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Harden e i Rockets, storia di un matrimonio
17 dic 2020
Il modo in cui il "Barba" sta provando a lasciare Houston evidenzia i limiti del player empowerment.
(articolo)
13 min
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Finalmente nella notte tra martedì e mercoledì, dopo un infinito tira e molla, James Harden ha giocato la prima partita ufficiale della nuova stagione NBA con la maglia degli Houston Rockets. Una maglia che ora, dopo quasi un decennio di appassionato matrimonio, sembra andargli stretta. Sia in senso metaforico - perché non è certo notizia che Harden abbia chiesto di essere ceduto in questa finestra di mercato -, sia in senso letterale, vista la forma con il quale "il Barba" si è ripresentato (per di più in ritardo) al training camp. Le foto di Harden in tuta rossa, la barba lunga fino al petto e qualche chilo di troppo hanno acceso immediatamente i confronti con l’altro dominatore del periodo natalizio.

https://twitter.com/treykerby/status/1339064289362141185

Harden ha giocato 21 minuti contro i San Antonio Spurs segnando 12 punti con 3/10 dal campo, ma non ha voluto rilasciare dichiarazioni a fine partita. Il nuovo allenatore dei Rockets Stephen Silas si è detto soddisfatto di aver visto la propria superstar in campo, ma i due ormai comunicano solo attraverso i loro avvocati divorzisti. Non tanto per colpa del povero Silas, che si è trovato alla prima esperienza da capo allenatore in una franchigia messa davanti a una decisione fondamentale per il suo futuro, quanto per il comportamento di Harden, che da separato in casa sta dando un esempio di come si possa usare la propria influenza per piegare le regole scritte e non scritte della lega.

Harden ha ancora due anni di contratto con i Rockets (tre se consideriamo la Player Option da 47 milioni di dollari nel 2022-23), avendo firmato tre estati fa una gigantesca estensione da 170 milioni, e non sarebbe nella posizione negoziale per permettersi di fare la voce grossa. Se non fosse che rimane a oggi uno dei giocatori più forti e polarizzanti dell’intera NBA. Non sono certo mancate negli ultimi anni le superstar scontente che hanno pubblicamente chiesto una trade per portare altrove i propri talenti - da Kawhi Leonard a Anthony Davis passando per Paul George e Jimmy Butler -, ma quella di Harden rischia di compromettere il difficile equilibrio tra il player empowerment e il bilanciamento competitivo.

La complicata situazione di Harden

Mentre la NBA si stava apprestando a un inedito inizio di stagione a dicembre, Harden - con una barba da Babbo Natale e senza mascherina addosso - è stato avvistato in un club di Las Vegas mentre stava facendo nevicare banconote di medio taglio durante il compleanno di Lil Baby. Evidentemente la sua seconda attività preferita dopo il palleggio per venti secondi nella metà campo offensiva. Il tutto mentre Houston spediva Russell Westbrook a Washington, per il quale erano state spese l’anno scorso due prime scelte e il carattere non facile di Chris Paul, e per il quale dalla capitale è arrivato John Wall dopo quasi due anni di inattività.

Lil Baby mentre scarta i regali di compleanno di Harden.

Quello di Houston è stato l’ennesimo tentativo di cosmesi del roster attorno a Harden, ormai sempre più vistoso e incapace di coprire i limiti che si palesano regolarmente ai playoff. Anche perché a Houston non ci sono più né Mike D’Antoni - andato ad aiutare il suo pupillo Steve Nash a gestire Kyrie Irving e i suoi pedoni - né Daryl Morey - che ha annullato il suo anno sabbatico per salvare il sogno di Sam Hinkie a Philadelphia. E presto forse non ci sarà più neanche Harden, che tra una festa e l’altra ha fatto capire che i suoi giorni in Texas sono finiti.

L’MVP del 2018 ha imposto le sue condizioni alla proprietà e al nuovo front office guidato da Rafael Stone, promosso a GM dopo l’addio di Morey. Prima sembrava che volesse solo i Brooklyn Nets per formare un sobrio trio di solisti con Kevin Durant e Kyrie Irving; poi, dopo aver visto che le trattative non procedevano, ha aperto anche ai Miami Heat e ai Milwaukee Bucks del suo “nemico” Giannis Antetokounmpo.

