
Ivan Ergic si è ritirato nel 2011, a soli 30 anni, al termine di una carriera giocata prevalentemente al Basilea e conclusa al Bursaspor. Nel 2005 ha rilasciato un’intervista alla TV svizzera in cui ha esposto i propri problemi di depressione, dichiarando di voler rompere il tabù della depressione nel calcio. Nel 2006, dopo aver partecipato ai Mondiali in Germania, decide di ritirarsi dalla Nazionale serba, non sopportando l’ambiente ultranazionalista attorno alla squadra. Oggi partecipa attivamente al dibattito politico: dal 2008 ha uno spazio come colonnista sul quotidiano Politika e collabora con le riviste Novi Plamen e TagesWoche. Emanuele Giulianelli lo ha intervistato per L’Ultimo Uomo.
Perché hai deciso di diventare calciatore?
È accaduto spontaneamente: sono cresciuto in una cultura in cui il calcio è nella quotidianità ed è un’importante subcultura. In Yugoslavia il calcio è parte della tradizione ed è giocato ovunque: in strada, nelle scuole o nelle squadre giovanili. Anch’io sono stato contagiato sin dall'infanzia: e a un certo punto ho dovuto decidere se continuare e seguire la strada del professionismo, oppure fare un’inversione e dedicarmi alla mia istruzione. Per me, in quel periodo, il calcio era l’unica scelta perché non ero in grado di immaginare la mia vita senza il pallone.
Cosa ricordi della tua breve esperienza alla Juventus?
La Juventus e il Basilea mi comprarono dal Perth Glory, in Australia, e il mio cartellino apparteneva per il 50% a entrambi i club. Ho trascorso solo un paio di settimane alla Juventus, negoziando il contratto e svolgendo qualche allenamento, ma mi sono trasferito quasi immediatamente in Svizzera. All’inizio, e anche in seguito, ebbi alcune spiacevoli esperienze con dirigenti del club bianconero. Atteggiamenti e situazioni comuni a tutte le grandi squadre, a differenza di quello che molte persone possono pensare.
Sei stato uno dei protagonisti del primo storico campionato vinto dal Bursaspor. Cosa vuoi raccontarmi di quel periodo?
In Turchia ho vissuto una grande esperienza, non solo per quel titolo conquistato. A Bursa ho incontrato il primo allenatore nella mia carriera che mi disse che il fair play era più importante per lui che vincere. In quella stagione il Bursaspor vinse anche il premio per la squadra più corretta, per me significava più del campionato conquistato. Se giochi pulito e se hai comportamenti corretti in un mondo del calcio così machista vieni preso in giro e ridicolizzato: quando dico che sono orgoglioso del fatto che in tutta la mia carriera non sono mai stato espulso e sono stato ammonito solo un paio di volte, mi sento chiamare rammollito, gay, signorina o appellativi del genere. Nonostante, poi, sappia per esperienza che molti di quei calciatori che fanno gli uomini duri siano in realtà dei codardi.

Qual è il più bel ricordo della tua carriera calcistica?
Non ho un ricordo in particolare. Molti di questi sono relativi al gioco, alle partite, con o contro certi calciatori o stadi particolari. Ci sono sfide che da bambino sogni di giocare e, da quel punto di vista, io non sono diverso dal calciatore medio: se ne devo menzionare una dico giocare contro il Barcellona, quel Barcellona che per me è la squadra migliore della storia del calcio [Il Barcellona di Guardiola, ndr]. Mi considero un romantico del calcio e quella squadra riconciliava l’efficacia con l’estetica, cosa che molti allenatori considerano impossibile.
E il più brutto?
Nella mia carriera ho avuto molte esperienze negative. Di nuovo, non parlerei di un cattivo ricordo in particolare, ma in generale mi riferisco a quel genere di cose di cui i calciatori hanno paura di parlare, come gli infortuni, i problemi mentali, imbattersi in ogni genere d’imbroglioni e criminali negli affari e molte altre. Sicuramente il ricordo peggiore è la mia malattia mentale, a causa della quale ho dovuto smettere di giocare per un periodo e mi ha fatto pensare che non avrei mai più potuto scendere in campo.
La depressione: te la senti di parlarne un po’?
