Domenica, contro il Manchester City, Jamie Vardy ha segnato il gol numero 106, 107 e 108 della sua carriera in Premier League. Il primo lo ha segnato tirando un rigore perfetto nell’angolo in alto a destra di Ederson, dopo esserselo guadagnato con l’astuzia dell’animale da area di rigore che è.
Barnes ha ricevuto libero sulla trequarti, nel corridoio intermedio di sinistra, e Vardy, quasi con un riflesso pavloviano, ha fatto quello che sa fare meglio - quello che fa da sempre: si è piazzato tra i due centrali, esattamente alle spalle di quello costretto a dover controllare anche il movimento del pallone (in questo caso Garcia), e ha aspettato il momento perfetto per attaccare la profondità, con il busto proteso in avanti come un predatore. Ha atteso e ha atteso, ma Barnes per qualche ragione ha deciso di portare palla invece di passarla, vanificando il suo scatto in profondità. Solo in un secondo momento, quando la difesa del Manchester City si era riposizionata, lo ha servito dentro l’area, con Walker che ingenuamente lo controllava dall’esterno. Vardy ha lasciato scorrere la palla, perfettamente cosciente di poter tenere l’avversario alle spalle con il corpo, e non appena ha sentito Walker che provava a recuperare l’interno mettendogli le braccia sulle spalle si è lasciato cadere buttando le gambe all’indietro per incrociarle con quelle del terzino del City. È uno di quei rigori che gli attaccanti imparano a procurarsi, che ci si guadagna sapendo come mettersi con il corpo, come cadere, in definitiva come far sembrare naturale qualcosa che in realtà è sostanzialmente artificiale - uno di quei rigori che l’arbitro non può non fischiare anche se a tutti è perfettamente chiaro che è stato l’attaccante a procurarselo. Uno dei rigori che ti fanno dire: è stato furbo (l’attaccante). Oppure: è stato ingenuo (il difensore).
Il secondo gol è arrivato invece su un recupero alto del pallone da parte del Leicester a seguito di un pressing riuscito. Aké ha rilanciato sulla testa di Amartey, che ha appoggiato il pallone a Tielemans, che a sua volta si è associato con Castagne per lanciarlo in profondità. Anche se è un’azione completamente diversa da quella del primo gol, se fissate gli occhi solo su Vardy lo vedrete fare esattamente la stessa cosa. Camminando, quasi in punta di piedi, si posiziona alle spalle di Garcia in modo che questo non possa tenere d’occhio l’azione e lui stesso contemporaneamente - e mentre Garcia è intento a tenere la linea del fuorigioco, Vardy gli scappa alle spalle e va a ricevere il cross basso di Castagne dentro l’area piccola. Saltello con il destro, colpo con la punta sinistra, mini-sombrero a Ederson, gol.
Passano quattro minuti e la scena si ripete di nuovo. Barnes riceve sulla trequarti a sinistra, Vardy al trotto si mette alle spalle di Garcia e quando sente l’odore del sangue scatta in profondità. Questa volta Barnes lo serve esattamente quando deve farlo: Vardy gira intorno a Garcia, gli passa davanti, e non appena il centrale del City si allunga per intervenire sul pallone, Vardy frena improvvisamente. Garcia non può fare altro che tamponarlo, scaraventandolo a terra. Un altro rigore che non si può non fischiare.
Nell’analisi della sconfitta scritta la sera stessa, The Athletic ha titolato: “Quando imparerà il Manchester City?”. Un articolo che si riferiva al contesto più ampio delle scelte strategiche della dirigenza "citizens” e di quelle tattiche da parte di Guardiola, ma è impossibile non pensare che si riferisse a come il City si è fatto fregare per ben tre volte nello stesso identico modo da Vardy - che nella sua intera carriera alla squadra di Guardiola ha segnato già 8 gol. Quando imparerà il Manchester City?
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21 settembre 2014, prima partita da titolare di Vardy in Premier League. Siamo a metà tra un’epoca e un’altra, come sempre forse. In campo, per il Manchester United, De Gea, Ander Herrera e Di Maria ma anche Rooney, van Persie e Falcao. In panchina Van Gaal. Per il Leicester giocano Schmeichel, Drinkwater e Vardy (da ala sinistra) ma anche Esteban Cambiasso. In panchina Nigeal Pearson.
