Cadendo anche noi nella pigra abitudine giornalistica di improvvisare paragoni calcistici nel commento di altre discipline, si potrebbe dire che il quarto titolo mondiale del Settebello ha seguito una parabola simile a quella dell'Italia di Enzo Bearzot al Mondiale 1982: una prima fase a gironi piena di nuvole e una seconda fase devastante, con la Spagna – lì Paese ospitante, qui ultima rivale – come comune denominatore; un gruppo d'acciaio, un campione discusso e poi provvidenziale nel momento del bisogno, una grande classica che ha rappresentato la svolta, un rettilineo finale da standing ovation.
L'oro del Settebello è certamente il più inatteso della trionfale spedizione italiana ai Mondiali di Gwangju e ha risvegliato l'orgoglio e i ricordi di molti appassionati che solitamente riscoprono l'amore per questo sport non più di una volta all'anno. Il tweet di una penna di lungo corso come Angelo Carotenuto, per tanti anni cronista di pallanuoto sulla Gazzetta dello Sport, ha spiegato bene la waterpolo ai profani: «La pallanuoto insegna ai ragazzi il controllo del corpo, l’uso della forza, la lettura di una scena, l’applicazione di un metodo, la ricerca di un gesto difforme che scompagini. Fatica. Astuzia». Tutti dettagli e qualità che ritroviamo nelle tre partite decisive dei ragazzi di Sandro Campagna, culminate nella spettacolare vittoria per 10-5 contro la Spagna: per ritrovare una Nazionale italiana di qualsiasi sport così dominante all'atto finale di un grande torneo bisogna tornare forse alle vittorie da schiacciasassi dell'Italvolley di Julio Velasco.
È stato un Mondiale particolare, per tutti semplificato dal “chiamarsi fuori” della Serbia che, dopo aver ottenuto il pass olimpico grazie alla vittoria nella World League, ha schierato una formazione sperimentale. È stato un Mondiale storico, il primo con i nuovi accorgimenti regolamentari (i 20 secondi dopo “il rimbalzo”, la possibilità di riprendere dopo un fallo dal punto in cui si trova il pallone) che nei piani limiteranno la forza fisica ed esalteranno velocità e destrezza. Riprendendo la metafora del Mundial 1982, chi è stato il Paolo Rossi del ct Campagna? Probabilmente l'oriundo Gonzalo Echenique, la cui genialità laterale è intuibile anche dal suo luogo di nascita, Rosario.
L'argentino è stato largamente il peggiore della squadra nelle prime quattro partite, anche al di là dell'espulsione per brutalità all'esordio contro il Brasile che gli è costato anche una giornata di squalifica contro il Giappone, salvo mantenere la fiducia del ct e ripagarlo con uno strappo improvviso e devastante e tre gol in sei minuti nel momento più difficile della semifinale Italia-Ungheria: una partita che, per definizione dello stesso Campagna, sta alla pallanuoto come Italia-Brasile sta al calcio.
Leggermente favorita nei pronostici e nelle quote dei bookmaker, la Spagna arrivava alla prima finale mondiale del decennio dopo aver inflitto ai detentori croati un 6-5 più netto di ciò che diceva il punteggio: in particolare, impressionante era risultata la fase difensiva, in grado di tenere i campioni del mondo inchiodati a quota 2 gol per tre quarti di gara. Era opinione comune che la forza offensiva degli iberici girasse attorno soprattutto a due giocatori: il giovanissimo (20 anni) Alvaro Granados, capocannoniere della squadra con 15 gol, e il lìder maximo Felipe Perrone, capitano e faro tecnico e carismatico. I nostalgici ricordavano con emozione le due finali vinte dal Settebello di Rudic, quella del Picornell a Barcellona 1992 risolta da Nando Gandolfi al sesto supplementare e quella dominata al Foro Italico ai Mondiali di Roma 1994 con il profetico punteggio di 10-5. Ma l'ultimo grande Italia-Spagna era molto più recente e avvelenato: la semifinale degli Europei 2018 con gli spagnoli vittoriosi per 8-7 anche grazie a un gol ingiustamente non convalidato a Figlioli a 4 secondi dalla fine, qualche mese prima che venisse adottato il VAR anche nella pallanuoto.
