
C’è un’immagine della finale che mi pare più significativa di altre. Jannik Sinner, dopo aver vinto il suo primo Wimbledon, rientra in campo per raccogliere gli applausi del pubblico. Poco dopo, però, si accovaccia verso terra, poggiando la testa della racchetta sul prato. Le telecamere non riescono a inquadrargli il volto, che resta chinato e nascosto dal cappello.
Era sul centrale di Wimbledon, nella partita più seguita dell’anno, e con tutti gli occhi addosso il pensiero di Sinner è stato quello di nascondere le sue emozioni al pubblico. Non abbiamo certo scoperto domenica la sua riservatezza, ma continua a farci impressione in un’epoca in cui è caduta ormai del tutto la barriera tra sfera pubblica e privata.
L’immagine ha circolato molto nelle ore successive, perché è potente, poetica, destinata a diventare iconica; perché riassume il carattere introverso di Jannik Sinner, che dopo quel momento intenso è andato ai microfoni per coltivare l’arte diplomatica di riempire le parole di nulla. Come se ci tenesse a non condividere i suoi pensieri e le sue emozioni più autentiche col pubblico. Il massimo che ci ha concesso, commentando la sua vittoria, è stato: «È speciale».
È un’immagine che ci rapisce, però, anche perché ci fa interrogare: cosa stava pensando Sinner, cosa è passato nella sua testa in quel momento? Chissà se in quel momento ha raccolto tutto il suo sollievo per sette mesi di 2025 che avrebbero mentalmente steso qualsiasi giocatore.
Vincere Wimbledon, diventare il primo italiano a riuscirci, è di per sé eccezionale, ma riuscirci dopo la sua parabola di tormento e riscatto è quello che più racconta la sua forza. In questi mesi lo abbiamo dato per morto almeno cinque volte, e alla quinta volta, infine, Sinner è veramente risorto.
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A gennaio Sinner difende il titolo agli Australian Open con una squalifica per doping pendente sulla testa. È una situazione va avanti da mesi ma a settembre la WADA, l’agenzia mondiale antidoping, ha fatto ricorso a sorpresa e a quel punto una sanzione pare inevitabile. I tempi del processo sono dilatati, non si sa con certezza quando si arriverà a una sentenza.
In questo processo c’erano tutti gli elementi kafkiani: l’autoreferenzialità della giustizia, che risponde a una logica tutta sua e priva di buon senso (tutti concordavano che Sinner non aveva assunto sostanze, non aveva avuto intenzione e non ha tratto alcun vantaggio: eppure le norme potevano punirlo); l’attesa indefinita di una sentenza che pare poter non arrivare mai; una colpa non specificata e comunque lontana dalla nostra bussola razionale. Nel frattempo quasi nessuno dei suoi colleghi esprime sostegno nei suoi confronti.
Aver vinto gli Australian Open, da campione uscente, in una condizione mentale del genere non ha niente di normale e doveva già dimostraci la forza mentale di questo giocatore, su cui il nostro dizionario arranca a trovare parole all’altezza. Mentalità, temperamento, concentrazione, durezza, solidità, affidabilità, forza. Un lessico che usiamo per provare a descrivere la capacità di isolamento di Sinner dalle circostanze, il modo in cui riesce a massimizzare l’espressione di se stesso - senza compromessi con le variabili della realtà. Parole che però non sono all’altezza, e col tempo si sono rivelate insufficienti.
A metà febbraio arriva la sua squalifica ufficiale. Passa tre mesi lontano dai campi in cui i peggiori opinion maker del pianeta mettevano in dubbio tutto ciò che aveva raggiunto in carriera fino a quel momento. 23 anni di vita. Come ha vissuto quel momento?
Nessuna comunicazione ufficiale, solo qualche selfie con appassionati che lo ritraevano sempre sulle piste a sciare, sorridente e lontano da tutto. Si stava prendendo una vacanza, in cortocircuito assoluto con i toni velenosi del discorso attorno. Mentre i suoi fan si accapigliano in crociate devastanti sui social, lui pare felice e rilassato. Quando in questi giorni gli hanno chiesto che titolo avrebbe voluto sui giornali lui ha dato una risposta dura ma ingenua: «Nessuno perché tanto non li leggo».
Tutto intorno qualcuno ne cantava il funerale. Non ci si riprende da tre mesi di sospensione, non possiamo immaginare gli effetti destabilizzanti in uno sport mentale come il tennis. Non ci si riprende in fretta da tre mesi fermi senza tennis e partite competitive. Sinner non sarebbe stato più lo stesso: anche se si fosse ripreso ci avrebbe messo un po’. Intendiamoci: erano discorsi sensati, anche se spesso nascondevano più un auspicio che una previsione. Sperava, qualcuno, che Sinner non sarebbe più tornato, e dicendolo sperava che accadesse, pensando che dentro le parole si potesse nascondere il potere di un sortilegio.
