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Sandro Modeo

Jannik nel giardino dei sentieri che si biforcano

La storia di Jannik Sinner tra mondi possibili e impossibili.

In uno dei racconti-cult di Borges (dalla raccolta Finzioni), il protagonista Yu Tsun è una spia cinese al servizio dei tedeschi (degli Imperi Centrali) nella Grande Guerra. Il suo obiettivo – scoprire il luogo in cui sono dislocate le artiglierie dell’XI Parco Britannico – è legato allo scioglimento di una “chiave” molto particolare, ovvero alla decrittazione del libro -labirinto scritto dal nonno Ts’ui Pen, Il giardino dei sentieri che si biforcano (da cui il titolo del racconto stesso). Lo scioglimento – e la conseguente “rivelazione” – porterà Tsun a dover uccidere suo malgrado lo studioso-solutore, Stephen Albert, dato che proprio“Albert” è anche il nome del sito segreto delle artiglierie; e l’unico modo con cui Tsun può comunicarlo ai superiori è attraverso i titoli dei giornali britannici sull’omicidio da lui stesso commesso. Indissolubile dalla vertigine del plot, è quella della chiave che lo risolve, se il giardino e i suo sentieri si espandono a metafora delle “biforcazioni” (e poi ramificazioni) estese a ogni livello di organizzazione della materia inanimata e biologica, dagli scontri delle particelle elementari all’articolarsi di universi paralleli (in uno solo dei quali Borges – qui precursore di tanta SF – rende possibile l’incontro fra Tsun e Albert); passando, in mezzo, per le sliding doors, i percorsi alternativi che si succedono nelle parabole di tutti noi, animali umani.

 

Quella di Sinner non fa eccezione: anzi, l’insieme delle sue sliding doors è talmente denso da invogliare a indagarne la successione per cercare di capirne il senso, forse coincidente, almeno in parte, coi segreti del suo tennis o con l’impatto crescente che sta producendo in Italia e nel mondo. Proviamo quindi a seguire Jannik (o Jan, o JS) nel suo “giardino dei sentieri che si biforcano”; dove il giardino non può non echeggiare anche il green mitico di quel torneo – i Championships londinesi – mai conquistato, finora, da un italiano.   

 

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Prima biforcazione: l’ombra lunga della Grande Guerra…

La prima biforcazione risale molto indietro, a 80 anni prima della nascita di Jan, cioè proprio alla fine della Grande Guerra che fa da teatro al racconto di Borges. Ed è una biforcazione decisiva per schiarire le nebbie e gli equivoci intorno all’italianità di JS.

 

La “questione altoatesina”, a meno di non affrontarla con sbrigatività ideologiche di segno opposto, è dannatamente complessa, un vero nodo di Gordio. Come mostra la guida ideale per decifrarla, cioè il libro recente di Oswald Überegger (All’ombra della guerra. Storia del Tirolo (1918-20), Carocci, 2020); un testo magistrale per rigore e intensità del tracciato, che qui possiamo solo liofilizzare.

 

Überegger innesca la sua ricostruzione dall’ultimo anno di guerra, tornando da par suo su passaggi-chiave: uno su tutti, la paradossale “scossa” della disfatta di Caporetto (ottobre 1917), in seguito alla quale l’Italia resetta e reimposta i vertici militari, sostituendo Cadorna col giovane Diaz, ovvero la condotta autodistruttiva dell’uno (attacchi scriteriati con perdita immane e gratuita di vite umane, modi repressivi con ufficiali e soldati) con quella razionale e lungimirante dell’altro: militari responsabilizzati e valorizzati, concessione di licenze, razioni alimentari più consistenti, strategia intelligentemente difensiva. Un passaggio che condurrà, insieme alla capacità diplomatica di reclutare accanto alle forze italiane 240.000 alleati tra francesi, inglesi e americani, alla “stabilizzazione del Piave” e alla controffensiva finale, ratificata dal Bollettino della Vittoria dettato da Diaz (4 novembre ’18). Ma altrettanto decisivo, sul versante degli Imperi Centrali, è invece il logorio di un esercito a sua volta eterogeneo, composto solo all’8% da tedescofoni, tra decine di migliaia di ungheresi, croati, sloveni, polacchi: a riprova definitiva, argomenta Überegger, di quanto infondata sarà la retorica postbellica sulla mistica dell’eroismo austro-tedesco.

 

Infondata ma spiegabile – senza dover ricorrere alla psicologia sociale o alla psicanalisi – in quanto da ricondursi a un sentimento pervasivo di frustrazione-umiliazione, che si convertirà – anche grazie alle irrealistiche e punitive richieste di riparazione finanziaria da parte degli Alleati, peraltro esercitate su popolazioni già piagate da un impoverimento tragico, come denunciato in tempo reale da Keynes – nel “risentimento” e nella pulsione di giustizia-vendetta su cui mieterà consensi di massa la palingenesi nazista. E quel sentimento verrà amplificato, oltretutto, dalle modalità di spartizione postbellica, come mostra proprio il caso particolare del Südtirol o Alto Adige (anche se, in teoria, il termine tedesco si dovrebbe riferire alla sola componente tedescofona dell’area), che qui più di tutti ci interessa.

 

L’“assegnazione” del Tirolo meridionale è di fatto stretta tra due tappe diplomatiche, una pre e una postbellica: la prima è il cosiddetto “patto segreto” di Londra (aprile 1915), in cui gli Alleati promettono quei territori all’Italia (al Presidente Salandra e al Ministro degli esteri Sonnino) in cambio della stessa discesa in guerra; la seconda è il mantenimento delle promesse, a vittoria acquisita, nel trattato parigino di Sant-Germain-en-Laye, ratificato nel settembre 1919, ma dopo mesi di trattative. In realtà, sotto quella gelida scansione, ricorda Überegger, vanno sottolineati tre risvolti decisivi. Primo: la decisione finale sul Sudtirolo viene presa, di fatto, dal Presidente americano Woodrow Wilson, in parte contro l’opinione di consulenti accademici sia americani che europei («Per quanto mi riguarda, il Brennero è vostro», sentenzia nell’aprile dello stesso ‘19); decisione che va vista, a differenza di quanto a lungo creduto, come una compensazione o meglio un “contentino” per il “no” a Fiume, che gli Alleati non concedono per limitare l’espansione italiana a est. Secondo: le argomentazioni italiane per l’annessione evocano una logica geo-strategica (i “confini naturali”, a dispetto delle maggioranze tedescofone dell’area), secondo una plasticità opportunistica che vede invece usare l’argomento opposto proprio per Fiume, per cui si evoca il rispetto delle maggioranze italofone. Terzo – e siamo al dunque – le richieste italiane sull’Alto Adige, rispetto al “patto segreto” di Londra, vengono ampliate secondo il “memorandum” di Salvatore Barzilai (politico triestino di origini ebree, nonché emissario di Salandra a Parigi), contenente quella aggiuntiva, per motivi strategico-commerciali, di San Candido e Sesto Pusteria, ovvero i comuni dell’infanzia e dell’adolescenza di Jannik Sinner. Richiesta che verrà accettata dopo la tenace, inutile resistenza della delegazione austriaca, che chiede di poter conservare “almeno la Val Pusteria e l’alta valle Isarco”; anzi, verranno aggregati anche Versciaco e Prato alla Drava (che prende il nome dal fiume locale, affluente danubiano).

