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Il nuovo, vecchio James Rodriguez
10 lug 2024
10 lug 2024
Con il suo sinistro e un nuovo ruolo sta guidando la Colombia in Copa America.
(copertina)
IMAGO / Agencia-MexSport
(copertina) IMAGO / Agencia-MexSport
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Non è importante se succede al mattino in spiaggia, o di sera tardi in piazzetta sotto i filari di lampadine, mentre suona la musica: tutt'a un tratto, tra milioni di altri, il tuo sguardo torna a incrociarsi con il suo e i dieci anni che sono trascorsi, il tempo che ci ha messo la vita a sfilarti sotto i piedi, si fa pulviscolo, la consistenza di cui è fatta l’alba. Quell’amore profondo e viscerale, esploso d’estate, ispirato da movimenti sinuosi e morbide carezze: come hai fatto, a dimenticarlo? Le promesse dei vent’anni sono le promesse dei marinai, tanto piene di speranza quanto destinate alla disillusione. Trasferimenti in città lontane, legami tossici e sbagliati hanno finito per allontanarvi, contribuito a farvi perdere di vista: hai semplicemente pensato ad altro. E adesso è il tempo di una nuova irruzione, scombussolante, un morso alla ratatouille che ti porta indietro nel tempo: vedi James Rodríguez brillare in campo e il Mondiale del Brasile è letteralmente ieri, il mare buio che di colpo si fa mosso, l’acquazzone che vi coglie impreparati, vi scioglie le viscere, fa il rumore che fanno i tuoni quando piove tutto il cielo.

James è arrivato a questa Copa América dopo aver disputato poco più di 255 minuti in campo nel suo club, il São Paulo, trattato da tutti, meno che da Néstor Lorenzo, alla stregua di un residuato da mettere in mostra per suscitare malinconia e rimembrare antichi fasti, di un fantasma dei Natali passati. Si aspettavano di vedergli giocare l’ultima Copa América della carriera – dopo aver saltato l’edizione del 2021, non convocato, accantonato, dimenticato –, aggirarsi in campo come un fantasma avvolto in una pelliccia di grandeur. Ma com’è che si dice: un fantasma non può avere paura, perché in fondo non puoi uccidere chi è già morto.

«Non è vero che la gente smette di perseguire i propri sogni perché invecchia: invecchia perché smette di perseguire i propri sogni», ha scritto una volta Gabriel García Márquez. E allora possiamo dire che molti anni dopo quel Mondiale brasiliano, di fronte al calcio d’inizio, il colonnello James Rodríguez si sarebbe ricordato – ci avrebbe ricordato – di quel remoto pomeriggio in cui ci aveva fatto scoprire la meraviglia.

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Quattro partite giocate in questa Copa América, tre volte MVP. Dove è stato, tutto questo tempo? Semplicemente fuori dai radar, lontano dagli occhi per ammaestrare il dolore che ci provocava averlo lontano dal cuore, ad allenarsi per tornare a fabbricare pesciolini d’oro, proprio come l’Aureliano Buendía di Cent’anni di solitudine.

Dire che sia tornato a disegnare calcio è tanto scorretto quanto dire che abbia reimparato a disegnare calcio, perché nei Cafeteros James non ha mai smesso di essere al centro di ogni discorso. Neanche quando i contesti, tutt’attorno, andavano sbriciolandosi, cercando di risucchiarlo. Solo quest’anno, è sceso in campo con la maglia della Nazionale per 588 minuti: più del doppio di quanto abbia fatto con il São Paulo. «Deve e vuole giocare», ha detto Néstor Lorenzo. «E la squadra ha bisogno di lui». Ha giocato, e ha anche segnato – è arrivato a 28 gol, 8 in meno del massimo marcatore nella storia della Nazionale, Radamel Falcao. Ha dato il meglio, ha fatto vedere il meglio.

Si è sempre più trasformato in Carlos Valderrama, che scompariva per due, quattro anni, intabarrato in divise da gioco ai margini, improbabili e con nomi esotici, per poi tornare a brillare sui palcoscenici più grandi. Non chiederti cosa fa James quando non indossa la 10 della Nazionale: goditi piuttosto l’attesa che separa una partita dall’altra, pregustando il momento in cui tornerà a cavalcare in maglia gialla, fantastico unicorno, le verdi praterie di gioco.