Come però recentemente riportato anche da Marc Stein del New York Times, la squadra che ha più chances di scambiare per Harden sono i Philadelphia 76ers - sia per gli asset a loro disposizione, sia per lo stretto rapporto che lega Morey al "Barba". Secondo le ultime indiscrezioni Houston avrebbe chiesto Ben Simmons insieme a tre prime scelte al Draft, ricevendo per ora un secco no da Phila che, almeno pubblicamente, non vorrebbe inserire il proprio 24enne All-NBA nello scambio. I Sixers hanno già rivoluzionato il gruppo attorno a Simmons e Embiid, e vorrebbero almeno provarlo per una stagione sotto l’egida di Doc Rivers, nonostante la possibilità di arrivare a un talento generazionale come Harden vada considerata approfonditamente - al netto dei suoi 31 anni di età e del contratto pesantissimo che lo attende tra due stagioni.

Nonostante l’atteggiamento dimostrato negli ultimi giorni, che si riflette negativamente anche su altre sue tendenze fuori dal campo, e la condizione fisica da rivedere, James Harden rimane il più prolifico e resistente creatore di gioco dell’ultimo lustro. Nelle ultime cinque stagioni il "Barba" ha saltato solamente 19 partite di stagione regolare andando oltre i 36 minuti di media in quattro di queste, il tutto segnando più di 30 punti a partita con l’Usage Rate più alto della lega. Harden è stato il miglior realizzatore in quattro delle ultime sei stagioni e solamente Steph Curry nella stagione dei record è riuscito a far meglio di lui a livello di win shares.

Durante i suoi otto anni a Houston, Harden è passato da essere un sesto uomo dell’anno e terzo incomodo tra Kevin Durant e Russell Westbrook a essere regolarmente nella conversazione per l’MVP stagionale e una presenza fissa nei quintetti All-NBA. Allo stesso modo, i Rockets sono passati dal mancare costantemente la postseason a non saltarla mai - unica squadra NBA a riuscirci nelle ultime otto stagioni - e ai playoff della terribile Western Conference solamente gli Spurs e gli Warriors hanno vinto più serie nello stesso arco di tempo. Entrambe però hanno vinto dei titoli, l’unica cosa non è mai riuscita a Harden ai Rockets, nonostante le due finali di conference conquistate nel 2015 e nel 2018.

I lati oscuri di Harden dentro e fuori dal campo

Houston è arrivata dove Harden l’ha guidata, sia nella buona che nella cattiva sorte, in una relazione di co-dipendenza che ora sta intossicando qualsiasi tentativo di dialogo. Proprio ieri è uscito su ESPN un duro reportage a firma di Tim MacMahon che ha acceso i riflettori sui retroscena più oscuri del rapporto tra Harden e la franchigia, che negli anni ha permesso alla sua superstar di fare quello che voleva senza mai responsabilizzarlo nel diventare un vero leader ed esempio per il resto del gruppo. L’articolo è pieno di virgolettati di anonimi membri dello staff di Houston del tipo “la cultura di squadra era ‘qualsiasi cosa voglia James’” o “nessuno ha mai detto di no a Harden”, che suonano come la parodia di un bambino viziato.

Harden imponeva alla squadra di rimanere una notte in più in trasferta se si trovava in una città di suo gradimento e, quando si apriva una finestra sul calendario, noleggiava un aereo privato per andare a far festa a Las Vegas o ovunque ci fosse una bottiglia di champagne ad attenderlo. Poi tornava a Houston e dopo un Bloody Mary metteva 40 punti per una vittoria dei suoi, in tal modo che nessuno potesse contestare il suo stile di vita. Storie che sembrano strappate dall’autobiografia di Dennis Rodman e che invece confermano quello che si credeva da tempo intorno alla lega, e che anche le partenze improvvise di Chris Paul e poi di Russell Westbrook siano sintomatiche dell'atteggiamento lassista e poco professionale che vigeva nello spogliatoio di Houston.