 

Quell’annessione, in ottica sudtirolese, è una sorta di trauma originario: il quotidiano socialdemocratico Volkszeitung parla di “ingiustizia” e di “stupro”. Gravi tensioni, per la verità, si erano avute già prima di Saint-Germain, a guerra appena finita e a occupazione italiana compiuta, non solo in Alto Adige, ma in Trentino e nel Tirolo tutto, fino a Innsbruck; vedi, tra le varie sequenze (proprio a Innsbruck), quella di un gruppo di donne colpevoli di “relazioni sentimentali” coi soldati italiani, e quindi stigmatizzate dalla stampa, coi loro nomi esposti su manifesti affissi in tutta la città. Ma è dopo Parigi, dopo “la pace del diktat” o “pace violenta”, che tutto degenera, con gli italiani accusati in primo luogo, in un prequel del post 8 settembre ’43, di essere dei “traditori”: ci si riferisce a come, a inizio conflitto, Salandra e Sonnino avessero giocato abilmente (e ambiguamente) su due tavoli, passando in fretta dall’Alleanza all’Intesa proprio col “patto segreto” di Londra.       

 

…e l’identità plurale del SudTirolo (l’“italianità” di Jan) 

Da quel momento, quel trauma originario si traduce in una ferita destinata a suppurare lungamente prima di cicatrizzarsi a fatica.

 

Il quadro peggiora pesantemente con le politiche fasciste, vissute dai sudtirolesi, con molte buone ragioni, come un tentativo di sistematica “cancellazione del carattere tedesco dell’Alto Adige” attraverso provvedimenti ad hoc: la proibizione dell’insegnamento del tedesco, il cambio della toponomastica e soprattutto la sostituzione del personale statale tedescofono con quello italiano, in continuità con pratiche già avviate prima, per esempio nelle ferrovie. È un processo che allarma gli autoctoni soprattutto dal ’37, quando il Regime incentiva l’immigrazione in Alto Adige da “regioni italiane depresse” (leggi: il Meridione); anche se gli esiti saranno molto più contenuti rispetto alla percezione locale. Una potente, tragica sintesi di questa fase è la figura di Giacomo Matteotti, che con altri compagni socialisti tratta coi socialdemocratici altoatesini il loro “progetto di autonomia”: dialogo troncato dal suo feroce rapimento-assassinio (10 giugno ’24), vero spartiacque-acceleratore, com’è noto, nel saldarsi della dittatura.   

 

Nel primo dopoguerra, si avvia un nuovo dialogo, protagonisti la Svp (Südtiroler Volkspartei) e il Presidente De Gasperi (per inciso trentino), che pur rifiutando a quelle aree l’autonomia, in quanto troppo importanti per ragioni economiche, apre per una tutela effettiva e non nominale a livello “etnico, linguistico e culturale” trovando un “accordo” ad hoc col premier austriaco già nel ‘46: ma non ne seguiranno, in ottica sudtirolese, mutamenti sostanziali, e il Trattato di Stato Austriaco del ’55 (l’agognata ri-acquisizione della sovranità) riaprirà brutalmente la ferita, con la richiesta esplicita di (ri) annessione del Tirolo cisalpino.

 

Lì si spalanca il decennio forse più difficile di tutta la parabola, come ricostruisce un altro libro-chiave, quello di Mauro Marcantoni e Giorgo Postal: Südtirol. Storia di una guerra rimossa (1956-67) (Donzelli, 2014.) Sulla spinta del break del ’55, il movimentismo autonomista-secessionista passa da un irredentismo strisciante (memore delle Katakombenschulen o “scuole clandestine di tedesco” organizzate da un mito locale, il presbitero Michael Gamper, avventurosa e ambigua figura di simpatie nazi-fasciste, almeno fino al ’38) a un terrorismo intriso di neonazismo pangermanista, concentrato nel Bas o Befreiungsausschluss Südtirol (“Comitato per la liberazione del Sudtirolo”) che ha tra i suoi leader figure estreme ed efferate come Norbert Burger. In una prima fase, quella spinta eversiva si traduce per lo più nella cosiddetta “guerra dei tralicci”, serie di attentati esplosivi ai cavi dell’alta tensione culminata nella “notte dei fuochi” (11 giugno ’61) con 37 cariche tra Bolzano e dintorni, una delle quali, legata a un pioppio di Salorno, costerà la vita al cantoniere Giovanni Postal, stradino dell’ANAS. In una seconda fase, tra ’64 e ‘67 – in primis per sabotare nuove, promettenti trattative tra i governi – degenera nel sangue di omicidi plurimi, culminati nelle stragi di Malga Sasso e Regina Vallona, in cui muoiono 15 esponenti delle forze dell’ordine italiane tra Carabinieri, Polizia e Finanza.

 

La svolta verrà esercitata nello stesso ’67 dall’allora Ministro degli esteri Aldo Moro, con l’avvio di trattative che porteranno al “pacchetto” dell’ottobre ’69 e finalmente allo Statuto di Autonomia del’72. Statuto che diverrà però operativo a tutti gli effetti solo vent’anni dopo, così che in quell’intertempo si insinueranno nuovi attentati, sia nel ’78 (acuiti dalla concessione del bilinguismo) che nell’88 (vedi quelli del gruppo Ein Tirol in scuole e uffici pubblici, per fortuna senza vittime). La progressiva, angosciosa conquista di un minimo di pacificazione passerà per rivelazioni inquietanti su una rete di opacità incrociate: quelle del governo austriaco, che mentre trattava con l’Italia copriva il terrorismo sudtirolese (vedi il Ministro Kreisky) e quelle dei servizi deviati italiani (l’allora SIFAR), che – svelerà un’inchiesta parlamentare tra fine anni ‘90 e inizio millennio – alimentava il terrorismo stesso per poter attuare rappresaglie controterroristiche e condizionare le trattative istituzionali.     

 

Attraverso questo lungo percorso è più facile, forse, visitare i paesaggi sudtirolesi-altoatesini penetrando oltre il loro sembiante oggettivamente fiabesco: percepire – come in sovrimpressione – il vissuto tragico che li contrappunta, per superarlo senza rimuoverlo in modo qualunquistico, che è poi il modo migliore per incubarne le recidive. Vedere la stessa San Candido (o Innichen, o Sanciana in ladino, in ogni caso il meraviglioso luogo nativo di Jan) nella sua complessità, tra l’impatto immediato – il centro, la sublime Collegiata romanica, il profilo dolomitico, lo scorrere della Drava, e i diversi edifici delle sue dolorose memorie: su tutti, il sacrario militare e il cimitero del Burg, in cui riposano caduti sia dell’esercito imperial-regio che dell’Intesa; col secondo, in particolare (oggetto di severo restyling dal 2003) che richiama il vicino ospedale “di confine”, in cui venivano ricoverati durante la Grande Guerra, spesso in condizioni disperate, feriti e malati dell’uno e dell’altro fronte.

 

In quest’ottica, è anche più facile non stupirsi se in queste cittadine e in questi borghi si continua e continuerà a vedere il Rathaus e l’Apotheke (la farmacia) con le loro insegne antiche; e persino se in diversi bar o ristoranti ci si sente rivolgere la parola prima in tedesco che in italiano. Così come, venendo a JS, non deve sorprendere che l’italiano non sia la sua madrelingua (ha studiato fino alla medie in scuole tedescofone), né che il toccante necrologio scritto dalla famiglia per la morte di nonno Josef, nel gennaio di quest’anno, fosse rigorosamente in tedesco.

 

Si può, forse si dovrebbe, tifare ed empatizzare con Jan non nonostante la sua appartenenza o identità plurale, ma proprio per quello; per la storia complessa e drammatica che la sostiene e la sostanzia. In fondo, la sua identità di austro-italiano non è molto diversa da quella afro-italiana di Paola Egonu (così lei stessa si definisce): nel senso – è quasi umiliante doverlo chiosare – che tutto questo non depaupera, ma al contrario arricchisce il concetto stesso di “italianità”, espandendolo – a un tempo – oltre la propria rigidità burocratica e univocità antropologica, magari razziale e fenotipica, in cui tanti (non solo il generale Vannacci) vorrebbero confinarlo, secondo una visione così anacronistica, regressiva e lontana dalla realtà da assumere i contorni dell’allucinazione.   