In un’ora di gioco il Manchester United si porta facilmente sull’1-3. Prima van Persie va schiacciare di testa un cross perfetto di sinistro di Falcao. Poi Di Maria con un piccolo pallonetto da dentro l’area - forse il suo gol più bello in Premier League. Infine Ander Herrera di tacco a sporcare il tiro fuori area sempre di Di Maria. In mezzo uno splendido colpo di testa di Ulloa, servito proprio da Vardy con un cross disperato dalla linea di fondo.
Al 62esimo del secondo tempo la partita è teoricamente finita, se non fosse per un lancio sgangherato di Konchesky verso Vardy, che è scattato forse per la millesima volta nella sua carriera partendo alle spalle del difensore che sta controllando il pallone. In questo caso è Rafael, che sembra in netto vantaggio sul pallone. Vardy però ci mette tutto se stesso e con una spallata lo sbalza via recuperando il pallone. Forse commette fallo o forse è Rafael ad esserci andato troppo leggero perché non si era accorto che Vardy gli era scappato alle spalle. In ogni caso, l’attaccante del Leicester entra in area ed è chiaro a tutti che ha visto con la coda dell’occhio il ritorno di Rafael e non sta aspettando altro che quello gli venga addosso. È chiaro a tutti tranne che a Rafael. Ovviamente è proprio quello che succede. Il rigore lo tira David Nugent. 2-3.
La partita è teoricamente riaperta. Anzi, dopo appena due minuti è pareggiata, con un tiro al limite dell’area di Esteban Cambiasso, che sfrutta un controllo complicato proprio di Vardy per battere De Gea. Il Manchester United probabilmente perde la testa. Al 79esimo Juan Mata si fa mangiare vivo da De Laet a centrocampo aprendo il campo al contropiede del Leicester. Vardy è già lì, alle spalle di Blackett, ad attaccare ancora una volta il leggendario lato cieco. Il ventenne centrale dello United si allarga troppo verso il portatore di palla lasciandogli la strada libera verso la porta. Vardy arriva davanti a De Gea, finta di incrociare il tiro ma alla fine apre il piatto e tira sul primo palo. Il portiere spagnolo rimane immobile, in ginocchio - sembra essersi inchinato di fronte a questo attaccante inglese con gli occhi spiritati che è appena uscito da un rave sulla spiaggia per venire a devastare il bar in cui tu stai facendo colazione.
Quattro minuti dopo la storia si ripete, ma in maniera ancora più casuale - come in un incubo ossessivo in cui sai che non puoi evitare quello che sta succedendo. De Laet dalla difesa rinvia a caso un diagonale avversario, solo per lanciare più lontano possibile, e indovinate chi c’è? Esatto, Vardy. È ancora lì alle spalle del povero Blackett che sul duello aereo pensa di essere in vantaggio ma non sa che non è altro che uno dei personaggi della storia del numero 9 del Leicester. A Vardy basta allargare leggermente il braccio per spostarlo dalla traiettoria del lancio, forse di nuovo con un fallo (è un’arte sottile quella di fare fallo senza farsi fischiare fallo), e andare di nuovo da solo verso la porta. Blackett è disperato, prova a recuperarlo con tutta l’energia che ha in corpo e anche lui è talmente ingenuo da non sapere che Vardy in realtà lo sta aspettando e che non appena si allungherà per provare a recuperare la palla lui la proteggerà con il corpo facendosi tamponare. Un altro rigore che non si può non fischiare. Blackett viene espulso. Ulloa segna il 5-3. Quando imparerà il Manchester United?
Da quando è in Premier League, nessun giocatore si è guadagnato e ha segnato tanti rigori quanti Vardy (rispettivamente 19 e 22).