Una finale preparata benissimo
Nel grande condominio della pallanuoto maschile, dove c'è davvero poca differenza tra Europei, Mondiali e Olimpiadi, ci si conosce tutti a memoria e preparare una grande partita può essere semplice ma anche difficilissimo. Nell'immediato post-gara della semifinale Campagna aveva detto che avrebbe fatto leva sulle motivazioni e sulla cattiveria agonistica di un gruppo di cui erano evidenti la classe e il talento ma anche i passaggi a vuoto (per esempio, l'intero primo quarto contro l'Ungheria); ma il nostro ct ha elevato la qualità della nostra fase difensiva fino a livelli assoluti proprio nella sera più importante, e i suoi ragazzi sono stati bravi a massimizzare le minime occasioni, impedendo alla Spagna per 32 minuti su 32 di ritrovarsi in una situazione di vantaggio che li avrebbe esaltati, con testa libera e braccio sciolto.
L'inizio è stato radicalmente diverso da quello sonnacchioso contro i magiari. Il Settebello è andato a segno alla prima superiorità numerica con Luongo, mandando subito un segnale preciso alla temuta difesa spagnola. Erano sotto gli occhi di tutti la fluidità della circolazione di palla e lo stato di grazia tecnica dei vari Di Fulvio, Echenique e Luongo; al contrario la Spagna entrava subito in un circolo vizioso secondo il quale più i compagni si aggrappavano a Perrone, più Perrone si faceva prendere dalla frenesia di voler fare tutto da solo. Con Granados schiacciato dalla pressione della prima finale mondiale in carriera, Munarriz poco ispirato e Tahull e De Toro soffocati dalla nostra difesa iper-aggressiva, il Perrone contro tutti fruttava alla Spagna i primi due gol, mentre gli azzurri si prendevano il loro tempo per venire a capo dello scacchiere difensivo spagnolo che invitava i nostri a tirare dal perimetro (ci provava invano due volte Di Somma). Il 2-1 di Echenique, in capo a un'azione lunga e laboriosa, veniva appunto annullato da Perrone; ma la tensione delle furie rosse era visibile nel linguaggio del corpo a bordo vasca del ct Martin, molto più agitato di Campagna, e nel rigore del possibile vantaggio Spagna sparacchiato da Barroso addosso a Del Lungo, nell'episodio che chiudeva il primo quarto e rappresentava il primo punto di svolta della partita.
Il motivo per cui Pietro Figlioli è stato premiato man of the match della finale, dopo una partita di grande sostanza ma in cui altri nostri giocatori erano stati più scoppiettanti, risiede nella giocata che ha stappato l'equilibrio in avvio di secondo quarto: una fiondata da otto metri imprendibile per Lopez Pinedo che rappresentava la risposta alla strategia difensiva spagnola via via sempre più passiva e schiacciata (in questo momento riassumibile con la frase “Tirate, tirate”) ed era anche il primo gol segnato in parità numerica.
La Spagna andava in tilt perché al contrario l'Italia iniziava a difendere sempre più in avanti, una zona-pressing che toglieva il fiato e mortificava ancora di più gli attaccanti spagnoli, già non ispiratissimi e ora costretti a forzare assurdamente giocate evitabili con un secondo di ragionamento in più. Perrone veniva espulso per una trattenuta su Bodegas; gli azzurri concretizzavano la superiorità successiva con un giro-palla celestiale concluso alla grande da Dolce. Come diceva Tom Cruise in “Codice d'Onore”, uscito pochi mesi dopo la finale olimpica, il messaggio era cristallino: l'Italia si faceva un baffo della difesa spagnola e la sforacchiava a ripetizione dove faceva più male.