 

 

Semmai, vien da pensare con un brivido lungo a come il sentiero, nella biforcazione storico-bellica, avrebbe potuto prendere il ramo alternativo: al fatto che se gli Imperi Centrali avessero vinto la guerra (come succede con le forze dell’Asse in The Man of the High Castle di Philip Dick, altro autore che deve qualcosa a Borges) Jan non sarebbe stato un “atleta di confine”, ma un connazionale di Muster e Thiem “senza se e senza ma”. 

 

  

Seconda biforcazione: luce d’agosto (2001)

Possiamo così tifare ed emozionarci per Sinner come abbiamo fatto (e prima di noi i nostri padri) con altri campioni di quelle aree di confine: per Eugenio Monti da Dobbiaco (Toblach, in piena area-Sinner), altro rosso o meglio “il rosso volante” (Brera), forse il più grande bobbista di sempre; per fuoriclasse dello sci come Gustav Thöni da Stelvio (Stilfs), sul cui albergo di famiglia a Trafoi campeggia il nome bilingue (“Bella vista”= “Schöne Aussicht”), o Isolde Kostner da Bolzano; per Armin Zöggeler da Merano (Meran o Maran in ladino), se non il più grande, tra i più grandi con lo slittino; e per Dorothea Wierer da Brunico (Bruneck, Bornech), pluricampionessa mondiale di biathlon. Solo per citare alcuni picchi della catena.  

 

Di Jan, colpisce innanzitutto come sia uno dei pochi di quelle regioni (insieme a un altro tennista, Andy Seppi, e al marciatore Alex Schwazer) a non appartenere a sport invernali; anche se, come vedremo, avrebbe potuto rientrare anche lui nel canone. Il punto è che prima del bivio disciplinare (dei “perché” del tennis), ce n’è uno anteriore, a lungo comprensibilmente velato di discrezione.

 

«Considero Jannik Sinner il riassunto di tutta la mia vita nel tennis…»: così Riccardo Piatti – il mentore-maieuta di Jan a partire dai 14 anni – nell’incipit del capitolo che gli dedica nella sua autobiografia (Il mio tennis, con Federico Ferrero, Rizzoli, 2020). Incipit impegnativo, in cui viene comunicata da subito – col sigillo di un autorità indiscussa – una conoscenza profonda del giocatore e del ragazzo, che infatti verrà confermata nelle pagine a seguire. Non a caso, Piatti è stato tra i primi – se non il primo – a rivelare un dettaglio di peso. Risalendo al primo incontro con Jannik – una giornata sulle piste di sci di Selva di Val Gardena, presenti anche i genitori, Hans Peter e Siglinde -, Piatti ne ricorda in particolare la conclusione, quando si apparta con Hans Peter per sondare la possibilità che venga accettata la richiesta di portare con sé il ragazzo al leggendario Lawn Tennis Club 1878 di Bordighera. Nel corso di una conversazione molto aperta, a un certo punto Hans Peter rivela come “tanto tempo prima” i dottori avessero detto a lui e a sua moglie “che non potevano avere figli”; e come loro, per nulla rassegnati, prima avessero adottato un bambino, Mark, e poi, “contro ogni pronostico” fosse arrivato “naturalmente” anche Jannik.

 

Ora, per quanto non frequentissimo, lo “schema riproduttivo” della famiglia-Sinner non è nemmeno così raro: anche perché i parametri statistici sull’infertilità sono proiezioni verosimili ma non certo infallibili. Se in questo caso ci colpisce particolarmente è perché – a posteriori – ne carichiamo il senso in rapporto alla nascita di un campione. Fatto sta che – zoomando su particolari omessi da Piatti – i Sinner adottano Mark (un bambino di Rostov sul Don, terra dei Cosacchi) nel ’98, quando ha appena nove mesi; e il 16 agosto 2001 arriva Jannik, che nell’immaginario di noi spettatori slitta subito – con un’ellissi temporale simile a quella della Vita è bella di Benigni, quando Guido e Dora scompaiono nella serra per baciarsi e il piccolo Giosuè ne esce correndo a sei anni – ai tratti di un paio di foto che lo immortalano con la fluente chioma fulva e tra le mani una racchetta più grande di lui. 

 

Lì Jan di anni ne avrà quattro, forse cinque, l’età in cui comincia o ha cominciato da poco sia con lo sci che col tennis: è un bambino dai tratti elfico-efebici, da remote ascendenze Tudor o da angelo di quadro fiammingo (certi Van Eyck, l’Annunciazione di Memling). Sono due foto, guarda caso, sul rovescio bimane, già con l’impugnatura che verrà, con avambracci e polsi d’acciaio: una più difensiva, l’altra – meravigliosa – più offensiva, in ponderatio a gambetta sinistra alzata a sostenere la torsione, con lo sguardo vigile, prensile, cognitivamente aperto.

 

Quel piccolo corpo si distenderà via via in un giovane corpo da longilineo “nodoso e ‘nvolto”, rispondente ai canoni anatomo-morfologici dell’atleta contemporaneo riassunti da McClusky (“higher-faster-stronger”), ma – riguardo al tennis – deficitario per flessibilità e plasticità, oltre che per touch e manualità. Un corpo che ricorda quelli “sdenodati” (così Jacopone) di certi Cristi lignei della scultura medieval-rinascimentale tirolese, come quello nella chiesa di San Michele, proprio a San Candido; o certi autoritratti “naked” del grande Egon Schiele.        

 

 

Ma è meglio non spoilerare, né rispetto al suo lungo adattamento (il distendersi della dinamica o meglio della dialettica innato-appreso), né rispetto alle analogie con l’arte e gli artisti.

 

Terza biforcazione: il perché (i perché) del tennis

Il caso più noto, almeno in tempi recenti, è ovviamente quello dei Big Three (Federer, Nadal, Djokovic). Tutti e tre, cioè, pur impugnando la racchetta – come Jan – tra i quatto e i cinque anni, appaiono da sùbito dotati in varie discipline, RF persino a pingpong, squash e badminton; e tutti e tre eccellono nel calcio, tanto da esserne tentati “professionalmente” in luogo del tennis; Nadal, in particolare, anche per il precedente “genetico” di uno dei tanti carismatici zii di famiglia, Miguel Ángel alias “Tarzan” o la “Bestia”, centrale difensivo nientemeno che del Dream Team blaugrana allenato da Cruijff. Del resto, due studi-spartiacque condotti dallo psicologo di Heidelberg Wolfgang Schneider su centinaia di promettenti kids tennistici (tra il ’78 e l’88, in collaborazione con la Federtennis tedesca), hanno dimostrato da tempo e una volta per tutte quanto incida – nel tennis molto più che in qualsiasi altro sport – l’essere dotati di qualità atletiche generali, per così dire “sottostanti”: in sintesi, vari tipi di abilità motorie e di intelligenza cinestetica, decisive perché un atleta eccella negli “intermittent work patterns” della sintassi tennistica. Schneider citava i casi esemplari dei quasi coetanei Boris Becker e Steffi Graf; con Steffi vista addirittura come “il perfetto talento tennistico”, in quanto sopravanzava tutti sia nella tecnica che – appunto – nelle qualità motorie di base (“basic motor skills”), tanto da essere pronosticata anche come possibile campionessa europea dei 1500 metri.

 

Come quella polivalenza costitutiva – aperta plasticamente, se non a tutti, almeno a vari sport, tra loro anche dissimili – si incanali e si affini verso il tennis, dipende poi da un mix di spinte deterministiche e contingenze casuali. Lo dimostra, di nuovo, proprio il caso dei Big Three, accomunati anche dal fatto di scegliere il tennis (o, in parte, esserne scelti) per motivi simili: sia perché incrociano delle sliding doors umane “funzionali” (Federer i genitori e il coach aussie Peter Carter; Nadal l’altro zio, Toni; Djokovic la maieuta Jeca Gencič); sia per l’impossibilità dichiarata di condividere con altri la responsabilità tecnica e agonistica della prestazione; per essere vocati più a uno sport individuale che di squadra.

