A Kennington, a sud del Tamigi, si innalza l’Oval, uno degli stadi più iconici di Londra. Ora ci si giocano solo partite di cricket ma nell’Ottoceno ha ospitato la prima partita della Nazionale inglese di rugby, la prima finale di FA Cup e, qualcuno sostiene, il primo incontro tra Nazionali di calcio della storia, quello tra Inghilterra e Scozia. Attorno allo stadio il contesto sociale non è certo tra i più felici: “Non andiamo mai a sud del fiume”, dicono molti tassisti di Londra. A Kennington si ergono le estates: caserme di sei piani costruite in mattoncini marroni simili a fabbriche dell’Ottocento. All’ingresso, a incorniciare la struttura, un cancello in ferro battuto che ricorda quello di Auschwitz. Qui è cresciuto Jadon Sancho, il primo giocatore nato nel 2000 ad affermarsi in Europa. Sancho è alto un metro e 80, ha un taglio di capelli curly stile Atlanta e un sorriso infantile che lo fa sembrare ancora più piccolo.
Dal suo nome non si capisce da dove venga, come fosse un perfetto prodotto del capitalismo globale. Su internet i video dei suoi trick circolano sin da quando era ancora minorenne: nel momento in cui è comparso nel grande calcio, due anni fa, nell’Europeo Under 17, con le scarpe rosse e la maglia numero 7 dell’Inghilterra, i suoi dribbling sulla fascia erano attesi come i primi pezzi dell’album di un musicista di cui si è sentito solo un EP sgraffignato. Sancho ha poi vinto il premio di miglior giocatore dell’Europeo Under 17, dove ha segnato 5 gol e fatto un assist. Un premio che in passato hanno vinto giocatori come Toni Kroos, Wayne Rooney, Mario Gotze e Cesc Fabregas.
Jadon Sancho ha tutto per piacere ai tifosi hipster: è giovane, fresco, ascolta Fredo, ha uno stile divertente e gioca nel Borussia Dortmund, una delle squadre con più street cred in Europa. L'inizio della stagione 2018/19 per lui è stato incredibile: 7 assist e 1 gol in pochi minuti giocati e la prima convocazione in Nazionale maggiore, dove Gareth Southgate ha già dovuto fare il pompiere: «Non dobbiamo aspettarci troppo da lui», ha quasi pregato.
L’immagine della Nazionale inglese oggi: un teenager con un taglio di capelli curato come fosse una scultura, che risponde ai messaggi su Instagram mentre contemporaneamente registra una stories su Instgram. Nel mentre passano immagini in cui stringe la mano in modo esoterico ad altri giocatori uguali a lui.
A dispetto di un’aria così millennial, la narrazione di Jadon Sancho è quella tradizionalmente appartenuta ai talenti più scintillanti del novecento calcistico: una famiglia povera, un contesto difficile, le partite interminabili giocate per strada. Sancho viene da una famiglia povera di immigrati di Trinidad e Tobago, ha vissuto in un quartiere disagiato. Ha confessato che la Coppa del Mondo di quest’estate in Russia - dove non era così assurdo venisse convocato - è stata la prima che ha potuto seguire nella sua vita, prima non aveva accesso al televisore. È stato naturale per Sancho vedere quindi nel calcio una via d’uscita dalla povertà: «La prima missione della mia vita è di tirare fuori la mia famiglia da quelle case popolari».
Imparare per strada
Il viaggio di Sancho è cominciato quando, a 12 anni, ha lasciato la famiglia per trasferirsi al centro sportivo del Watford, ma a quel punto la sua formazione calcistica era praticamente già terminata, almeno secondo uno dei suoi primi allenatori: «Sancho ha imparato quello che sa nei contesti di gioco informali. La gente crede che siano le accademie a produrre questi giocatori - ma non è così. Queste fanno un sacco di cose: offrono supporto e aiutano lo sviluppo. Ma quando il giocatore arriva, a nove anni, è già formato per il 90 o il 95%. È quel 5 o 10% che spetta all’accademia».
Sancho è un calciatore da strada: gioca ala sinistra, quando riceve il pallone non ci pensa un attimo a correre in avanti, cercando di saltare tutti gli esseri umani che si frappongono fra lui e la porta. Porta la palla con uguale sensibilità con l’esterno o l’interno del piede; ha un ampio bagaglio di finte e un istinto creativo che lo porta a scegliere ogni volta la soluzione meno intuitiva. Per capire Jadon Sancho vale la pena guardare il suo primo assist all’Europeo Under 17 dello scorso anno, dove è sembrato la versione “black-joy” di Garrincha. Dopo aver saltato due giocatori in velocità, è davanti al portiere, con tutto l’angolo destro aperto della porta aperto. Sancho finta il tiro e dribbla il portiere con la suola; a quel punto però ha due difensori addosso, deve arrivare fino al fondo per rientrare e ricavarsi lo spazio per mettere il pallone in mezzo per il gol di Brewster.