E questa è la prima volta in cui, quest’anno, abbiamo dato per morto Jannik Sinner.
Quando torna, agli Internazionali di Roma, Sinner ha più muscoli e sorride sempre. La pausa, invece che confonderlo, gli ha fatto bene. Vince tutte le partite, rifila 6-0, 6-1 a Casper Ruud in una prestazione francamente spaventosa. È tornato, pensiamo, anche se in finale perde da Alcaraz. Non ci è voluto chissà quanto tempo, per vedere Jannik Sinner tornare competitivo.
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La seconda volta che abbiamo dato per morto Jannik Sinner è stato 35 giorni prima la finale di Wimbledon, quando alle 20.17 non è riuscito a fare il punto che lo separava dalla vittoria del Roland Garros.
Aveva giocato una partita migliore di Alcaraz, per certi versi. Aveva controllato il match, era stato di più in vantaggio e aveva avuto più occasioni per chiudere. Ma per citare il filosofo, tra giocare bene e vincere c’è una differenza sottile che tanto sottile non è. Perdere quella partita in quel modo ci aveva fatto dubitare di Sinner per due motivi di ordine diverso.
Il primo ha a che fare col suo carattere, con quello di cui stiamo parlando dall’inizio di questo articolo. Sinner è un vincente, un combattente, ma forse lo è meno di Alcaraz - pensavamo. Il pattern ci sembrava chiaro: cinque sconfitte di seguito, con alcune ricorrenze, come le rimonte e il perdere al termine di tiebreak giocati a un livello supersonico da Carlitos. Perché quando si arriva nel territorio dell’agonismo supremo, quando un singolo colpo può marcare la differenza tra vittoria e sconfitta, Alcaraz trova energie che Sinner non ha? Perché, quando si tratta di ottenere la vittoria, o evitare la sconfitta, Carlos Alcaraz ci offre una versione irreale di se stesso, mentre Sinner sembra deprimersi? Un tennista che si esalta nella lotta, nella zona ruvida di un tennis colpo a colpo, punto a punto, contro un altro che invece pare troppo ossessionato dal controllo, che non riesce a lasciarsi andare.
Il secondo motivo per cui abbiamo dubitato di Sinner è simile a quello della squalifica per doping (per negligenza a essere precisi), ovvero: come avrebbe fatto a riprendersi da una sconfitta simile?
I traumi sportivi rompono le squadre e gli atleti. O almeno sappiamo che possono farlo, perché lo abbiamo visto in passato. Come se aver sperimentato una delusione così profonda ti faccia dimenticare chi sei. La filosofia del tennis è semplice e brutale come quella degli alcolisti anonimi: bisogna pensare un punto alla volta, e vince chi è più capace di cancellare l’errore del passato.
«Ciò che non uccide fortifica», si dice, ma Sinner a quel punto sembrava morto. Aveva l’aria del morto. Dopo quella partita Sinner ha pianto a lungo negli spogliatoi. Lo sappiamo per colpa di un giornalista troppo linguacciuto. Lo avevamo intuito vedendolo arrivare in conferenza sconvolto, gli occhi piccoli piccoli, arrossati, l’aria esausta. «Non puoi continuare a piangere. Capita», dice. «Fa male, ma in un modo diverso», dice. La sua famiglia lo aiuterà a superare quel momento: «A volte ci sono dei momenti in cui dai, a volte ci sono momenti in cui ricevi». Ci sembrano frasi di circostanza, di cui non possiamo misurare la verità. Non rimarrà, forse, una nausea dopo una partita persa così dopo oltre cinque ore? Una nausea da tennis, accompagnata magari a un senso di subalternità ad Alcaraz?
Roger Federer non si riprese mai più del tutto da quei match point annullati da Novak Djokovic nella semifinale degli US Open del 2011. Sì: vinse altre partite, ma era rimasta la sensazione di poter perdere una partita senza essere davvero in controllo. Quella risposta vincente di Djokovic sul matchpoint lo mandò fuori di testa; ai microfoni disse che lui non era quel tipo di giocatore, che tirava colpi a caso sperando che entrassero. Una rosicata tremenda, ma che ci dice molto della visione del tennis di Federer. Avere la sensazione che ogni partita possa essere veramente sempre reversibile, assecondando l’anima diabolica del tennis, è sconfortante - ti fa pensare a un mondo irrazionale.