 

Con la sua polivalenza iniziale, quindi, JS è in buona compagnia; nel senso che la predisposizione al tennis, da non confondere con la predestinazione, rientra in quei parametri. Altre foto di Jan bambino-ragazzo, al riguardo, ci colpiscono. Alcune, rispetto all’habitat altoatesino, sono quasi ovvie, come quelle dello sciatore dalla postura dinamica perfetta, da Zurbriggen più ossuto e macilento. Altre, più sorprendenti: vedi quelle – una in particolare – che lo mostrano calciatore filiforme e spigoloso, emulo di un Andreas “Andy” Möller o, meglio ancora, di un Thomas Müller, l’attaccante-aracnide del Bayern con cui condivide complessione e proporzioni (Jan 188 centimetri per 76 chili, TM 186 centimetri per 76 chili).    

 

La scrematura verso il tennis è più o meno nota; anche se forse non alcuni dettagli risolutivi.

 

Caduta presto la tentazione calcistica, il giovane Jan combatte a lungo con quella sciistica, trascinando la fibrillazione amletica tra i due sport (anche per via dei successi tra i paletti, tra cui un titolo in gigante nel 32° Gran Premio Giovanissimi, 2009) fino ai quattordici anni. Il tennis comincia a praticarlo sistematicamente l’anno prima (2008), quando proprio nonno Josef lo accompagna ogni mattina alle sette al Circolo Tennis di Brunico, supplendo all’impedimento dei genitori, impegnati tra la cucina e i tavoli del Rifugio Fondovalle (Talshlusshütte) in val Fiscalina. Lì, il Rosso è notato dal suo primo maestro, Heribert “Hebi” Mayr, che resta impressionato dalla facilità “dei colpi e degli spostamenti”, tanto da informarne il “collega” Andrea Spizzica (ex buon tennista, arrivato al n°327 ATP), che in principio lo inquadra in un gruppo di diversi altri talenti della Pusteria: “le sorelle Ploner, Hopfgartner, Berger…”. La testimonianza di Spizzica è preziosa perché descrive tratti fondativi: partito con dialoghi beckettiani (Spizzica “zero tedesco”, Jan “poche parole di italiano”), il rapporto maestro-allievo decolla “molto lentamente”, come quasi tutti i rapporti di Jan, e accompagnando il ragazzo fino alla semifinale di Coppa Lambertenghi e alla finale nazionale under 13, il tecnico resta impressionato dalla sua “grande voglia di apprendere “(la “spugna” che tutti poi descriveranno).

 

La virata definitiva è alla fine spiegata da Jannik stesso come meglio non si potrebbe, e molto c’entra proprio la pulsione cognitiva all’auto-correzione, inseparabile da quella verso la vittoria, troppo spesso elusa nelle descrizioni caratteriali che lo riguardano: “Nel tennis, se perdo un punto, cerco di rifarmi in quello successivo; lo sci questo non lo consente. Se sbagli sei fuori, o non vinci. E se io non vinco, sto male. Non ci dormo. E non sono tipo da fare spallucce e passare oltre. Mi arrovello sul perché, e devo trattenermi per non scendere in campo di notte, per allenarmi e correggere gli errori che ho commesso”. Più tardi, aggiungerà un paio di chiose: la prima, sulla paura, nello sci molto superiore (quella di “rompersi un braccio, o l’osso del collo”); la seconda, una sentenza: “Sciare mi piace, ma non è un gioco. E a me piace giocare”.

 

Quarta biforcazione: l’addio ai monti

Imboccato il sentiero del tennis, decisiva è la tappa – la biforcazione o sliding door “interna” – del trasferimento a Bordighera. Di fatto una svolta, che come molte svolte ha un innesco accidentale.

 

Protagonista è il vicentino Massimo “Max” Sartori, coach-mentore storico di Andreas “Andy” Seppi (altro altoatesino) ma coach anche di Cecchinato, Karin Knapp, dello stesso Simone Vagnozzi. Siamo nel 2014: da poco a Bordighera con Riccardo Piatti, Sartori riceve in novembre una telefonata da Brunico: è l’ex allievo Alex Vittur, che lo costringe, più che esortarlo, a “visionare assolutamente” un ragazzino sensazionale. Sartori coglie l’occasione del Challenge di Ortisei, cui deve partecipare proprio il suo allievo Seppi, combinando un incontro-allenamento di “Andy” col ragazzino. Ma al giorno fissato – l’8 – Seppi si sente male, così che Sartori decide di prenderne il posto. Ne uscirà “distrutto”: “Jannik era un tredicenne, io un quarantaseienne ancora in piena forma che insegnava tennis da quando ne aveva venti: beh, mi mise in difficoltà, non ho mai sudato tanto in vita mia”. Sartori allerta allora Piatti, che sulle prime – per sua stessa ammissione – non è “altrettanto ricettivo”. Lo sarà quando Sartori, senza avvisarlo, invita Jannik a uno stage in Liguria: lì, Piatti ha un potente deja vu, ricordando quel ragazzino alla Coppa Lambertenghi (cui l’avevano portato Mayr e Spizzica): nonostante ne fosse uscito sconfitto 6-1, 6-2, Piatti era rimasto impressionato dal “grande senso della posizione”. Il passaggio a Bordighera, a quel punto, avverrà sia col placet dei genitori, sia – soprattutto – per ferrea volontà di Jan. Anche se “l’addio ai monti” sarà graduale, con puntate liguri “di qualche giorno” e “per brevi periodi” prima del trasferimento definitivo.

 

Foto di Inggrid Koe.

 

Come ogni vero maieuta, Piatti ausculta e plasma. Ausculta, nel senso che lo avvincono, in JS, tratti in parte coincidenti con quelli osservati da Mayr e Spizzica: su tutto, il modo di colpire la palla (“come se per lui fosse un movimento automatico”) e il tennis naturalmente offensivo, con la ricerca costante di vincenti e assalti a rete, quando i coetanei si rifugiano spesso in passanti e/o in pallonetti difensivi. E plasma, nel senso che molto di quello che è oggi, Sinner lo deve in larga parte – oltre che alla genetica – proprio a Piatti. Non si tratta, è evidente, solo del magistero sui fondamentali tecnici (la velocità del braccio nell’anticipo del dritto; la combinazione effetto-potenza del bimane) o dell’impostazione atletico-dinamica (i prodigiosi allunghi, innescati dai primi tre passi). Ma, ancor più, a livello di gestione tattica dei match, con “lezioni”, ad esempio, sul ritmo e la cadenza, che possono avvenire sul campo, in tempo reale (come a Marsiglia 2020, quando Jan stravince il primo set 6-1 con Medvedev e viene rimontato perché il russo – gli spiega Piatti – ha l’intelligenza di rallentare) o attraverso video esemplari, come quello su una strategia simile operata da Rafa, quando- davanti a un avversario in palla diminuisce l’aggressività e gioca “più lungo e carico”.