Credo che siano stati molti i fattori che hanno causato la mia depressione. La mia famiglia ha avuto una vita davvero difficile, essendo profughi, e abbiamo portato con noi i traumi della guerra. Dopo esserci trasferiti in Australia, le cose hanno iniziato a succedere molto rapidamente per me e già dopo la prima stagione disputata da professionista iniziai a ricevere offerte importanti da grandi club europei. Non ero mentalmente pronto per tutto ciò, perché significava un’enorme pressione, da parte degli altri, ma anche da me stesso. Dall’inizio, dai primi due campionati disputati, ho sentito una specie di difficoltà nel sentirmi un calciatore. Non riuscivo pienamente a identificarmi negli atteggiamenti e nei valori, nello stile di vita del calciatore medio, così come nei rapporti con le persone, con la filosofia del calcio e in molti altri aspetti.
È una malattia comune nel calcio?
È comune in tutti gli sport, ma non se ne sa abbastanza perché i protagonisti del mondo del calcio, le istituzioni, i club e i funzionari non vogliono sporcare l’immagine del calcio come sport bellissimo, umano e popolare. Ma il calcio non è più così, è diventato un business, più brutale, distaccato e commercializzato che mai. E questo è il motivo per cui vogliono nascondere le patologie che l’industria calcistica genera, allo stesso modo in cui il capitalismo sociodarwinistico cela i suoi difetti e la sua natura disumanizzante. Lo sport non è nient’altro che il prodotto dell’attuale epoca socio-storica e delle sue dottrine.
Hai rimpianti?
Non sono il tipo di persona che rimpiange le cose. Puoi rimpiangere solamente le decisioni se eri pienamente consapevole delle conseguenze e, nonostante ciò, sono andate male. Ciò che trovo frustrante nel calcio è che tu entri in quel mondo quando sei così giovane che, per natura, non puoi essere conscio o abbastanza attrezzato per affrontare tutte le sfide. Solo verso la fine della carriera tu raggiungi la piena consapevolezza delle regole, dei valori e delle logiche del football business: ma a quel punto, per molti calciatori, è troppo tardi. Ed è proprio la ragione per cui i giocatori raccolgono così tanta attenzione: sono facili da manipolare, commercialmente, politicamente e da altri punti di vista.

Hai preso parte ai Mondiali del 2006 con la Nazionale serba, poi hai deciso di rifiutare le convocazioni perché l’ambiente della Nazionale era troppo vicino all'ultra-destra.
Ultra-destra, a mio modo di vedere, è un eufemismo per fascismo, che è un sentimento molto forte in tutta la regione. Ma penso che in generale, non solo nei Balcani, i tifosi di calcio siano inclini verso i valori della destra, con poche eccezioni influenzate da forti tradizioni politiche locali come il St. Pauli o il Livorno. Lasciai la Nazionale per molti motivi e il disprezzo per i forti sentimenti nazionalistici è stato uno di questi. La Nazionale di calcio diventa una delle istituzioni che riproduce il nazionalismo e il collettivismo irrazionale, a un passo dallo sciovinismo, dalla xenofobia, dall’omofobia, dal razzismo. Il calcio nella sua forma moderna di spirito ipercompetitivo può solo amplificare questi atteggiamenti militaristici: è per questo che i tifosi sembrano andare in guerra e non a una partita di calcio. Non ho nulla contro alcune forme di patriottismo romantico o iconografico, ma con la mancanza di intelligenza emotiva c’è una linea molto sottile che lo separa dal fascismo.
Cosa diresti a un ragazzo che oggi volesse diventare un calciatore professionista?
Molti ragazzi e genitori mi chiedono delle mie esperienze e del calcio in generale. Io provo a essere realista e onesto, ma allo stesso tempo attento a non portar via i loro sogni. Se qualcuno ha un forte desiderio di diventare un calciatore, chi sono io per convincerlo del contrario? Ma dev’essere una scelta informata e i giocatori hanno il diritto di sapere cosa li aspetta, dal momento che loro vedono solo l’aspetto incensato e glamour. Sfortunatamente molti ragazzi non hanno altra opinione se non la possibilità di tirar fuori la propria famiglia dalla povertà.
Se dovessi dire cosa non ti piace nel calcio giocato, invece?
Lo sport è il darwinismo nella sua forma più pura e il machismo è solo una delle forme di quel brutale spirito competitivo. In più il calcio ha perso il suo valore estetico e tutto è orientato al risultato, che è il prodotto di una tendenza generale di questa epoca e dello spirito di questi anni: non è qualcosa che viene dal calcio stesso. Il calcio manca di visione, gli allenatori amano presentarsi come grandi strateghi, ma non c’è una teoria, un pensiero calcistico autentico che possa rivoluzionare il gioco e farlo andare oltre le statistiche, le strategie, le tattiche e, in generale, la scientificazione del calcio.