Sinner è un tennista di quel tipo, che non è sempre pronto ad accettare del tutto una partita di cui si rompe la linearità, in cui bisogna uscire dai binari - o dal “mantello spazio-temporale” per citare la potente immagine evocata da Sandro Modeo. Alcaraz è il suo nemico più temibile perché scardina la partita dalla gabbia creata da Sinner, e a lui costa molta fatica far tornare tutto sui binari.
C’è una frase che ha detto Darren Cahill che forse è stata mal interpretata. «Non non la supererà mai, una sconfitta del genere resta per te per tutta la vita». Qualcuno ha inteso che Sinner si era rotto dopo quella sconfitta, che non avrebbe più funzionato come al solito. In realtà la intendeva in senso più filosofico: quella sconfitta fa ormai parte dell’identità di Sinner, e sta a lui usarla per diventare migliore. Non si tratta quindi di cancellare la ferita, ma accettarla e renderla qualcosa che ti rende migliore.
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La terza volta che abbiamo dato Sinner per morto è stata dopo la sconfitta contro Bublik ad Halle. Oggi vi sembrerà lunare che io lo riporti, ma vi assicuro che non sto esagerando. "Cosa succede a Sinner", "Delusione Sinner", scrivevano in quel momento i giornali, che concordavano sul fatto che era una sconfitta figlia di quella contro Alcaraz. Chissà per quanto ancora lo avrebbe tormentato.
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Ci era riuscito, a rimarginare la ferita? Ce lo chiedevamo tutti prima della finale di domenica. Quanto ancora sanguinava quella ferita, quanto sangue buttava ancora? Quanto pensa ancora Sinner a quei match point, a quella risposta di rovescio lunga. Lui ha ammesso che ci ha pensato spesso, a quei match point, e quando lo ha detto ci ha messo un brivido.
Ha perso un primo set terrificante. Lo strappo è iniziato, come sempre capita con Alcaraz, da un punto-scintilla. Sul 4-3 e servizio Sinner, sotto 0-15, Alcaraz finta la palla corta, gioca un chop profondo, viene a rete e arrangia una volée corta e stretta di rovescio allucinante. Sinner reagisce con una specie di broncio. In telecronaca Ljubicic dice che per fortuna «vale un punto solo», ma non è vero, questa logica non esiste con Alcaraz, che da quel vincente trae sicurezza e ispirazione. Al Roland Garros era successo con quel recupero di dritto tagliato paradimensionale.
Dopo quel punto c’è uno scambio-sbornia violentissimo in cui il dritto di Alcaraz sputa velocità assoluta e sembra travolgere Sinner, che sbaglia il suo dritto fuori di dieci metri e il suo corpo sembra fumare. In un attimo Alcaraz vince il set, tutto d’un fiato. Il suo talento improvvisamente si addensa come l’umidità prima del temporale, in pochi punti, pochi game, che però portano Sinner sotto 1-0. In mezzo la prima che lo abbandona ed errori clamorosi, come lo schiaffo di dritto lungo (sul 5-4, 30-15), e poi il sigillo di quel punto alcaraziano sul set point cui non si può opporre resistenza.
Dopo quel primo set, per la quarta volta, abbiamo dato per morto Jannik Sinner.
Darren Cahill ha ammesso che non lo vedeva benissimo a quel punto. Vagnozzi restava ottimista. Il break nel primo game ha però messo in campo subito una reazione. Uno strappo arrivato grazie al provvidenziale rovescio lungolinea, che ha tagliato le gambe ad Alcaraz nello scambio da fondo più e più volte. Già alla fine del primo set, però, quando gli stava scivolando di mano la situazione e colpiva male la palla, Sinner era stranamente nervoso e verbale. Un sintomo decisamente migliore dello spegnimento assoluto che lo coglie nei momenti peggiori - come contro Dimitrov. È meglio un Sinner che si lamenta di un Sinner che sembra muoversi come preso dalla febbre, mentre si tocca qualche muscolo collegato malamente al suo cervello.
Sarebbe ingiusto però dire che è stato un momento solo. La reazione non è stata solo in quel break, ma nel modo in cui è riuscito a mantenere i propri turni di servizio pur vivendo un momento di appannamento, dentro il contesto di una partita sporca e fallosa. Ha giocato con applicazione e testa, in attesa che il suo tennis migliore tornasse, come ha fatto poi nell’ultimo game sovrannaturale del secondo set e poi nel terzo.
In quel passaggio della partita Sinner era superiore ad Alcaraz, ma non riusciva a concretizzare questa superiorità. Poi una gazza si è posata sul prato di Wimbledon, sul 30-30 e servizio Sinner. Dopo quel volo d’uccello arriva un ace di seconda, e poi una prima vincente.
