È l'estate 2011, l'Atalanta ha vinto il campionato di B da poche settimane, Giacomo Bonaventura deve compiere ventidue anni. Va a parlare con Cristiano Doni: la maglia col 10 è rimasta libera, lui sta pensando di chiederla e vuole il parere del leader della squadra. Doni gli dice: “Vai, buttati”. E Jack se la prende, fa la prima stagione in A col numero che sognava da ragazzino. “Non è un peso, è una responsabilità”, spiega, “E a me le responsabilità piacciono”.
Spesso viene rappresentato come una persona dimessa. Troppo bravo-ragazzo per alzare la voce, troppo asciutto per entrare duro. Lo deve smentire: “Non sono così timido”, in un'intervista che comunque esce col titolo: La forza della timidezza.
Ha molto carattere, invece, può sfiorare la sfrontatezza. Ai tempi di Bergamo, spiegava: “Io non ho timori reverenziali verso i grandi campioni”. E anche al Milan l'ha confermato, di non tirare indietro la gamba: se c'è da impattare contro le critiche di Zvone Boban, se c'è da lamentarsi con la società per una sosta a Dubai che è “marketing più che preparazione”.
Pochi mesi prima di trasferirsi al Milan, spiega d'aver fatto di tutto per arrivare al punto in cui è. Che al tempo significava un ruolo importante nell'Atalanta e un profilo da emergente in Serie A. Di tutto, per Bonaventura, vuol dire lavorare finché ne ha. E infatti è lui stesso ad aggiungere su cosa ha costruito il proprio percorso: “Determinazione, generosità, impegno, ambizione".
San Severino Marche, provincia di Macerata, ha dodicimila abitanti. Jack Bonaventura è di qui, del rione Taccoli, ci è nato il 22 agosto 1989. Ed è l'orgoglio della città, dice una canzone che gli hanno dedicato nel paese e che alterna “Il numero dieci tu sei” a “Il numero uno tu sei”.
Il padre fa l'operaio, ha creduto molto più della madre che Giacomo potesse farcela nel calcio. Giacomo che ama faticare e quando è già un calciatore del Milan e della Nazionale dice: “Sarei stato perfetto per la vita da cantiere”. Giacomo che da bambino tifava Juventus, cresciuto con i poster di Zidane e Del Piero in camera. Il giorno dell'ultima partita di “Pinturicchio” nel proprio stadio, lui è suo avversario in campo e gli stringe la mano emozionatissimo.
A San Severino c'è un'opera importante, la Madonna della Pace, dipinta proprio dal Pinturicchio da cui discende il soprannome di Alex. Il suo, di soprannome, “Jack”, è meno evocativo, più normale. Gliel'hanno dato a Bergamo, se l'è portato anche al Milan. Nel paese era stato sempre Gia' o Giacomi'. L'unico che lo chiama “Giacomo” è il compagno Andrea Poli: “Secondo me oggi c'è chi non sa neanche come mi chiamo davvero”.
Ospite d'onore al municipio di San Severino Marche.
L'Atalanta ci mette gli occhi nel 2000. La rotta dalle Marche a Bergamo riguarda, nello stesso periodo, Guido Marilungo. Che è di Montegranaro, cinquanta chilometri da San Severino, ed è nato tredici giorni prima di Jack. Entrambi vengono scoperti da Massimo Di Luca e Alessio Pala, entrambi oggi giocano in Serie A. Ma entrambi i loro provini, allora, vanno male. Bonaventura è troppo magro e gracile, viene rimandato a casa.
Alcuni mesi dopo, Pala torna alla carica: vieni a giocare un torneo con l'Atalanta. Anche quel test, però, è un fallimento: il ragazzo è stanco per le ore di macchina, sostiene Pala. Sembra tutto finito. Passano i mesi e gli anni, Jack gioca per piccole squadre marchigiane.
Fino al 2005.