 

Insegnando, però, Piatti impara anche a conoscere Sinner nei suoi risvolti emotivo-cognitivi meno avvertibili. Tra i tanti flash che gli dedica nell’autobiografia, uno è particolarmente significativo: quello in cui ricorda uno degli abituali stage estivi organizzati dal club all’isola d’Elba. Un giorno, i suoi ragazzi (Jannik con loro) vanno a tuffarsi dagli scogli, con l’obiettivo di entrare in acqua dopo un salto mortale: falliscono tutti, a colpi di spanciate, tranne lui, ragazzo di montagna, che ci riesce con una naturalezza impressionante e che una volta a riva – attorniato dai compagni – spiega la cogenza del gesto: “Quando ero in aria ho pensato di fare due capriole consecutive: in questo modo, almeno una sarebbe venuta per forza”. Chiosando a sua volta l’episodio, Piatti rileva come quel gesto acrobatico non si possa collegare solo alle qualità atletiche generali di Jan, quelle “sottostanti” al tennis (in questo caso: spinta, coordinazione, velocità), ma anche, se non soprattutto, proprio al modo in cui l’ha giustificato, indice di una particolare attitudine mentale. Infatti, le parole di Sinner concentrano una micro-lezione intuitiva sul training come asticella da alzare rispetto alla partita, che richiama, per stare al tennis, i topspin esasperati, parossistici di Nadal in allenamento, premesse per eseguirne poi di più misurati – e sicuri – nei match. 

 

Il lungo apprendistato da Bildungsroman con Piatti si tradurà per Sinner in molti risultati esaltanti, corrispondenti a altrettanti step di un crescendo costante: la vittoria alle Next Gen 2019, il Primo ATP 250 a Sofia 2020, il primo 500 a Washington 2021 (anno in cui si conferma a Sofia senza perdere un set e vince anche il 250 di Anversa), exploit brutali in Davis (l’umiliante 6-2, 6-0 a Isner, sempre nel 2021). Ma a Jan, a un certo punto, sembrerà di pestare l’acqua nel mortaio, di essere entrato in un loop da Regina Rossa di Alice in Wonderland: “Devi correre più veloce che puoi, se vuoi restare nel punto in cui sei”. Anche perché tanti – tra osservatori e tifosi – cominciano a dubitare, a eccepire, a prodursi in uno scetticismo a volte venato di sarcasmo. Intendiamoci, alcuni rilievi sono talmente fondati da risultare tautologici, e la loro correzione nel tempo lo ha dimostrato: il deficit del servizio, il gioco ripetitivo senza piani alternativi, i cali fisico-energetici nei match al limite dei cinque. Altri, sono più discutibili o almeno delicati, in quanto ineriscono alla possibilità di correggere il profilo della sua “intelligenza emotiva”. McGenius, ad esempio – che a un certo punto sembra poterlo allenare – apprezza le sue qualità di “ragazzo-spugna”, ma lo esorta – e non è l’unico – a liberare di più le emozioni, come se il problema di Jannik fosse opposto a quello di tanti tennisti, ovvero un “eccesso di controllo”, una tendenza implosiva. Può darsi che quella diagnosi centrasse una parte del problema. O può darsi semplicemente – ma una cosa non esclude l’altra – che l’“appreso” dovesse (e in parte, chissà, debba ancora) fare il suo corso.                   

 

Quinta biforcazione: dall’impasse della Regina Rossa…  

Dal febbraio 2022 – subito dopo l’uscita ai quarti all’Open d’Australia per mano di Tsitsipas – Jannik cambia dunque lo staff, il player box. Sente che per arrivare agli ultimi dan della disciplina – o salire dalle sue amate Dolomiti all’Himalaya e al Karakorum – deve provare a spostare lo sguardo, a cambiare il punto di vista. 

 

Esce così di scena il gruppo di training-coaching storico, che per semplificare potremmo riassumere in un “quartetto di Bordighera” (dal 2018 al Piatti Center), composto, oltre che dal boss, dal Ds Andrea Volpini, dall’head coach Giulia Bruschi e dal maestro Luka Cvetkovic. Ed entra il quartetto nuovo, composto dal coach Simone Vagnozzi (ex allievo, come ricorderemo, del co-scopritore di Sinner Max Sartori), dal “supervisore” Darren Cahill (ex ottimo tennista aussie, che raggiunge il gruppo a giugno), dal preparatore Umberto Ferrara (che convince Jan alle “odiate” sedute in palestra) e dallo psicologo Riccardo Ceccarelli, che cerca di incidere sul suo assetto mentale anche con alleggerimenti ludici (le interminabili partite a burraco, passione di Jan). Cercando di integrare – non di sconvolgere o resettare – il grande lavoro di fondazione dei predecessori, il nuovo quartetto comincia a lavorare su tutti gli aspetti del tennis di JS – tecnici, atletici, tattici, neuropsicologici – in modo specifico e congiunto, secondo un’idea per certi aspetti non distante da quella degli “antichi maestri” di Mourinho (Vitor Frade e la “scuola di Oporto”) che vede nell’atleta un’unità funzionale. 

 

Per un anno e mezzo, i risultati continuano a procedere a singhiozzo. Certo, non mancano nuovi, significativi step: due grandi match contro Carlitos, l’ottavo a Wimbledon e la finale di Umago (primo titolo su clay); o l’approdo ai quarti dell’US Open e a un record non propriamente platonico, in quanto è il più giovane italiano di sempre, scalzando Berrettini, a raggiungere i quarti in tutti gli Slam.

 

Ma prosegue per JS la sensazione frustrante, paludosa, del costante sporgersi, affacciarsi alla “prima fascia” senza potervi accedere. In particolare, due sono i match – entrambi ai quarti di uno Slam e entrambi persi, non caso, al quinto – che marchiano quella sensazione.

 

Il primo è quello contro il Djoker a Wimbledon (5-7, 2-6, 6-3, 6-2, 6-2 per Nole). Lì Jan parte alla grande, giocando i primi due set sullo slancio del citato, straordinario ottavo contro Carlitos: nel primo, rimonta da 1-4 a 4-4, per poi breccare di nuovo il Djoker e chiudere al dodicesimo gioco; nel secondo, è addirittura dominante, con le percentuali-monstre sulla prima di servizio (e un lunare 100% di punti vinti sulla stessa), il break al terzo game (con tanto di veronica) e un secondo break a sigillare il tutto. Nell’insieme, in quei due set il Rosso si porta il Djoker “in giro per il campo”, uccellandolo in sequenze memorabili, come il lob a conclusione di uno scambio di 20 colpi. Poi, il toilet break, in cui – dirà lui stesso – il Djoker si copre di insulti allo specchio e ritrova lucidità e spietatezza, facendo svoltare tutto col break al quarto game del terzo, perfetto equivalente – per Sinner – della “distrazione” di Oberyn Martell che permette a Clegane-la Montagna di sgambettarlo e poi finirlo, facendogli esplodere il cranio (ci riferiamo a una delle sequenze più splatter di Game of Thrones, evocata giustamente nell’occasione di quel match da Emanuele Atturo come equivalente delle tante “resurrezioni” del Djoker dalla quasi-sconfitta al trionfo).

 

Il secondo match è quello con Carlitos agli US Open (vittoria del murciano 6-3, 6-7, 6-7, 7-5, 6-3): match fluviale, dai tratti epici (finisce alle tre del mattino locali) e obiettivamente esaltante, tanto da giustificare, almeno in parte, le iperboli della direttrice dell’Open, Stacey Allaster, («È la miglior partita che abbia mai visto in vita mia, un altro livello») e di McGenius, che commenta per la tv in abbandono estatico («Stiamo guardando il tennis che cambia sotto i nostri occhi; questa è l’evoluzione futura del gioco»). In effetti, è il più forte “segnale da futuro” delle Next Gen a “quel che resta” dei Big Three (anche se col Djoker assente); e questo per il semplice motivo che i due arrivano – come sintetizzerà Sinner – «a raschiare i loro limiti», spingendosi al loro zenit in quel momento. L’acme è nel terzo set, quando sia lo Spartano che il Rosso (il nickname di Carlitos viene dal suo tennis gladiatorio e dalla predilezione, condivisa col Djoker, per il film 300) giocano colpi violenti e profondi, vicino alla riga, sfinendosi in un andamento da montagne russe tra break e contro-break, sorpassi e controsorpassi, concluso da Jan con un terrificante tie-break vinto a zero.