Sancho per due volte non coglie il momento giusto per la giocata, e per due volte si infila in una situazione difficile che riesce a risolvere aggrappandosi a una tecnica irreale nello stretto.
Tutta questa parte del gioco Jadon Sancho l’ha imparata per strada o giocando nel Southwark, la squadra del suo quartiere. Il suo allenatore dell’epoca lo ricorda con una definizione che rimane la migliore per descriverlo tuttora: «Jadon era senza paura sul campo quando era nel suo groove».
Parlare di Sancho come di un giocatore di basket, usando concetti come entrare in ritmo o di groove, può tornare utile per descriverne lo stile di gioco. Ogni volta che ha il pallone Sancho si fionda verso la porta e a quel punto il terreno di gioco per gli avversari sembra fatto di sabbie mobili. È quasi impossibile immaginare quale strada prenderà: «Anche se è destro, quando dribbla può andare all’interno o all’esterno in modo indifferente ed è ciò che lo rende difficile da difendere». La sua ricerca delle cose belle non ne compromette però l’efficacia: «Nella maggior parte delle partite crea qualcosa - non è un concorso di bellezza. Non è sul campo per fare dei trick fini a se stessi».
Sancho prova sempre a fare qualcosa di determinante, che muova la difesa avversaria. In questo somiglia davvero a quei playmaker NBA, come Kyrie Irving, che partono da fermi da qualsiasi zona di campo per attaccare il ferro, consapevoli di poter costruire qualcosa in qualunque circostanza. Quando deve parlare di questa sua peculiarità Sancho ne fa una questione di attitudine mentale, di sicurezza nei propri mezzi: «Sono un giocatore diretto e sicuro di me, credo in me stesso nelle situazioni in uno contro uno». Il suo primo allenatore dice di aver lavorato molto sulla sua dimensione mentale: «Jadon credeva poco in se stesso. Ci sono state partite in cui l’ho dovuto sostituire e convincerlo di quanto fosse bravo».
Sancho viene da una generazione di calciatori che ha formato il proprio gusto del calcio su YouTube. «Mi piaceva guardare Ronaldinho su YouTube. Mi piaceva il fatto che provasse cose che nessun altro aveva il coraggio di provare». Non è quindi assurdo pensare che la modalità YouTube - un collage di azioni significative che cancellano i tempi morti del gioco - abbia modellato la visione del calcio di Sancho. Un calcio in cui non sembrano esistere azioni interlocutorie ma solo momenti significativi.
Quando parte da sinistra, il suo ruolo naturale, preferisce percorrere il classico binario a rientrare verso la porta, muovendo la palla con l’esterno del piede; a destra rimane più largo a dare l’ampiezza, correndo lungolinea con l’interno. Se in questo inizio di stagione è stato impiegato soprattutto a destra, dove sembra meno a proprio agio, è forse per provare a rendere più essenziale il suo gioco continuando a sfruttare la sua velocità.
Sui primi passi, Sancho è semplicemente inarrestabile. Guardando i suoi video è quasi misteriosa quella frazione di secondo che passa da quando punta l’uomo a quando lo ha superato, la riproduzione sembra saltare un fotogramma. Un tipo di sensazione che abbiamo con dribblatori iper-esplosivi come Douglas Costa o leggerissimi come Robben. Quando riceve palla da fermo gli piace toccarla con la suola per mettersi in moto e preparare la mossa successiva. La congiunzione tra la forza delle sue gambe e la morbidezza del suo tocco palla lo rendono in grado di saltare più avversari alla volta: nei cambi di direzione va così veloce ed è così chirurgico che potrebbe mettersi a dribblare i mini-birilli di un campo da biliardo.
Sarebbe assurdo però ridurre Sancho alla sola dimensione ludica del suo gioco. L’arte del dribbling è una delle più sottovalutate nel calcio dal punto di vista tattico. La si associa a una dimensione puramente estetica, a un vezzo immaturo e individuale in un gioco complesso e collettivo. Come si scrive in questo pezzo su Sky Sport, si è spesso identificato il gioco di posizione con un gioco di passaggi quando è anche un gioco fatto di dribbling. Il dribbling è fondamentale per guadagnare un vantaggio diretto nei confronti dell’avversario, disordinando la struttura difensiva in maniera diretta e indiretta. I giocatori offensivamente più produttivi in Europa sono anche alcuni tra i migliori dribblatori, eppure quella del dribbling è un’arte che si sta perdendo. «Diversi allenatori delle giovanili dicono passa, passa, passa, non dribbla, dribbla, dribbla. Abbiamo preso questa idea dal Barcellona, ma abbiamo perso i dribblatori», ha dichiarato Peter Hyballa, ex assistente del Borussia Dortmund e del Bayer Leverkusen.