Così arrivava il magnifico 5-2, con un magnifico Dolce che pescava Renzuto in beata solitudine a due metri da Lopez Pinedo, dopo aver tagliato fuori De Toro. Avremmo potuto anche dilagare ma lo sfortunato Di Somma, che ha concluso il suo Mondiale con zero gol all'attivo, si divorava a porta vuota il 6-2 dopo un'altra azione ubriacante. Martin vedeva nero e spendeva il primo time-out, in uscita dal quale la Spagna giocava peggio di prima: Perrone si sentiva LeBron James e andava a concludere dopo soli cinque secondi, alto, male.
Dopo lo show dei primi quattro minuti l'Italia rallentava, flirtava col cronometro, si poneva come obiettivo la conservazione del +3 all'intervallo lungo, ma accusava quello che forse era l'unico passaggio a vuoto della sua finale. Luongo falliva un aggancio non impossibile e una distrazione collettiva portava a un 2 contro 2: fallo su Perrone a metà tra Figari e Del Lungo e secondo rigore. Munarriz non sbagliava e nel minuto che ancora mancava all'intervallo la Spagna aveva persino la chance di riportarsi sotto a -1. Ma nuovamente ci esaltavamo nell'inferiorità numerica: il corpaccione di Aicardi murava uno spentissimo Fernandez e si girava 5-3.
Per tornare al tweet iniziale, il terzo momento di svolta della finale è stato un omaggio a due qualità della pallanuoto di tutte le epoche, la fatica e l'astuzia. Le riassume il centroboa, il ruolo attorno a cui ruota la pallanuoto moderna. Avevamo lasciato Aicardi in generosissimo ripiegamento difensivo a fine primo tempo e lo ritrovavamo furbo, flessuoso, sinuoso, “un'anaconda” come ha urlato l'ispirato Dario Di Gennaro in telecronaca, sgusciare in mezzo a tre difensori per glorificare il suggerimento di Echenique. Per gli spagnoli era una mazzata e gli azzurri li sfidavano a guardia bassa con la zona a M per cercare la controfuga che avrebbe ucciso la finale. Mentre quelli annaspavano inseguendo vaghe iniziative personali, arrivavano altri due gol, diversi e ugualmente bellissimi, che rendevano bene lo stato di grazia collettivo degli italiani in vasca e a bordo vasca. Echenique fintava il suggerimento per Velotto e invece allargava per Dolce che se ne stava ai sette metri bello alto, tonico, coordinatissimo, la rappresentazione plastica del desiderio evocato da Campagna a metà torneo: “Se anziché stare mezzo metro sott'acqua ci stai solo venti centimetri, i tuoi tiri entrano e i tiri degli altri non passano”. Il tiro baciava il palo alla destra di Lopez Pinedo e ci portava sul +4. Ancora più tragico per gli spagnoli era il coast to coast che seguiva 23 secondi dopo, da una palla persa sulla trequarti, con Di Fulvio vera faina nel pollaio: una rete inaccettabile da subire per tutto ciò che si era detto e annunciato alla vigilia.
Sull'8-3 potevamo legittimamente pensare solo a difendere senza remore psicologiche. Campagna faceva ampi gesti di mantenere la calma, ma la flemma che stava mantenendo da inizio partita è quella di chi, come rivelerà alla fine, aveva capito “di averla vinta già nella riunione”. Un controfallo fischiato a Bodegas dava inizio a un lungo periodo di arbitraggio a senso unico dal sapore vagamente misericordioso, che avrebbe portato alle espulsioni definitive di Di Somma e Figari, senza conseguenze. Perrone era calato molto ma quantomeno si destava dal torpore Mallarach; le idee della Spagna erano talmente al lumicino che d'ora in avanti il pallone sarebbe sempre stato scaricato in zona 1, e che ci pensasse il mancino del Barceloneta. Non poteva funzionare e infatti in chiusura di tempo c'era gloria difensiva anche per Renzuto, che fermava splendidamente Mallarach invano proteso a chiedere il terzo rigore per la Spagna.
