si propone a centrocampo e Berardi rimane a metà tra Alioski al centro e Musliu aperto. Dimitrievski si porta la palla sul sinistro e prova a verticalizzare per Alioski, un passaggio di facile lettura che Berardi intercetta con largo anticipo. Purtroppo, l’ala del Sassuolo calcia come se il pallone fosse sgonfio, o come se il terreno del Barbera fosse fradicio.
Berardi nel secondo tempo ha provato a rimediare con i suoi dribbling d’astuzia e qualche tiro, ma non c’è stato verso di cambiare il risultato. Per quanto stoica, la vittoria della Macedonia, alla fine, è piuttosto casuale. Un tiro da quasi trenta metri in cui forse si può dare la colpa a Jorginho di non aver commesso fallo su Trajkovski; ma davvero, a rigor di logica, conveniva concedere una punizione sulla trequarti all’ultimo minuto? La sfortuna ha giocato un ruolo decisivo nella nostra eliminazione, come sottolineato anche da Mancini. Purtroppo, però, non si è fatto abbastanza per evitarlo.
Eppure le direttrici non sono da abbandonare. Essere così organizzati da potersi permettere di creare attraverso un pressing organizzato, per esempio, non è da tutti, soprattutto nel calcio delle nazionali. Il progetto, che nessuno avrebbe discusso fino a qualche mese fa, sembra comunque quello giusto, proprio perché in assenza di grandi nomi bisogna battere altre strade. Il conservatorismo delle scelte, non solo nei nomi ma anche riguardo alla mancanza di nuovi pattern offensivi, potrebbe essere un grave ostacolo nel percorso della Nazionale. Se però le fondamenta del progetto sono solide, allora è giusto crederci e apportare i necessari correttivi, a prescindere da un tiro della disperazione che in qualunque altra linea temporale non sarebbe mai entrato.