Paul si sarebbe infuriato con Harden a causa della sua passività quando non aveva il pallone in mano e superava a malapena il centrocampo, mentre Westbrook - che a Oklahoma City aveva fatto motivo d’orgoglio l’aver stabilito uno standard alto per tutti coloro che erano coinvolti nella franchigia - non accettava i continui ritardi di Harden agli allenamenti e alle sessioni video anche in un luogo in cui non c’era nient’altro da fare come la bolla di Orlando.

Come eravamo.

Un rapporto che è andato deteriorandosi durante la stagione fino ad esplodere a Disney World, dove i Rockets hanno inscenato uno spettacolare seppuku durante la serie contro i Los Angeles Lakers in cui erano andati vicini al 2-0 prima di polverizzarsi. Dopo che Danuel House è stato sospeso per aver introdotto in albergo una persona dall’esterno senza seguire i protocolli NBA, la squadra si è sfaldata come un quotidiano in una giornata di pioggia senza che Harden dimostrasse alcun interesse nel tenerla insieme. Anzi, una volta che Morey e D’Antoni sono usciti di scena, non ha esitato un momento a premere il pulsantone rosso per rompere definitivamente tutti i rapporti, come aveva già minacciato di fare più volte in passato (venendo accontentato con costose operazioni di mercato).

Ora la franchigia che lo ha sempre assecondato in tutti i suoi desideri si trova a dover fronteggiare l’ultima richiesta, dovendo trovare il modo di non uscirne con le ossa rotte. Negli ultimi anni è stata una pratica comune di molte superstar quella di chiedere di essere ceduti con ancora diversi anni da onorare sul proprio contratto a molti zeri, ma forse nessuno ha mai provato a imporre il proprio potere decisionale quanto James Harden. La sua presa di posizione è sintomatica di come la lega, almeno per i suoi giocatori più rappresentativi, stia andando verso una mobilità alla quale non eravamo precedentemente abituati e che rappresenta il lato oscuro del player empowerment o, meglio, quello più elitario.

La NBA ai tempi del player empowerment

Non c’è un Galateo da seguire quando si chiede di essere ceduti e spesso il braccio di ferro può farsi cruento, specie quando le due forze in campo si equivalgono. E se fino a qualche anno fa le squadre potevano disporre a proprio piacere della forza lavoro dei propri giocatori, ora i rapporti stanno rapidamente cambiando. La scelta della NBA di dare sempre più visibilità e potere ai propri atleti - che poi sono quelli che in campo rendono spettacolare questo sport - ha avuto molti effetti positivi, come lo splendido impegno civile per il voto e le battaglie contro il razzismo, e qualche danno collaterale, come Harden platealmente senza mascherina in un club di Las Vegas che testimonia tutto sul suo account Instagram, che di solito è quasi inutilizzato.

È un tradeoff che il commissioner Adam Silver è evidentemente disposto ad accettare, specie perché al momento sono pochi i giocatori che si possono permettere le libertà di Harden mentre tutta la lega beneficia del player empowerment. Per ora infatti si contano sulle dita di una mano le superstar che possono dall’oggi al domani decidere di mettere spalle al muro la franchigia con la quale sono sotto contratto, pretendendo di scegliere anche la destinazione da scrivere sul biglietto aereo. E non tutti quelli che lo fanno poi vengono accontentati, anzi. Per gli Anthony Davis e Paul George hanno ottenuto lo scambio che desideravano (anche perché sia i Pelicans che i Thunder hanno ricevuto una notevole compensazione per muovere i loro due fuoriclasse), ci sono i casi di Kawhi Leonard o Jimmy Butler che hanno invece dimostrato come le squadre possano ancora scegliere il pacchetto a loro più congeniale.

Ma è una deriva che, se non adeguatamente indirizzata, potrebbe avere conseguenze pericolose sul bilanciamento competitivo della lega, con i migliori giocatori che farebbero di tutto per scappare dai mercati più piccoli verso i porti dorati sulle varie coste, creando un gruppo di privilegiati che si muove al limite o al di sopra delle regole. La polarizzazione del talento è sempre stato un pericolo costante nella NBA contemporanea, tanto che per evitarla negli anni la lega ha strutturato una complessa serie di regole e legacci atte a calmierare le distanze tra le varie franchigie. Ma mai come ora il rischio è che i giocatori possano abusare della loro influenza e sostituirsi ai vari front office, o ancora peggio a ricattarli.