Si arrivava all'ultimo quarto più anomalo del Mondiale. La Spagna era a zero gol in parità numerica e ci sarebbe rimasta, mentre sulle tribune del Nambu Aquatics Center spuntavano quei tricolori che poi probabilmente sono gli stessi che ritroviamo in ogni angolo del mondo quando c'è un'Italia che vince. Le ultime ninfee che pescavamo erano il gol del 9-4 di Luongo, con Lopez Pinedo ad alzare idealmente bandiera bianca, e la rete-manifesto della partita a un minuto dalla fine, con la Spagna un po' pateticamente allungata e le sue convinzioni tattiche del tutto sbrindellate. Francesco Di Fulvio si era già preso l'immagine di copertina della vittoria sull'Ungheria con uno di quei numeri da fuoriclasse che si vedono sempre meno nella pallanuoto cristallizzata di oggi (“la ricerca di un gesto difforme che scompagini”, ricordate?). Aveva segnato il gol del 5-4, il gol del sorpasso, con un concentrato di pura classe e freddezza per il dribbling sul difensore Sedlmayer e la finta a disorientare il portiere Nagy: una rete che era anche un bignami della nuova regola sui calci di rigore, molto più severa con chi interrompe fallosamente un'azione d'attacco all'interno dei 6 metri.
Adesso decideva di non addomesticare un pallone lanciato in avanti ma di toccarlo al volo per Bodegas con l'equivalente pallanotistico di un colpo di tacco. Bodegas ci aggiungeva il carico da dieci di una beduina che lasciava fermo un Lopez Pinedo più sconcertato che rassegnato. A quel punto, con grande umiltà, la Spagna decideva di congelare il pallone e l'ingresso del portiere di riserva Nicosia dava il via alla festa azzurra, amplificata dal fatto di essere diventata l'unica Nazionale capace di quattro titoli mondiali – staccata, a quota 3, l'Ungheria.
La vittoria di Sandro Campagna
Una vittoria così netta e un trionfo così limpido del gruppo e della forza delle idee non possono che mettere davanti a tutti Sandro Campagna, il quarto ct della storia dello sport italiano a vincere due titoli mondiali dopo Vittorio Pozzo (calcio, 1934-1938), Julio Velasco (volley, 1990-1994) e Pierluigi Formiconi (pallanuoto femminile, 1998-2001). Un ct vincente, carismatico, eccellente comunicatore come dimostra anche il suo lavoro da commentatore tv, forse sottovalutato anche per non essere ancora riuscito a centrare l'oro olimpico (e comunque, un argento a Londra e un bronzo a Rio...).
A eccezione del traumatico esordio a Roma 2009 (undicesimo posto!), le sue sono sempre state nazionali mature anche durante la fase di costruzione, che hanno chiuso e aperto cicli ma senza mai prendersi lunghi periodi di transizione, sempre improntate al risultato più che al progetto velleitario. Lo dimostra il radicale cambio di atteggiamento tra la prima e la seconda fase o ancora più clamorosamente il cambio di registro difensivo tra Ungheria e Spagna, filosofie pallanotistiche agli antipodi che abbiamo saputo disinnescare con metodo, intelligenza, arte di adattarsi e di sopravvivere.
Infine, quest'impresa conferma la felice connessione tra la nostra pallanuoto e il continente asiatico dove – mettendoci anche l'Australia - abbiamo vinto gli ultimi quattro titoli mondiali: Perth 1998 e Fukuoka 2001 le donne, Shanghai 2011 e Gwangju 2019 gli uomini. Un discreto biglietto da visita per le prossime Olimpiadi.