Chris Waddle, uno dei dei primi calciatori inglesi ad emigrare, sostiene che in Inghilterra non esista una cultura del dribbling. Se escludiamo il recente arrivo di Raheem Sterling, il movimento non riesce a produrre delle ali che saltano l’uomo perché le considerano implicitamente un lusso insostenibile, nonostante oggi siano essenziali per rendere le squadre pericolose nell’ultimo terzo di campo. In questo panorama Jadon Sancho appare come una boccata d’aria fresca. Dan Micciche, ex allenatore di Dele Alli all’MK Dons e attuale coach dell’Inghilterra Under 16 ha paragonato Jadon Sancho a Neymar: «Potrebbe diventare il tipo di giocatore alla Neymar - cioè un giocatore imprevedibile che gioca a piede invertito sulla sinistra. È divertente da guardare, ma come Neymar è anche efficace». Sancho ha raccontato che in uno dei suoi primi allenamenti al Borussia Dortmund Marcel Schmelzer, il capitano della squadra, lo ha dovuto riprendere per i troppi tunnel in allenamento.
Quando si parla di lui si sottolinea sempre la naturalezza del suo talento, come se fosse un frutto prodotto dalla terra. Secondo Lothar Matthaus, Sancho è “il giocatore perfetto”: «L’abilità che ha è un istinto naturale. Non puoi insegnare quel tipo di brillantezza».
È forse anche per questa unicità che la convocazione di Sancho in Inghilterra è stata accolta come una specie di festa nazionale, la singola notizia più importante della pausa nazionali dei Tre Leoni. Sancho si è presentato nella conferenza prima della partita con la Croazia, è apparso rilassato e sicuro di sé: ennesimo nuovo volto da appiccicare a un movimento calcistico fresco e divertente. Southgate ha spento un po’ gli entusiasmi, ma ne ha anche elogiato le qualità. Alla fine Sancho ha giocato appena una decina di minuti nelle due partite.
I margini di Sancho
Nonostante abbia giocato pochissimi minuti tra i professionisti, già oggi Sancho sembra un giocatore in grado di fare la differenza in un contesto di alto livello. La sua qualità nel dribbling e la sua accelerazione lo rendono difficile da marcare per qualsiasi difesa, specie quando entra a partita in corso. In anni in cui la gestione dei cambi è curata sempre più nei dettagli - e dove la distinzione tra titolari e riserve è sempre più sfumata - Sancho potrebbe persino subire il fatto che le sue qualità siano ancora più efficaci quando entra dalla panchina - come sta in parte succedendo a Douglas Costa alla Juventus, che raramente parte dal primo minuto.
Il fatto che le sue qualità siano così immediate e visibili lo sta rendendo però utile da subito, aiutandolo a integrarsi tra i professionisti. Questo non significa però che abbiamo già capito che giocatore è Sancho: un’ala dribblomane utile a partita in corsa per scardinare le difese? Un creatore di gioco che parte dall’esterno? Un attaccante completo produttivo sia sotto porta che nell’ultimo passaggio?
Queste poche partite non possono certo darci una visione definitiva di Sancho, ma indicano delle strade. Va detto che per ora Sancho sembra piuttosto controllato e attento a non strafare. Può sorprendere notare che non sia neanche tra i primi cinque per dribbling per 90 minuti in Bundesliga (è ottavo, con meno di 4 provati ogni 90’). In Germania sta imparando a vedere il calcio da una prospettiva meno individualistica: «Sono più maturo ora, so quando dare via il pallone. Non sono avido, voglio solo far vedere ciò di cui sono capace». In questo adattamento Sancho sta mostrando un certo talento nell’ultimo passaggio, limitando una parte del suo gioco per esplorarne un’altra. Finora ha messo insieme 7 assist stagionali (6 in Bundesliga e 1 in Champions), più di chiunque altro in Europa, in appena 380 minuti giocati. Solo in campionato è su una media spaventosa di 2,5 assist per novanta minuti.
Questi numeri sono generati sopratutto dalla sua capacità di disordinare le difese: le sue conduzioni palla al piede lo mettono sempre nelle condizioni per servire delle rifiniture comode. Quasi tutti i suoi assist in Bundesliga sono arrivati dopo delle accelerazioni che hanno spaccato la difesa avversaria.