 

L’epilogo – dopo il match point fallito da Jan nel quarto, quando va servire sul 5-3, e il contragolpe a seguire di Carlitos – sarà amarissimo, con Jan annientato: «Perdere in questo modo farà male per un bel po’». Oltretutto, quel match rafforza la lezione di quello col Djoker a Wimbledon. Ancora una volta, Sinner evidenzia cioè limiti atletici ovvero “energetici”: tanto che in molti arrivano a sostenere come la sua muscolatura e la sua “resistenza” (soprattutto la “resistenza alla velocità”, cioè l’essere veloci per lungo tempo) probabilmente non siano all’altezza del suo tennis, parossistico per continuità di pressing e ritmo.

 

Il 2022 finirà su quelle tonalità disforiche, tra una Davis modesta (sconfitta con lo svedese Ymer), infortuni, e una regressione a un 15° posto ATP molto, molto lontano dalle aspettative. Né il 2023 comincia meglio, tra l’ennesimo exit prematuro a un Open (di nuovo Australia e di nuovo Tsitsipas, ma stavolta già agli ottavi) e la morte di nonno Josef, che pur mancando “serenamente” e a 91 anni, è per Jan, di fatto, il primo vero lutto. Un lutto che il tempo muterà – forse ha già mutato – in luce, con la forza di una legacy affettivo-emotiva strutturata sui ricordi delle passeggiate sotto la Meridiana di Sesto, dei racconti con cui Josef lo incantava, dell’incontro in sua presenza con la mitica Lindsay Vonn, della mediazione verso il tennis (è Josef, oltre ad accompagnarlo a Brunico, a riferire ai genitori di Jan l’entusiasmo di Mayr). 

 

Foto di Lili Kovac.

 

Nei mesi a seguire, sembra continuare l’alternanza di alti e bassi. Gli “alti” si concentrano soprattutto nella vittoria del 250 di Montpellier (senza cedere un set) e nelle finali del 500 di Rotterdam e del 1000 di Miami, tutte e due perse con Medvedev. I “bassi” negli altri Slam dell’annata, che finiscono di nuovo col deludere/disilludere: Parigi al secondo turno con Altmaier, Wimbledon di nuovo col Djoker, l’US Open agli ottavi con Zverev. Parziale eccezione, è proprio l’ennesima sconfitta con Nole, per due buoni motivi: primo, si tratta comunque di una semifinale, “altezza” mai raggiunta prima in uno Slam; secondo, nonostante la liquidazione sia nel punteggio più brutale dell’anno prima (tre soli set: 6-3, 6-4, 7-6), Jan dice di sentirsi molto più prossimo al Djoker. Che non stesse bleffando, lo dimostrerà il finale di stagione.

 

…al “quantum leap”

Proprio in continuità con quella dichiarazione post-Championships, gli ultimi due mesi agonistici del 2023 finiranno col registrare finalmente la discontinuità, la frattura rispetto all’impasse della Regina Rossa; col somigliare al “quantum leap” tanto atteso.

 

Il primo rintocco è a Toronto, con la vittoria del primo, agognato 1000; il secondo è nell’approdo, inedito, allo swing tennistico asiatico con la vittoria del 500 di Pechino “in stato di grazia”, sigillata dalle vittorie in semifinale con Alcaraz e in finale (per la prima volta) con Medvedev (un doppio 7-6); il terzo è la vittoria del 500 di Vienna, racchiuso tra la “vendetta” su Ben Shelton (da cui ha appena perso a Shanghai) e la finale di nuovo contro Medvedev, stavolta piegato in tre set (7-6, 4-6, 6-3). È un filotto che lo porta a eguagliare i 10 titoli ATP di Panatta e a presentarsi carico a palla al rush delle ATP Finals torinesi e della fase finale di Davis a Malaga.

 

In quella doppia sequenza, si rinsalda e si concentra il “leap”.

 

Nel Gruppo Verde di Torino – dopo aver liquidato un opaco e semi-infortunato Tsitsipas – batte per la prima volta un Djoker che arriva imbattuto da 19 incontri: sono tre set di apnea (7-5, 6-7, 7-6), nel miglior match “ai tre” dell’anno insieme alla finale di Cincinnati, in cui il Djoker aveva piegato Carlitos dopo avegli concesso un match point. Quindi, batte Rune (si discuterà all’infinito sull’“onestà a doppio taglio” di quella vittoria che rimette in pista il Djoker) e Medvedev – in semifinale – per la terza volta in pochi mesi, di nuovo in tre set. In finale, Nole ricorre a tutta la propria ferocia-esperienza di “savant” vendicativo, vincendo in due set (6-3 6-3) contro un Sinner in parte tornato – in apparenza- più vulnerabile.

 

Non andrà così pochi giorni dopo in Davis, dove Jan si presenta – oltre che in grande condizione – motivato anche dal mostrare quanto fossero gratuite e grette le accuse di disaffezione patriottica scagliate contro di lui da diversi media (Gazzetta in testa, com’è noto) dopo il forfait di settembre a Bologna. Il Sinner di Malaga – al netto dell’enfasi e della melensaggine di cui hanno grondato quegli stessi media, anche per stolta compensazione, oltre alla RAI – è davvero un altro giocatore, capace di un tour de force irreale. Nei quarti contro l’Olanda (dopo la sconfitta di Arnaldi contro van de Zandschulp) prima liquida Griekspoor, poi affianca l’amico Sonego a “impallinare” (Volandri dixit) il doppio orange (di nuovo Griekspoor con Koolhof); e in finale contro l’Australia – dopo il riscatto di un resistente/resiliente Matteo Arnaldi con Popyrin – annienta in modo quasi irridente (6-3, 6-0) un de Minaur che sembra in quel match appartenere, rispetto a lui, a una categoria inferiore, così riportando da noi, a 47 anni di distanza, l’Insalatiera. E questo nonostante non si regga in piedi – rivelerà a posteriori Volandri stesso – per la stanchezza immane incamerata il giorno precedente, coi due match vittoriosi contro la Serbia (ovvero contro il Djoker) in semi: due match che concentrano, forse, la quintessenza dell’ultima biforcazione, quella che segna il passaggio dalle Dolomiti alle catene himalayane. Dopo la sconfitta di Musetti con un metallico Kecmanovic, JS batte di nuovo il Djoker, invertendo addirittura a suo favore la modalità Clegane-Montagna di GoT: ne annienta tre match-point nel terzo (concentrandosi, spiegherà lui stesso, sul servizio, favorito dalle palle nuove) per poi breccarlo e chiudere 7-5, il tutto dopo un secondo set piuttosto falloso, ma dopo un primo da fantascienza. Poco dopo, Jan fa il bis in doppio, di nuovo a fianco di Sonego (contro Djoker-Kecmanovic) guidando il compagno a un pietrificante 6-3, 6-4.

 

Da Toronto a Malaga, JS sembra davvero un clone di sé stesso, un Sinner-2 inedito per continuità e varietà d’azione, plasticità strategica, resistenza neuropsicologica. Cos’è successo? Cosa ha innescato quell’“improvviso” cambio di livello della performance? E la possibilità, quindi, di imboccare – nell’ultima biforcazione – il sentiero che separa gli atleti dotati dai campioni?

 

Il primo passaggio è analizzare i differenziali e le variazioni in senso riduzionistico, scorporandoli per comodità descrittiva; ma anche così, come si vedrà, i vari aspetti (tecnico, tattico, atletico, neuropsicologico) risultano spesso in interazione gli uni con gli altri, secondo la citata “unità funzionale” dell’atleta.