A San Severino c'è una premiazione del campionato Allievi. Bonaventura è solo uno spettatore, in piazza. Tra gli altri, lo riconosce, c'è Alessio Pala. Jack si avvicina, gli chiede se si ricorda, gli spiega che è stufo di giocare al Tolentino. Pala risponde che a Bergamo non ha modo di portarlo. Ma ha un'intuizione: in piazza per la premiazione c'è il dirigente di una squadra affiliata all'Atalanta, il Margine Coperta, dove si è formato Giampaolo Pazzini. Così Bonaventura va a giocare in provincia di Pistoia, lascia casa. Si dice: “Ora non puoi deludere te stesso, né gli altri”.
E mantiene quella promessa: nel marzo 2006, solo pochi mesi dopo esser arrivato in Toscana, la Dea chiama.
All'Atalanta arriva quindi a sedici anni, a diciotto debutta in Serie A. Ma giocherà davvero in prima squadra soltanto a ventuno. Il percorso è accidentato, dovrà battagliare per avere fiducia. Addirittura la società mette in conto di perderlo, nel 2010, quando il Padova non esercita il diritto di riscatto su di lui. Il Padova che si era salvato dalla retrocessione anche grazie a lui.
Prima dei biancoscudati, Jack aveva fatto alcuni mesi in prestito al Pergocrema, Serie C, dove soffriva per una pubalgia e confessò a un amico di voler smettere. Gli anni di difficoltà poi presero la forma della gavetta. E il riscatto cominciò, con grande forza simbolica, da una promozione in Serie A.
La prima delle quattro stagioni all'Atalanta segna la sua affermazione. Jack trova fiducia e minuti, fa 9 gol e 5 assist, trascina la squadra alla vittoria del campionato di B. Da allora diventa titolare e si consacra come uno dei migliori talenti italiani. Il primo gol della sua vita in A, contro il Napoli al San Paolo, è una bella girata di prima. Subito dopo, Jack si lascia cadere, guarda in alto e praticamente non esulta.
Gli anni a Bergamo.
A Bergamo incontra Stefano Colantuono, che lo mette emotivamente alla prova e lo rimprovera “fino alle lacrime”. Parallelamente, in Under 20, Francesco Rocca svegliava lui e gli altri ragazzi alle sei e li faceva mangiare pochissimo: “Ci spiegava la sofferenza nel calcio”.
Saranno questi due allenatori a formare la sua personalità, spiega Jack. Perché, ne è convinto: “Non è vero che si nasce con una personalità forte: la si può costruire nel tempo”.
Lui si definisce “un tipo normale”. In verità non pare affatto, soprattutto per il mestiere che fa. È uno che suona blues, con la chitarra che a Tolentino gli permise di sfogare la frustrazione per non essere considerato dal mister. Uno che si accusa di essere poco egoista e cattivo, “troppo tranquillo: il calcio è un mondo spietato”. Uno che fa ragionamenti complessi, anche in pubblico.
Teorizza per esempio che se non fosse stressato sarebbe meno forte, perché si sbatterebbe meno. Ed essendo forte trova più spazio, se seguiamo il filo logico, il che significa ottenere quello che sembra il fine ultimo: “Giocare con continuità mi ha permesso di conoscermi meglio”.
Bonaventura è atto, conseguenza. Volere, potere. “Ognuno è quello che desidera essere”. “La differenza la facciamo noi stessi. Contano la volontà, l'impegno, la forza interiore”. “Ci sono troppe cose che determinano un risultato, conta solo concentrarsi su quelle con cui lo determini tu”.
A proposito dei risultati, ma forse in termini più generali, ha detto: “L’unica cosa in cui credo fortemente è la voglia di lottare e di migliorarsi”. E tutto questo determinismo si dirige verso un obiettivo: “La carriera di un calciatore è corta, bisogna cercare di raggiungere le ambizioni” come ha detto arrivato al Milan.
Evidentemente il rischio è chiedere troppo a sé stesso. “Credo si possa fare sempre meglio”, ha spiegato, ed è un concetto grosso e arzigogolato come una corda per impiccarsi. La pericolosità di quel concetto, però, Jack la conosce, e lo dice: “Nella vita serve il giusto equilibrio. Il calcio ti gonfia l’ego, bisogna stare attenti”.