D’altra parte però Sancho sta mostrando una sensibilità non banale. Guardate ad esempio l’assist nella partita di Champions League contro il Monaco. Sancho è a destra, converge verso il centro circondato da tre giocatori: sembra non avere spazio per nessuna giocata. Paco Alcacer sarebbe il passaggio più scontato, ma sta rientrando dal fuorigioco, allora vede Brunn Larsen inserirsi oltre la difesa e lo serve con un passaggio di piatto che passa in mezzo a un bosco di gambe.
Se Sancho è già molto produttivo quando deve rifinire, sembra ancora mancargli qualcosa in fase realizzativa. In un calcio in cui le ali devono segnare molto, Sancho sembra vedere poco la porta. Tira pochissimo (appena 0.4 volte ogni 90 minuti) e solo quando è praticamente costretto. Non si capisce se sia attento a non mostrarsi ingordo in questi inizi di carriera o se faccia parte del suo modo di vedere il calcio, tutto modellato attorno alla costruzione e alla rifinitura del gioco. Sancho per ora non ha mostrato un bagaglio tecnico di conclusioni promettente: prova sempre a piazzare il pallone sul palo lontano e preferisce la precisione alla potenza. Non tira mai da fuori e raramente con parti diverse dall’interno del piede. Se Sancho vorrà esprimersi ai livelli a cui tutti piace immaginarlo - mentre scrivo si parla di un interessamento del City a prenderlo per 120 milioni di euro! - questo è senz’altro l’aspetto del gioco che dovrà fare di tutto per migliorare.
Con tutta la fretta del mondo
Nell’estate del 2017 Sancho ha costretto il Manchester City a cederlo al Borussia Dortmund per 8 milioni di euro, una cifra record per un giocatore che non aveva ancora giocato neanche un minuto fra i professionisti. Il City lo aveva prelevato dal Watford quando Sancho aveva 15 anni, scoperto dall’ormai leggendario osservatore Joe Schields, che a meno di 30 anni ha già un’impressionante reputazione di talent scout, capace di scovare il talento anche nei contesti più informali, come parchi e playground.
Il City non aveva nessuna intenzione di cedere Sancho. Il 31 maggio del 2017 Al-Mubarak ha dichiarato che Phil Foden, Jadon Sancho e Brahim Diaz saranno promossi in prima squadra da Pep Guardiola. Un giocatore del vivaio del City non produce una presenza ufficiale dal 2005, con Micah Richards. Guardiola, però, sempre in quei giorni, smorzava gli entusiasmi: «Sono bravi ma dovrebbero giocare a Old Trafford o Stamford Bridge. Non so se sono capaci di competere in quei contesti». Il City ha offerto a Sancho il contratto più grosso della storia per un giocatore dell’academy - circa 30 mila sterline a settimana - ma Sancho ha rifiutato. Per qualche giorno non si è presentato agli allenamenti con la squadra giovanile, forzando la sua cessione.
In Inghilterra sono ossessionati dalla scelta di Sancho, non erano abituati all’idea che uno dei talenti locali più folgoranti scegliesse di proseguire la propria formazione all’estero, e ogni volta gli chiedono di quella scelta. Sancho risponde nel modo evasivo e rilassato che abbiamo imparato a conoscere nei giocatori di alto livello: «Avevo bisogno di giocare», «Era la scelta più logica per me in quel momento». In una Premier League sempre più satura dei migliori esemplari di calciatori il caso di Sancho potrebbe diventare comune, come scrive il Guardian.
Sancho a 17 anni ha quindi rifiutato un contratto redditizio offertogli da una delle squadre più ricche e potenti al mondo, allenata da Pep Guardiola, che aveva tutta l’intenzione di investire molto su di lui. Una scelta che suona folle da qualsiasi punto la si voglia guardare, ma che un anno dopo sembra aver pagato. Oggi si parla di un interessamento nei suoi confronti di praticamente tutte le più forti squadre d’Europa, anche se secondo il Manchester Evening il City avrebbe una specie di clausola di recompra che gli darebbe un vantaggio sugli altri club.
A 18 anni Sancho è uno dei giocatori più chiacchierati d’Europa, nonostante abbia giocato poco più di mille minuti tra i professionisti, e di certo uno di quelli col talento più eccitante e originale.
Siamo ancora agli inizi: seguire l’evoluzione di Sancho rappresenta di per sé uno dei motivi per cui varrà la pena guardare il calcio per i prossimi 15 anni.