A pettinare il pallone, a tracciare arcobaleni al termine dei quali c’è sempre la pentola traboccante d’oro di un gol. A ispirare, deliziare, istruire, spiegare le manovre dei compagni. A dare significati nuovi, ma scritti in una lingua arcana e millenaria, a ogni pausa, a ogni preziosismo tecnico, a ogni lettura intelligente e a ogni trama di passaggio tanto precisa quanto visionaria.

Di Valderrama non ha raccolto solo la leadership, il carisma, il ruolo chiave in un percorso di imbattibilità monstre che somiglia tremendamente a quello di inizio anni Novanta. Del pibe ha ereditato anche il ruolo e la posizione in campo, un po’ perché anche lui è invecchiato, un po’ per un’intuizione. «Ora corre un po’ meno, ma pensa un po’ di più. Gli fa bene, perché è circondato da ottimi giocatori che gli permettono di giocare bene». Insomma: in campo, oltre che fuori, James si è valderramizzato.

Lorenzo lo ha messo a fluttuare tra tre centrocampisti ordinati, riottosi e intelligenti come Lerma, Ríos e Arias, e il punto di riferimento d’attacco Jhon Córdoba, con il turbomissilistico Luís Díaz pronto a far saltare il banco come un ascensore nella Teresina. James, casomai introiettando un po’ di genius loci del posto che gli ha dato i natali – la città di Cúcuta, avamposto colombiano al confine con il Venezuela, tradizionale snodo di passaggio delle rotte commerciali tra i due paesi – si è fatto ordinatissimo caravanserraglio. Partendo da quella posizione si abbassa per ricevere palla e ispirare; ondeggiando tra le linee rivali cuce e raccorda, adamantina personificazione della quintessenza di un certo tipo di calcio sudamericano: l’enganche.

Lorenzo, per spiegare cosa chiede a James, e cosa James fa egregiamente, ha raccontato un aneddoto: «Una volta hanno chiesto a Bochini, quel dieci dell’Independiente che per Maradona era il più forte giocatore che avesse mai visto: “Bocha, ma come fai a giocare così bene?”. E Bochini ha risposto: “Niente, mi metto dove non c’è nessuno e la do a quello che sta solo”». Che è poi letteralmente quel che fa James, niente di più banale: si posiziona dove non c’è nessuno e la passa a quello che sta solo.

In fondo all’enganche non si chiede altro che prendersi la responsabilità di infilare la palla in ogni cruna di ogni ago, sotto la perenne minaccia del rischio di sbagliare; di superare una selva di gambe con un passaggio filtrante, di creare superiorità con un dribbling, di tagliare il diamante. «Il protagonismo del 10», ha scritto una volta il messicano Juan Villoro, «è evidente, eppure il suo maggior pregio è quello di riuscire a migliorare gli altri, di metterli di fronte alla necessità di liberarsi per ricevere i suoi passaggi. Se il rivale riesce ad annullare questa strategia, allora per la squadra sarà morte cerebrale. Il vero significato del numero che porta sulle spalle è quanti giocatori dipendono da lui».

E in questa Copa América la vena realizzativa della Colombia sta dipendendo quasi completamente da James, che ha già inanellato 5 assist – tanti quanti Lionel Messi in modalità Stato Di Grazia nella Copa del 2021 – e si è trovato coinvolto in quattordici, no, dico, quattordici occasioni da gol create dai Cafeteros, dieci delle quali da calcio da fermo, la sua killer move preferita e più riuscita.

L’aura che circonda James, quando c’è un calcio di punizione da una zona potenzialmente pericolosa sia per tirare che per crossare, o un calcio d’angolo, si fa incandescente come la luminescenza che circonda i santi. Le traiettore che disegna con il suo sinistro sono sempre prevedibilmente imprevedibili, la mano posata sul capo che precede il miracolo, il ragionamento che spalanca le porte alla punchline che farà spellare le mani al pubblico.