Se diventasse consuetudine che ogniqualvolta un giocatore è infelice, o scontento, o semplicemente preferisce una squadra ad un’altra - che di solito significa una città o una organizzazione a un’altra - la franchigia in questione debba assecondare le sue voglie, ci troveremo nella spiacevole condizione di vivere in una perenne free agency, magari portata avanti a mezzi stampa con toni non pienamente concilianti. Specialmente se tra i due contendenti dovesse guadagnare ulteriore potere la figura dell’agente.

Solo qualche mese fa i Los Angeles Lakers hanno vinto il titolo NBA grazie a un roster creato con l’aiuto di una potente agenzia - la Klutch Sports - e del suo più importante assistito, LeBron James. E i New York Knicks hanno affidato l’ennesima ricostruzione a Leon Rose, ex agente di Allen Iverson e vicedirettore della parte cestistica della storica agenzia CAA.

LeBron sin dai tempi della Decision ha scelto contratti brevi per mettere pressione sulle franchigie, chiamando in prima persona molte mosse di mercato indirizzate a costruire una squadra da titolo nel minor tempo possibile. James però, oltre ad aver vinto in ogni città in cui ha giocato - a volte anche nonostante le sue scelte da GM - ha sempre aspettato il naturale decorrere del proprio contratto prima di cambiare aria.

Harden invece ha scelto la sicurezza di un contratto lungo che lo mettesse al riparo da qualsiasi eventualità e allo stesso tempo sta forzando la mano senza avere la leva di una prossima free agency. Una mossa che, se lo portasse lontano da Houston in un mercato di suo gradimento, potrebbe creare un effetto domino su altri giocatori non soddisfatti della corrente situazione, generando un continuo rimescolamento dei roster simile a una stagione simulata su NBA 2K.

Nel caso in cui, infatti, neanche i contatti a lunga scadenza diventassero un incentivo per far rimanere una superstar in un mercato non di prima grandezza si incrinerebbe il senso ultimo del Salary Cap e dei principi di uguaglianza della lega. Un problema complesso, che non si riduce certo alle azioni di Harden ma che da esse viene messo a nudo. Gli incentivi economici non bastano più per controllare il destino di un giocatore, specie se molto forte, perché mai come ora la libertà non ha un prezzo. O più prosaicamente le superstar sanno che ci saranno sempre franchigie disposte a ricoprirli di soldi e quindi possono afferrare il coltello dalla parte del manico, firmando per sempre meno anni o rifiutando proposte da nababbi per altre magari meno vantaggiose ma sempre estremamente lucrative in franchigie più gradite. Quando le cifre dei contratti diventano quasi virtuali per quanto sono alte, le differenze economiche si assottigliano ed entrano in gioco preferenze ambientali, familiari e personali. In questi ultimi anni abbiamo imparato che il Supermax non è uno strumento sufficiente e anzi spesso diventa un arma a doppio taglio per le squadre, ma allo stesso tempo abbiamo capito che nessun contratto è davvero inscambiabile, come hanno recentemente dimostrato Russell Westbrook e John Wall.

Nonostante il due volte MVP Giannis Antetokounmpo abbia firmato la sua estensione da 228 milioni in cinque anni, nessuno ci garantisce che resterà a Milwaukee per tutto la durata del contratto. Se i Bucks dovessero nuovamente fallire l’assalto al titolo potrebbe chiedere di essere ceduto in un mercato che gli garantisca maggiori possibilità.

D'altronde se si continua a valutare la carriera di un giocatore solo attraverso i suoi trofei, questi ultimi saranno sempre più indotti a massimizzare le poche reali chances di vittoria approfittando di ogni vantaggio competitivo. E non ci sono contratti, prove di lealtà o valigie piene di dollari in grado di fermare tutto ciò.

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