“Mi mancava il calcio, sono contento di ricominciare ad allenarmi. È sempre bello fare i ritiri” diceva appena finite le vacanze estive nel 2013. Il gusto della fatica lo accompagna: “Se finisco un allenamento o una partita stanco morto, mi sento felice”. Certo, l'imprinting è quello di Bergamo, dove “nelle tabelle considerano la capacità di soffrire quanto quella aerobica”. Ma l'imprinting deve mescolarsi a una tendenza innata.
Bonaventura sembra leggere ogni cosa dalla prospettiva del lavoro, della fatica. Quando gli fanno i complimenti per i calci piazzati, risponde: “Sì, per i calci piazzati mi alleno”. Quando gli chiedono cosa gli piaccia di meno nel mondo del calcio, risponde: “Ci sono troppi che dicono di lavorare senza in realtà fare nulla”. A Bergamo, l'ennesima volta che lo stuzzicano col what if del cognome straniero che gli manca, saresti già in una grande, eccetera, lui risponde secco: “Più che farmi il culo in campo non posso far niente”.
“Io sono uno tutto casa e bottega” ha detto una volta. Da casa sua però se n'è andato da ragazzino, e oggi vive vicino allo stadio San Siro. La bottega sembra il centro di tutto.
Quando si presenta al Milan, sorride: “Era da tanti anni che aspettavo un'occasione così importante. Il sudore e il sacrificio mi hanno portato qui. Spero sia un punto di partenza”. Giusto alcuni mesi prima confidava di credere nel salto di carriera: “Non mi è ancora passato davanti l'ultimo treno”.
Decide di non portarsi a Milanello la chitarra. “Per non disturbare gli altri” dice, ed è sicuramente vero. Ma dev'esserci anche altro, anzi non esserci: la frustrazione di quando cominciò a suonarla.
L'unico col sorriso.
L'ultimo giorno del mercato estivo 2014, Bonaventura è a Milano per vestire i colori dell'Inter. La trattativa si inceppa, legata alla cessione di Guarín che non si sblocca. Prova a inserirsi il Verona, ma torna forte l'Inter. Poi salta tutto e Jack si convince che resterà all'Atalanta. Invece arriva una telefonata. E lui si ritrova a firmare col Milan.
Galliani la racconta così. Alle 20 si scopre che Biabiany ha problemi cardiaci e non andrà in rossonero. L'AD sta a Casa Milan, mangia dei toast e beve due spritz. Vuole aspettare la chiusura delle 23, non si sa mai possa succedere qualcosa. Alle 21:30, a poche centinaia di metri da Casa Milan, ci sono per caso il presidente dell'Atalanta, l'amministratore delegato, il direttore generale, Bonaventura e il suo agente. Galliani li invita, riescono a trovare l'accordo. Un colpo dell'ultimo momento, un giocatore che a lui era sempre piaciuto.
Jack la tratteggia in modo diverso. Il trasferimento saltato all'Inter l'aveva scosso. Quando si apre la possibilità del Milan teme sia uno scherzo. E quando si ritrova a firmare, piange. Per stress, non per commozione: “Era stata una giornata pesantissima, piena di discorsi che un calciatore non dovrebbe sentire. La gente non si rende conto di quanto il mercato per noi sia anche logorante”.
“Sono molto felice di essere rimasto in Italia, vuol dire che anche per i giovani italiani c’è speranza di rimanere” ha detto dopo la firma col Milan.
I sette milioni del suo cartellino suonano come un investimento relativo, una cifra che potrà diventare fonte di poco rimpianto. Oggi si considera che quel cartellino sia triplicato di valore. Titolare dalla prima stagione rossonera, l'anno scorso ha servito ben 10 assist. Che sono aumentati di molto, in confronto a Bergamo, a discapito dei gol segnati. Allontanato dalla porta, ha imparato ad aiutare meglio la squadra, migliorando ancora la fase difensiva e toccando più palloni. E al Milan, per quanto possibile, si è imposto come una guida nel caos.
La prima volta a Bergamo da avversario, segna una doppietta. Il secondo gol (3:00) non lo vuole fare, palesemente: è solo in area a ricevere il lancio, fa un brutto stop o un brutto tiro, il pallone va sul palo e gli ritorna addosso, lui fa un mezzo dribbling e segna per inevitabilità.