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Per certi versi, la storia di Jamie Vardy è misteriosa. Innanzitutto perché è forse l’unica nel calcio contemporaneo ad aver invertito la narrazione a cui siamo abituati con i giocatori inglesi. Nella storia di Vardy c’è infatti l’alcol (sotto forma di bottiglie di Vodka da tre litri riempite di Skittles, che a quanto pare si scolava durante la sua prima stagione a Leicester), c’è una rissa fuori da un pub (per cui nel 2007 venne condannato a indossare un braccialetto elettronico che lo costringeva a tornare a casa entro le sei del pomeriggio, per sei mesi), c’è il calcio non professionistico e c’è persino la fissa per le isole della Spagna (nel 2013, solo un anno prima del suo primo gol in Premier League contro lo United, Vardy si era convinto ad abbandonare la sua carriera calcistica per trasferirsi a Ibiza). Tutto questo, però, non è alla fine della sua carriera sotto forma di squallida decadenza, ma all’inizio - come se fosse una sorta di percorso di iniziazione.
Oggi Vardy è sposato, ha tre figli, è appassionato di giardinaggio e matematica, ha una camera criogenica a casa dove recupera tra gli allenamenti e le partite, e segna tra i 15 e i 25 gol a stagione nel campionato più competitivo del mondo (l’unica cosa che a quanto pare ha mantenuto della sua vecchia vita è la Red Bull a colazione). Mentre lo vedo correre come un forsennato verso la porta avversaria non posso non pensare alla scena iniziale di Trainspotting dove Ewan McGregor fa più o meno lo stesso mentre la sua voce fuori campo dice: «Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete una famiglia, scegliete un maxi televisore del cazzo, scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici» eccetera eccetera. Se però McGregor sembra stia scappando dopo un furto, Vardy quando corre sembra invece stia caricando la polizia antisommossa durante gli scontri con un gruppo di hooligans.
È fin troppo facile ricondurre la rabbia con cui gioca Vardy a quello che forse può essere considerato il momento fondativo della sua carriera - e cioè quando a 16 anni (un’età in cui di solito i prodigi iniziano a fare i primi passi nel calcio che conta) fu scartato dallo Sheffield Wednesday perché considerato troppo gracile (ironico, se si pensa che qualche tempo fa Emanuele Atturo lo ha descritto efficacemente come “veloce, forte, il suo fisico somiglia a un unico e incontrollabile fascio di muscoli”) costringendolo a ricostruirsi una carriera quasi letteralmente da zero in quel mondo tutto inglese a metà tra persone normali e calcio professionistico. Qualche tempo fa Vardy ha dichiarato che a 18 anni «l’idea di provare a diventare un calciatore professionista non era affatto nella mia testa». E questo ci porta al secondo grande mistero della sua storia, e cioè come ha fatto a diventare uno dei migliori attaccanti della Premier League esordendoci a 27 anni dopo aver giocato per anni in squadre come lo Stocksbridge Park Steels, l’Halifax Town e il Fleetwood Town.
Secondo Micheal Owen, Vardy è stato solo fortunato. «È il tipo di prima punta che è sostanzialmente “testa bassa e tira”», ha dichiarato durante un periodo di secca realizzattiva di Vardy nella stagione 2016/17 «Per essere un finalizzatore di questo tipo devi avere molta fortuna - a volte ce l’hai, a volte no». Una dichiarazione che naturalmente associo a quando Vardy, all’inizio del 2011, dopo aver segnato una tripletta al Kendal Town si abbassò i pantaloncini per mostrare il culo coperto da un paio di boxer rossi con scritto sopra “lucky pants” accanto a un paio di dadi.
Anche scartando la fortuna, comunque, quello di Vardy rimane un mistero che si può leggere solo parzialmente attraverso la teoria di Maurizio Sarri per cui la differenza tra un giocatore di Serie A e uno di Serie C è "sottile". E che anzi si infittisce se si vedono i video di quando Vardy giocava nelle serie minori inglesi e lo si vedeva quasi allo stesso identico modo di adesso passare accanto ai difensori come un treno e tirare bombe sotto la traversa in corsa a tu per tu con il portiere. Solo che con una cresta rossa da Ljungberg sulla testa e con poche decine di tifosi ammassati a bordo campo, dietro gli sponsor.