Come ho già avuto modo di scrivere, nel mancino di James c’è qualcosa che esercita su chi lo osserva una malia magnetica: la sua potenza creativa, palingenetica, una magia quasi esoterica eppure drammaticamente funzionale. Contro il Brasile, nell’ultima gara del girone, con il suo sinistro ha colpito una traversa, spaventato Alisson con una traiettoria improbabile, spalancato le porte dell’azione che ha condotto al pari di Muñoz, messo sulla testa di Davinson Sánchez metà – diciamo i tre quarti – di un gol che è poi stato annullato dal VAR.

E poi ha scatenato un fantastico butterfly effect, il battito d’ali di una farfalla che crea uno tsunami nel cuore dell’oceano, superando con un delizioso sombrero Vinicius, fatto che di per sé andrebbe visto più come un onore che come un’onta e che il brasiliano ha invece lavato con il colpo in faccia a James che gli è costato il giallo, la squalifica per la gara contro l’Uruguay, e tutto quel che ne è conseguito.

Contro Panama, semplicemente, ha portato il livello della sua incisività nella competizione alla vetta di sublimazione più alta, segnando la sua prima rete – su rigore – equidistante tra i due assist con i quali si è guadagnato il record di essere il primo giocatore capace di partecipare a tre reti nel giro di 45’ nella fase a eliminazione diretta in tutta la storia della competizione.

E dal momento che la bellezza chiama altra bellezza, la giocata più significativa di questa sensazionale estate finisce inevitabilmente per essere – almeno finora – quella che ritrae l’assist per il gol del 3-0 segnato da Luís Díaz.

Che James potesse essere la pietra angolare sulla quale Lorenzo avrebbe edificato questa meraviglia barocca che è la Selección Cafetera, e di conseguenza la rivelazione di questa Copa América, diciamocelo senza vergogna, in pochi lo avrebbero pronosticato.

Forse perché abbiamo perso la fiducia nelle possibilità di redenzione, o il beneficio del dubbio: e se il lungo, tortuoso cammino di James non fosse stato altro che la creazione di tutta quella serie di pretesti che l’hanno portato a diventare il calciatore che è diventato?

In fondo capita anche a noi di sbagliare ad accettare un’offerta di lavoro troppo ambiziosa quando non siamo ancora pronti, oppure semplicemente di trovarci in una situazione in cui nessuno delle persone che ci circonda sembra apprezzarci davvero, se non remarci contro, trovare ogni pretesto buono per infangarci. In fondo capita anche a noi di imbatterci nella nostra anima gemella, di vedercela sfuggire e basare la nostra vita sullo sforzo di rincorrerla con il sogno di raggiungerla ogni volta, senza mai rassegnarci a doverla cercare in tutti gli occhi in cui finiamo per specchiarci. Di trovarci impantanati in situazioni svilenti, che ci appaiono scintillanti nelle loro promesse di benesseree che si trasformano in un incubo, e di cercare una dimensione più confacente senza doverci per forza sentire in trappola, o invischiati in qualcosa che è molto meno di quanto ci meritiamo.

E poi, in fondo, capita che il momento della redenzione arrivi anche per noi. Dovessimo pur aspettare anni e anni. Florentino Ariza, il protagonista de L’amore ai tempi del colera di García Márquez, dopo una fugace ma intensa storia con Fermina Daza finisce per perderla, ma non per dimenticarla: le giura amore eterno impiegando la sua vita – come una versione caraibico-romantica del capitano Achab di MobyDick – ad attendere tutto il tempo che serve – cinquantatré anni, sette mesi e ventitré giorni – affinché il destino di unirsi con la sua amata possa finalmente compiersi.

James, per tornare a conquistare i nostri cuori, ci ha messo dieci anni.

Venerdì ne compirà trentadue: chissà se lo farà da finalista in pectore, con davanti a sé la possibilità di portare nuovamente in Colombia una Copa América che manca da ventidue anni, undici mesi e diciassette giorni – una miseria in confronto a quanto ha dovuto aspettare Florentino, ma comunque un sacco di tempo. La fede, almeno quella nei propri mezzi, è incrollabile.

«Sei un extraterrestre?», gli ha chiesto qualche giorno fa un giornalista. «Credo di no», ha risposto lui. «Allora un genio della lampada?», ha insistito quello.

James lo ha guardato, ha sorriso.

«A volte», ha ammesso, «quando ci riesco».

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