Già ai tempi di Padova, quando aveva vent'anni, poteva fare il trequartista, la mezzala o l'esterno d'attacco. Bonaventura è uno dei pochissimi jolly superstiti, di quelli che si mettono a disposizione delle necessità e non hanno più un unico, proprio ruolo.
Questo calcio dalle figure definite non gioca volentieri la carta dell'adattabilità, la guarda con sospetto. Duttile fa rima con debole, il jolly ha l'ombra dell'impersonalità e non la luce dell'opportunità.
In proposito, una volta Jack ha detto: “La specializzazione è una deriva sbagliata: ti aiuta a esplodere, ma poi devi migliorare, cambiare, adattarti”. E in un'altra occasione dava l'allarme che il rischio nel calcio fosse l'omologazione, assomigliarsi tutti. La sua rivendicazione ha più forza perché ha significato sacrificare l'amore verso il 10, lui che da bambino si ispirava ai fantasisti, “Stavo attaccato alla tv per vedere Rui Costa”. Lo racconta con una premessa: “Il calcio è anche fatica e sacrificio”. Cioè le pietre con cui ha costruito la propria strada.
Probabilmente non è elegantissimo, non ha un controllo straordinario, non dosa sempre bene i passaggi. Ma ha un'eccezionale visione di gioco, sa sempre dove deve andare e dove sono gli altri giocatori. E la combinazione di intelligenza e abilità nel dribbling lo rende una pedina irrinunciabile in una squadra come il Milan.
L'esilità che rischiava di non farlo diventare professionista, oggi si è trasformata in leggerezza. Ma ha lasciato tracce: quand'è in possesso di fronte agli avversari, Jack tende ad allargare le braccia, come quegli animali che si fingono più massicci.
Come gioca. Un video lungo e quasi senza gol.
La mancata convocazione da parte di Conte per l'ultimo Europeo, deve aver bruciato. La Nazionale è un obiettivo cruciale per Bonaventura, lo dice in quasi ogni intervista, a ventidue anni diceva di puntare alla Nazionale più che a una big. Tra chi si è lamentato per l'esclusione c'è Fabrizio Castori, allenatore del Carpi e compaesano di Jack.
Ma è in generale che la sua carriera in azzurro finora ha proceduto a singhiozzo. Dopo l'Under 20 non fece nessuna presenza in Under 21. Prandelli lo convocò nel 2013, ma non lo portò al Mondiale in Brasile.
Con Ventura le cose sembrano poter cambiare, almeno l'ha messo dall'inizio nelle prime due gare da Ct.
Bonaventura non è un campione. Lo ammette lui stesso, “Ho fatto il percorso di tutti, se non sono fenomeni”. Eppure è uno dei migliori giocatori italiani. Questo infastidisce molti, tocca delle corde nascoste, perché fa pesare l'inferiorità rispetto ad altri Paesi, e soprattutto ad altri tempi. Lo stesso succede al Milan. Dove, ancora, è titolare perché merita il posto. Dove si è abituati a quei fenomeni che oggi non ci sono più, e accettare la centralità di un giocatore come lui dà l'angoscia del ridimensionamento.
Davanti ha ancora tanti anni, e non sembra volersi sedere. Lo scorso dicembre ha cambiato agente, e ha scelto Raiola. Tempo fa, raccontò come già immaginasse la fine della carriera: vuole arrivare all'ultima gara con la tranquillità che aveva visto in Del Piero quel giorno lontano.
Basta confrontare l'atteggiamento nelle interviste, per capire quanto stia diventando sicuro e pronto a guidare. Oggi è composto, ma parla con la sicurezza di un leader. A Bergamo, quattro anni fa, restava per tutto il tempo con le mani dietro alla schiena.
Il suo futuro gli è chiaro: vuole fare l'allenatore, già sta “prendendo appunti mentali”. Sembra davvero indirizzato mentalmente in quella direzione, quando dice di sé: “Non è importante essere considerato un leader, mi interessa dare il giusto esempio alla squadra”. Che è proprio un discorso da leader.