Alcune delle persone del suo passato giurano che Vardy non è mai cambiato. «Non è cambiato nulla nel suo stile», ha dichiarato una volta l’ex presidente dello Stocksbridge Park Steels, Allen Bethel «C’è stato un momento in una recente partita con il Newcastle dove ha spinto via con la spalla un grosso difensore. Sembrava stesse giocando su un campo melmoso a Bracken Moor Lane [lo stadio dello Stocksbridge, nda]. Non è mai cambiato». È all’incirca la stessa cosa che dice il suo ex compagno d’attacco al Fleetwood, Andy Mangan: «La cosa più grande che si può dire su di lui, la più grande fonte di ispirazione, è che non ha paura di niente. Potrebbe giocare con John Terry o chiunque altro, non importa. Va sul campo e gioca il suo calcio». O Phil Senior, secondo portiere ai tempi in cui Vardy era all’Halifax: «Il suo gioco non è cambiato da allora. Ha giocato sempre allo stesso modo in tutta la sua carriera».
Qual è il segreto di Vardy, allora? Forse è la nostra idea di lui come attaccante di provincia ad essere sbagliata. O meglio è sbagliata la nostra idea di attaccante di provincia come di un giocatore monodimensionale, che ha l’intensità atletica, la cattiveria, come unica arma a sua disposizione. Un allenatore dal gioco proattivo come Brendan Rodgers, per esempio, è rimasto sorpreso dalla capacità del suo numero 9 di leggere il gioco. «Vards è intelligente», ha dichiarato Jonny Evans, suo attuale compagno di squadra al Leicester «Ha imparato a leggere il gioco attraverso l’esperienza. Non c’entra solo l’intensità della sua corsa, è un giocatore che ha riflettuto sul suo gioco. Mi ha sorpreso e sono sicuro che ha sorpreso anche Brendan Rodgers un pochino».
Rodgers, dal canto suo, dice di aver lavorato soprattutto sulle sue scelte in fase di pressing (un aspetto non secondario per un giocatore che potenzialmente vorrebbe pressare qualsiasi portatore di palla per 90 minuti), in un modo simile a come aveva fatto con Luis Suarez al Liverpool - per preservarne le capacità fisiche e la lucidità sotto porta, ovviamente, ma anche per farlo ricevere, una volta recuperata palla, in zone più centrali possibili di campo. Questo non significa, però, che Vardy abbia arricchito a tal punto il suo gioco da diventare un numero nove moderno, capace di associarsi al centrocampo e di crearsi occasioni da solo con il puro talento.
Guardando le sue ultime partite lo si può vedere giocare maggiormente a parete con i centrocampisti durante le transizioni offensive della sua squadra, ma il suo talento rimane quello di scappare alle spalle dei difensori avversari e inventarsi un modo sempre diverso di sorprendere il portiere. Nel Leicester di Rodgers la fase di definizione è dominata dai trequartisti e dai centrocampisti - da Barnes, da Maddison, da Tielemans - mentre Vardy si occupa di attaccare la profondità. Se però anche l’allenatore nordirlandese dice che Vardy rappresenta «tutto ciò che voglio in un attaccante» allora forse vuol dire che il suo talento a essere speciale. Unico.
Questo forse è il dato che più viene frainteso della storia di Vardy - per certi versi da Vardy stesso, che ha deciso di chiamare la sua autobiografia “Dal nulla”. Per quanto abbia passato una parte consistente della sua carriera nel calcio semi-professionistico, infatti, quasi tutti i suoi ex allenatori e i suoi ex compagni sono concordi nel dire che era chiaro a tutti che fosse un giocatore di un altro livello. Un pesce fuor d’acqua, almeno per quando riguarda il talento. «Poteva giocare con entrambi i piedi, correre in profondità e finalizzare. A quel tempo sapevamo che era qualcosa di speciale», ha raccontato l’allora primo portiere dell’Halifax, Jonathan Hedge, in un pezzo del The Athletic che ricorda il momento in cui Vardy andò vicino a segnare tre triplette consecutive all’inizio del 2011. «Era eccellente nel modo in cui segnava le sue occasioni ed era di gran lunga troppo forte per quel livello», ha dichiarato invece Tom Scargill, giornalista locale che segue l’Halifax.