 

Sul piano strettamente tecnico, è evidente l’intensificazione del servizio, sia della prima (più continua e più variata, vedi gli ace esterni, anche in slice) sia della seconda, più aggressiva e profonda; più sofisticati e meno immediati, invece, certi accorgimenti ben spiegati da Vagnozzi, come la correzione biomeccanica del bimane per non andare in difficoltà sulle palle basse dell’avversario, specie tagliate, e anzi replicare sempre in modo “radente”; il che ha portato Jan a un “bilanciamento dritto/rovescio” (la possibilità di tirar forte con entrambi i colpi) inferiore, forse, a quella del solo Djoker.

 

Sul piano tecnico, atletico e soprattutto neurosensoriale, Jan ha praticamente eguagliato lo stesso Djoker e Carlitos nell’efficienza-monstre della risposta, diventando a sua volta una “macchina bayesiana”, in grado di leggere il servizio avversario “inconsciamente” (per proiezione statistico-probabilistica) e/o di leggerlo in anticipo in rapporto ai tratti dello stesso (postura, gestualità). E in generale, il Sinner attuale sembra aver esteso questa lettura anticipata alla dinamica dello scambio tout court.    

 

Sul piano tattico-atletico l’obiettivo è sempre più quello – duplice e sinergico – di far muovere al massimo l’avversario cercando di farsi spostare, viceversa, il meno possibile, ma restando pronto e prensile in caso l’avversario ci riuscisse, per esempio con accelerazioni o drop shot. Qui, il mezzo principale per ottenere lo scopo è un’accentuazione della pressione, da esercitarsi con alternanza di incrociati e lungolinea sempre più ravvicinata, con profondità costante e magari angoli stretti – in cui la velocità esecutiva conta più della forza in sé, che è semmai una conseguenza – per mandare l’avversario fuori giri. Breve inciso: negli ultimi giorni è stato un fiorire di comparazioni tra JS e altri tennisti (Berdych, Del Potro, Courier…): premesso che Jan è già unico, un paragone può esser fatto, almeno su questo versante, coi tennisti pressatori: più che Connors, che secondo Rino Tommasi è “l’inventore” del pressing nel tennis, vengono in mente certe sequenze estreme di Monica Seles.

 

Sul piano prevalentemente neuropsicologico e neurocognitivo colpiscono nel “nuovo Sinner” due aspetti: l’acuizione della resistenza del focus attenzionale nel giocare punti decisivi (break e match point propri e avversari) e – più sottilmente – la capacità di “giocare anfibio” tra i livelli di elaborazione neurale, cioè alternando colpi e strategie automatizzati – programmati (legati all’inconscia “memoria di lavoro”, come nella risposta al servizio) ad altri deliberati e “improvvisati” (legati alla “memoria dichiarativa” o esplicita, come certi colpi di “contropiede”). Un corollario di questo passaggio, in cui entrano ovviamente componenti tecnico-tattiche e atletiche, è l’implementazione progressiva nel proprio algoritmo, da parte di Jan, di giocate e schemi avversari per assorbimento mimetico (ecco la “spugna” o, se vogliamo, l’adagio picassiano: “i bravi copiano, i geni rubano”): vedi il nuovo uso del drop shot, meno puro, straniante e controintuitivo di quello di Carlitos, ma ugualmente letale, perché giocato esattamente quando serve; o l’uso del serve & volley contro Medvedev, efficacissima arma contro la sua propensione a rispondere “tra il pubblico”, usata benissimo prima da Rafa e poi dal Djoker (vedi US Open di quest’anno).      

 

Quest’ultimo passaggio si connette naturalmente a quella che è forse la più rilevante acquisizione complessiva di JS: la “necessità” – nel senso di maggiore adeguatezza possibile – della soluzione contestuale. E noto come i primi tecnici di Federer lamentassero, tra i suoi problemi paradossali, l’eccesso di soluzioni che Roger concepiva (fino a 15) per risolvere una specifica situazione di gioco, tanto che uno dei suoi obiettivi, nel tempo, è stato proprio quello di potare questa ridondanza tecnico-cognitiva, che lo portava ad amletismi nocivi. Al riguardo, JS sembra già molto avanti proprio in questa sfoltitura.   

 

Al termine di questo (parziale) screening analitico, la domanda su “cosa sia successo” diventa meno generica. Viene ora infatti da chiedersi, in primo luogo, come possa essere avvenuta l’interazione tra tutti quei tasselli; un’interazione che alla fine ha portato all’emersione di un’unità funzionale dell’atleta-tennista molto più efficiente della stessa somma delle parti (delle singole variazioni) che la compongono, in coerenza col principio olistico. E viene da chiedersi, in secondo luogo, perché ciò sia avvenuto in quei tempi, perché cioè l’emersione sia caduta tra settembre e novembre di quest’anno.

 

Un abbozzo di risposta lineare e razionale l’ha offerto il grande “Ljubo” Ljubicic, osservando come Sinner (a differenza di Alcaraz, per certi aspetti maturato, anzi esploso, più rapidamente) abbia bisogno di progredire “a piccoli passi”, assecondando il proprio assetto biologico e neuropsicologico. E un approfondimento a quell’abbozzo può essere fornito dal “caso” Stephen Curry, cestista-monstre di NBA che ha stimolato diversi (neuro)scienziati, come John Krakauer della Johns Hopkins, a chiedersi come un atleta così “normodotato” sia arrivato a quei livelli, inimmaginabili a inizio carriera. Tra i tanti a rispondere, il più autorevole è senz’altro lo storico coach personale di SC, Brandon Payne (ex modesto cestista diventato un vero guru del training) che ci ricorda da un lato come il “genetico”, le “qualità naturali” di Steph – in realtà non così modeste, vedi il rapporto neurosensoriale mano-palla, molecolare e “unteachable”, da pianista alla Keith Jarrett, segreto del suo “ridiculous” tiro da 3 punti – abbia avuto bisogno di un massacrante lavoro sull’appreso, di un “crescendo di abilità assimilate” a vari livelli (resistenza di corsa, velocità di reazione agli stimoli ed esecutiva – allenati col mitico Fitlight -, simulazione dello stress ambientale, e così via); dall’altro, come quell’accumulo abbia proceduto in sincronia con la maturazione del corpo del giocatore (del suo rapporto corpo-cervello). «Ci sono atleti – sintetizza Payne – che arrivano alla maturazione a 22, 23, 24 anni; Steve ci è arrivato a 27 [l’anno del primo anello coi GSW, ndr]; mentre il suo concittadino LeBron James, a quello stadio, ci era arrivato a 20…».

 

Foto di Mads Schmidt Rasmussen.

 

Non sembra forzato applicare lo schema a Jannik. In fondo, tutte le biforcazioni che abbiamo attraversato-analizzato sono all’insegna della gradualità, se non della lentezza: la scelta del tennis al posto dello sci; l’adattamento a Bordighera; la stessa progressione verso l’eccellenza. 

 

Il paesaggio è mutato, non stravolto (reloaded)

Scrivevamo – a conclusione del focus su Carlitos dopo la vittoria a Wimbledon – di come il paesaggio del circuito fosse mutato, ma non (ancora) stravolto. Il tutto va confermato ora, davanti a questa impressionante crescita di Sinner. Intanto, i Silmaril-Nazgûl – “quel che resta” dei Big Three – aleggiano ancora nel cielo, minacciosi: Djokovic sicuramente, pronto a incrementare il numero di Slam e a ritentare – ancora una volta, ostinatamente – la conquista del Grande; delle condizioni di rientro di Nadal, vedremo a Brisbane.

 

Poi, per quanto Jan – questo Jan – si candidi oggettivamente più di altri alla nuova leadership o al condominio di vertice col Djoker, rimane su di lui un’ultima incognita di peso, il classico “last but not least”: quella sull’ultimo step – o l’ultimo tratto del “leap” – nei match “a cinque”, per ora il tabù del suo tennis, nonostante diversi sfondamenti sfiorati. Vagnozzi ha rimarcato come l’equipe stia operando soprattutto su quello: in generale, a livello fisico-atletico (potenziamento in palestra, lavoro sulla resistenza e resistenza alla velocità); nel particolare e sul breve termine, con una preparazione per Australia 2024 ad Alicante, a un passo dal regno di Carlitos e di Juan Ferrero (L’Academia Esquelite di Villena).