In questo contesto è utile ricordare che una costante della carriera di Vardy, anche nel mondo semi-professionistico, è stata quella di essere acquistato per cifre relativamente alte tra lo scontento iniziale della tifoseria. È successo nell’estate del 2010, quando l’Halifax spese per lui 15mila sterline - una somma di denaro che venne rinfacciata all’allenatore Neil Aspin, che l’aveva fortemente voluto, almeno fino a quando Vardy non iniziò a segnare con continuità. «Mi ricordo quando lo comprai a inizio stagione», dichiarò Aspin dopo una tripletta di Vardy contro il Chasetown «Non sono il tipo di persona che legge i commenti online, ma mi dissero che qualcuno aveva scritto: “Questo dovrebbe essere il grande colpo?”». Questa storia si ripetè quasi identica due anni dopo, quando Vardy si trasformò nel primo giocatore della storia del calcio inglese ad essere acquistato per un milione di sterline da un club non professionistico, passando dal Fleetwood Town al Leicester.
Approfondendo la storia di Vardy, sembra quasi che gli allenatori che lo hanno portato fino a noi abbiano creduto in lui più di quanto abbia fatto Vardy stesso. L’ex secondo allenatore del Leicester, Craig Shakespeare, ad esempio ha raccontato di quando nel 2013 fu costretto a convincere Vardy, ormai a un passo dalla Premier League, a non ritirarsi per diventare un promoter di una discoteca a Ibiza. «A volte i giocatori hanno dei dubbi su se stessi e Jamie era il primo ad ammettere che stava passando un momento difficile», ha dichiarato Shakespeare «Io, Nigel Pearson [primo allenatore, nda] e Steve Walsh [assistente, nda] eravamo lì a supportarlo. Non abbiamo fatto altro che ricordargli le sue qualità e dirgli che pensavamo che potesse continuare. Gli abbiamo persino detto che non solo poteva giocare in Premier League ma che aveva anche le qualità per arrivare in Nazionale […] Per fortuna alla fine non è andato a Ibiza».
Magari è psicologia da quattro soldi, ma guardando giocare Vardy è impossibile non avere l’impressione che stia cercando di compensare una presunta inadeguatezza. Lo si vede nel modo in cui spesso se la prende con i portieri o con i tifosi avversari. O nella malizia con cui sa usare il corpo per manipolare i difensori e prendersi i rigori che ogni anno ingrossano le sue statistiche realizzative, anche se non ne avrebbe affatto bisogno. Come se fosse un intruso che si sta facendo beffe di tutti su un palco su cui non dovrebbe stare.
Ma il fatto che Vardy sul palco della Premier League ci possa stare è ormai evidente a tutti. Lo si può vedere da qualsiasi statistica, a partire dai gol ovviamente. Mi basterà citare il fatto che nelle ultime quattro stagioni (cioè da quando il Leicester ha vinto il campionato in poi) solo in una Vardy ha segnato meno degli Expected Goals avuti a disposizione (la 2018/19, quando segnò 13 non-penalty goals da 14.97 Expected Goals), e che il suo tasso di conversione di tiri in gol di media si attesta a un incredibile 21,8%. Nello stesso periodo, per intenderci, quello di Agüero è stato del 16,7%.
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La storia di Vardy fa provare sensazioni contrastanti - paradossali, per certi versi. Fa strano, anche per l’intensità e la freschezza fisica che mette nel suo gioco, pensare che la punta del Leicester abbia già più di 33 anni, ma allo stesso tempo fa strano anche venire a sapere che abbia segnato il suo centesimo gol in Premier League solo poche settimane fa - dopo meno di sei anni dal suo esordio. La storia di Vardy è già Storia con la S maiuscola, eppure abbiamo l’impressione che sia ancora tutta da scrivere. In ogni caso, per apprezzare il suo talento vi basterà anche solo guardare i 53 minuti di video che il Leicester ha pubblicato per celebrare uno per uno i suoi cento gol in campionato.
È un video pieno di gol incredibili che vi faranno ricredere se pensate ancora che Vardy sia solo un attaccante di provincia. C’è ovviamente quello segnato al Liverpool all’inizio del 2016 su un lancio lunghissimo di Mahrez in cui colpisce al volo la palla dopo un rimbalzo troppo alto per sembrare anche solo controllabile (minuto 9.30). Oppure quello, tecnicamente ancora più difficile, in cui contro lo Stoke City, su un cross dal limite dell’area, passa davanti al difensore avversario e colpendo il pallone di collo pieno al volo lo piazza sotto al sette in alto a destra del portiere (minuto 17.30). O infine quello segnato la scorsa estate al West Brom sorprendendo la difesa su un lancio lungo della difesa (è incredibile vedere quante difese in Premier League vengano sorprese dalle corse in profondità di Vardy su rilanci apparentemente innocui) e anticipando l’uscita del portiere con un pallonetto lunghissimo (minuto 42.18). Ci sono gol di tutti i tipi: di destro, di sinistro, dribblando più difensori, staccando di testa come un attaccante vecchio stampo (particolarmente impressionante a questo proposito quello segnato contro il Burnley la scorsa stagione, minuto 44.30).
Personalmente, però, ciò che trovo più interessante di questo video è ciò che Vardy fa immediatamente dopo un gol. Soprattutto perché Vardy è rimasto uno dei pochi giocatori ad avere un rapporto diretto con il pubblico all’interno dello stadio, che non pensa le sue esultanze in anticipo per le telecamere ma le improvvisa in base a come si prende con i propri tifosi o più spesso con i tifosi avversari. E quindi non è raro vederlo dopo un gol andare volontariamente sotto la curva avversaria a mostrare le orecchie, a guardare centinaia di persone che lo insultano in tutti i modi con lo stesso ghigno soddisfatto di chi si piazza a un centimetro da un cane furioso con la consapevolezza che è legato a un palo con una catena. A volte indica uno per uno i tifosi avversari, a volte addirittura finisce per mimare il volo di un uccello come un pazzo solo per irridere chi lo aveva insultato.
In Vardy sopravvive un’anima punk da personaggio di This Is England che fuoriesce ogni volta che qualcuno si frappone fra di lui e le sue scorribande da invasore di campo - perché spesso le sue esultanze sono così poco levigate, così poco da calciatore d’élite, che è questo che sembra quando esulta. I miei momenti preferiti, in questo senso, sono quelli in cui Vardy se la prende con i portieri che avevano provato a distrarlo mentre si apprestava a battere un calcio di rigore. È successo con Pepe Reina, quando era all’Aston Villa, che Vardy ha sbeffeggiato indicandolo con l’indice dopo aver segnato nel marzo di quest’anno. O con Ben Hamer, portiere dell’Huddersfield, che nell’aprile del 2019 si è preso un buffetto sulla nuca dopo aver sfiorato un rigore a mezza altezza.
Il mio preferito in assoluto è però quello successo il 7 maggio del 2016, durante la penultima giornata di campionato di quella leggendaria stagione, contro l’Everton. La squadra di Ranieri aveva già vinto aritmeticamente la Premier League portando a termine il suo incredibile, assurdo miracolo. Era l’ultima partita in casa della stagione, e sembrava ci fosse solo da festeggiare, eppure quando Vardy si apprestò a battere il rigore del possibile 3-0 il portiere dell’Everton, Joel Robles, iniziò a ballare come fanno almeno dai tempi di Bruce Grobbelaar agitando le braccia e indicando il punto in cui si sarebbe buttato. Vardy è sembrato non curarsene troppo, prendendo la sua solita rincorsa. Poi ha calciato fortissimo nell’angolo in basso a sinistra, mentre Robles è rimasto immobile. Vardy gli è passato davanti per andare a farsi abbracciare dal suo pubblico ma prima di metterselo alle spalle lo ha indicato, sorridendo come farebbe qualcuno che ha appena abbassato i pantaloni a un uomo elegante in una piazza piena di gente.
In quel sorriso credo ci sia tutta la soddisfazione di un uomo che è entrato nel calcio professionistico dalla finestra dopo esserci uscito dalla porta. Di un giocatore che è arrivato in Premier League quando ormai non se l’aspettava più nessuno e che ha segnato poco meno di un terzo dei suoi gol alle sei grandi del calcio inglese (37 su 108). Che ha volontariamente rifiutato la possibilità di chiudere la carriera in un grande club nel momento in cui poteva farlo. Che, insomma, ha rovinato una festa a cui non era stato invitato spiaccicando la torta di compleanno in faccia a tutti. Un sorriso che sembra dire: non sono io lo scemo, sei tu lo scemo.