 

E per finire, va aggiunto come non si possano trascurare tutte le altre variabili. Lascia attoniti, ad esempio, come l’intenso “corpo a corpo” autunnale tra JS e il Djoker abbia letteralmente estromesso dal paesaggio, secondo alcuni, proprio Carlitos, spacciando una flessione per una parabola già conclusa. Quel calo ha diverse, consistenti ragioni: la sua “seconda parte” di stagione, di default nettamente inferiore alla prima; le sue difficoltà coi tornei (e in parte colle superfici) indoor; una certa stanchezza-sazietà dopo Wimbledon. A questo si può aggiungere, poi, una maggior conoscenza del suo gioco da parte degli avversari (e quindi un maggior attrito delle contromisure tese a contrastarlo) e la sua stessa maturazione incompiuta, oltre all’esposizione agli infortuni. Ma da qui al Requiem ce ne passa: stiamo parlando, comunque, di un giocatore che a vent’anni – due meno di Jan – ha già vinto 12 titoli, tra cui due Slam e quattro 1000. Non solo: per quanto il paesaggio si stia affollando di new entry avvincenti (Rune e Ben Shelton già incombenti, Fils e Medjedovic in arrivo, altri volti nascosti tra le ombre del futuro), la contesa tra il Rosso e lo Spartano resta forse la più intrigante sul piano estetico-antropologico, in quanto rivitalizza – in modi e contesti radicalmente diversi – quella tra Roger e Rafa per come la riassumeva David Foster Wallace: “la maestria clinica e intricata del nord” contro “il machismo passionale del Sud Europa”.

 

Senza mai dimenticare come per tutti – vecchi e nuovi X Men – valga sempre la risposta lapidaria di Règis Bruner, agente Igm, al padre di Roger Federer, che gli chiedeva rassicurazioni sul futuro del figlio, a inizio carriera emotivamente molto instabile: «Dipenderà da moltissime cose: infortuni, motivazioni, relazioni sentimentali».

 

Convergenze parallele: il tennis come una delle belle arti

A proposito di “maestria clinica e intricata del Nord” – definizione che si attaglia bene a tanta pittura, specie fiamminga – viene del tutto naturale un richiamo tra il tennis di Sinner e un suo misconosciuto “concittadino” di qualche secolo fa.

 

Parliamo di Michael Pacher, grande pittore-scultore (1435-1498), nativo di Falzes, vicino a Brunico, e attivo soprattutto nel Tirolo e in Baviera. Tutti i maggiori storici dell’arte, a cominciare da Roberto Longhi, lo definiscono, non a caso, “mezzo italiano e mezzo tedesco”. Non a caso, perché Longhi riconduce a Pacher addirittura la realizzazione di un “miracolo”: la capacità di risolvere “nientemeno che la questione bilingue dell’Alto Adige”, con questo riferendosi non solo a una conciliazione antropologica, ma soprattutto filosofico-estetica, nel senso che Pacher riesce ad armonizzare il realismo-naturalismo, molecolare e insieme visionario, del Nord, alla Van Eyck – che Longhi detesta – con la “metrica luminosa” e “lo spazio misurato” della pittura italiana. Del resto, quella cerniera è facilmente spiegabile risalendo ai tanti viaggi compiuti da Pacher, spartiti proprio tra le Fiandre (la terra di Van Eyck e dei fiamminghi) e l’area tra il Veneto e Mantova, in cui avrebbe assorbito le influenze di Donatello e Mantegna. Strano che, al riguardo, il grande critico non citi la maestria di Pacher nel dominio della prospettiva, che irradia molti suoi capolavori, e che di quella cerniera tra i due mondi – tra i due linguaggi – è lo strumento privilegiato.   

 

Con Pacher e Sinner, come si deduce già da queste poche note, è facile tessere risonanze, non solo in senso ludico. Lo Jannik bambino lo si ritrova riflesso in quello (dagli ovvii capelli rossi) assiso nella culla del pannello destro del Sant’Ambrogio nell’Altare dei Padri della Chiesa di Monaco; il corpo asciutto e spigoloso del giovane Jan in quello della Resurrezione di Lazzaro (sempre a capelli rossi) del grandioso, intimidatorio altare di Sainkt Wolfgang; mentre la scultura in pioppo del “re di una radice di Jesse” è addirittura, per certi versi – sguardo incluso – un ritratto iperrealistico di JS in piena regola. 

 

Michael Pacher, la Resurrezione di Lazzaro 

 

Ma soprattutto, è difficile resistere a un paio di paragoni d’insieme.

 

Il primo è quello tra il gioco d’attacco di JS dalla baseline (l’intrico di diagonali e lungolinea inconfondibile per il rapporto tra velocità e angoli-profondità) e la ragnatela prospettica sottostante alle vaste tavole dei polittici di Pacher, come quelle – nello stesso altare di Sainkt Wolfgang – che “lanciano” nell’infinito le volte gotiche. Perché è vero (anzi ovvio) che tanti altri tennisti giocano un tennis “prospettivista”, ma lo fanno spesso con traiettorie più morbide ed ellittiche; nessuno con quelle geometrie glaciali. Ed è altrettanto ovvio che, a rigore, il disegno tennistico sia più l’equivalente di un quadro astratto (un Mondrian, un Klee); ma, da un lato, qui si parla dello scheletro dei dipinti di Pacher, con lo stesso criterio che si applica, per esempio, alla Flagellazione di Piero; dall’altro, a ben vedere, anche le geometrie del gioco irretiscono figure umane (gli stessi tennisti, tanto più nel doppio, i giudici di sedia e di linea, il pubblico, col relativo arricchimento cromatico). E tutto questo senza dimenticare un discrimine basico: il tennista – a differenza del pittore, il cui punto di vista coincide con quello dello spettatore – costruisce quegli intrichi dal basso, ad altezza-rete, trovando traiettorie, profondità, angoli spesso “immaginandoli” o “sentendoli” con la sua intelligenza neurosensoriale: il “disegno”, il “dipinto” d’insieme – in cui le geometrie interagiscono con quelle dell’avversario -, lo vediamo solo noi, attraverso le inquadrature “aeree”.

 

Il secondo paragone è con la capacità di Pacher di armonizzare dimensione nordica e luce italiana, una capacità – un’attitudine – che è impossibile non ritrovare in Sinner: proprio gli ultimi mesi, con uno Jannik sempre meno afasico e più sintonico col pubblico (da Torino a Malaga), ci sembra che la sua figura sia una figura di confine proprio nel senso di cerniera – non di barriera – tra mondi.       

 

Tornando al racconto di Borges, lo Jan di fine 2023 autorizza a una visione: quella di osservarlo presto sostare nel giardino – il green dei Championships londinesi – dimenticando, sospendendo per un attimo altre biforcazioni a venire, da quel momento – o almeno in quel momento – solo ulteriori, eventuali. Significherebbe quello che persino la Dolomiten, la più antica e diffusa testata altoatesina – fosse solo per gentile ipocrisia diplomatica – dovrebbe titolare a nove colonne: “Wimbledon: das erste Mal, dass ein Italiener gewinnt”.         

 

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Sandro Modeo è scrittore, saggista e consulente editoriale. Collabora al Corriere della Sera e a diverse altre testate, nazionali e internazionali, occupandosi di scienza, cultura e sport. Ha pubblicato due libri sul calcio, L’alieno Mourinho (ISBN, 2010) e Il Barça (ISBN, 2011), tradotti in numerosi Paesi. Di recente, è uscito I Tre. Federer, Nadal, Djokovic e il futuro del tennis (66th, 2023).