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La quinta volta in cui abbiamo dato Jannik Sinner per morto è stato nel quarto set, quando aveva di fronte due palle break. Ci risiamo, abbiamo pensato. La ferita era tutt’altro che immaginata e quella reazione avuta tra secondo e terzo set vana e illusoria. La partita poteva cambiare di nuovo padrone.
In quel momento Sinner tira un’altra seconda molto forzata, esterna, che costringe Alcaraz all’errore. È quello il colpo decisivo della partita nei momenti chiave: una seconda forzata, spesso sulla riga, tirata accettando il rischio. Pensavamo a un giocatore traumatizzato, tremante, e invece nei momenti chiave Sinner ha abbracciato il pericolo, si è lasciato andare ad atti di coraggio anche un po’ incoscienti, che forse non avrebbe fatto due mesi fa. Mi rendo conto che è una mia speculazione, ma mi sembra evidente da come ha giocato in quei momenti chiave che Sinner abbia davvero tratto un insegnamento - reale, concreto - dalla sua sconfitta al Roland Garros. Quando lo ripeteva ai microfoni, che doveva imparare da quell’esperienza, noi credevamo che erano parole di circostanza, e invece erano vere.
Si voleva far passare quella sconfitta come “definitiva”, “senza rivincita”, ma il tennis offre opportunità per rifarsi spesso e in fretta. Sinner non ha visto nella finale il rischio di rivivere il trauma ma l’opportunità per cogliere immediatamente il suo riscatto, e lo ha fatto in una partita complicata, in cui ha dovuto reagire e giocare in maniera coraggiosa.
Nel suo post celebrativo Simone Vagnozzi ha scritto: "Ero sicuro che da quella partita saresti diventato più forte".
L’isolamento è una delle strade più note per raggiungere la maggiore concentrazione possibile nel tennis. Il primo e forse più celebre interprete di questa arte è stato Bjorn Borg. Lennart Bargelin, l’allenatore che ne ha plasmato la follia competitiva, gli chiedeva di tenere le emozioni dentro “come una pentola a pressione”. Il collasso di Borg, a posteriori, ha gettato dei dubbi: quanto era davvero raccomandabile vivere la competizione in condizioni di asetticità emotiva?
Alcaraz ama sentirsi circondato da occhi che lo guardano, e gioca per loro, ama esibire il proprio talento e chiedere approvazione portandosi il dito all'orecchio. Forse è uno dei motivi per cui è tifato: perché cerca esplicitamente la complicità altrui. Sinner invece è un tennista dell'isolamento, che dalla solitudine trae la sua forza, e che dopo aver vinto il torneo più importante della sua carriera si accovaccia sul prato nascondendosi dagli altri. Un giocatore che ricerca la moderazione emotiva come, pare, una bussola etica.
Raggiungere questo stato d’isolamento non sembra costargli grandi sforzi. O meglio: non sembra costargli sforzi insostenibili. Dopo la vittoria su Djokovic ha detto che arrivare in finale in uno Slam: «A voi sembra normale, a noi no».
L’eccellenza stessa di Jannik Sinner ha costruito la trappola delle critiche. Ogni sconfitta, come quella di Bublik, sembra catastrofica. Eppure Sinner riesce a rimanere piuttosto impermeabile alla narrazione che lo circonda, e a volte quando lo sentiamo parlare percepiamo una specie di straniamento.
Talvolta sembra davvero un alieno, o comunque qualcuno che ti fa chiedere “ma dove vivi?”. Quando risponde, un po’ sprezzante e un po’ ingenuo, che non ha mai scambiato una parola con Emma Navarro, che giocherà con lui in doppio a New York. Non gliene frega niente. Licenziare la squadra di preparatori appena prima di Wimbledon mentre tutti ti danno per morto? Sì, non gliene frega niente. Sul ballo con Iga Swiatek? «Me ne importa poco». E mentre noi ci chiediamo come prende uno stadio che tifa per il suo avversario, le parole tiepide dei colleghi sul doping, o le polemiche sulle tasse, lui continua la sua vita tra Montecarlo e Sesto Pusteria, tra famiglia, amici, gran premi di Formula 1 e uscite con alcune delle più belle modelle del pianeta. Non gliene frega, sembra, davvero niente.
Riesce a vivere isolato e un tantino al di sopra di tutto, mentre noi continuiamo a sottovalutare - anzi, a non capacitarci proprio - della sua mostruosa forza mentale - o quello che è, che gli permette tutto questo. Forse non ci rendiamo ancora del tutto conto di cosa significhi riuscire a vincere Wimbledon in finale contro Alcaraz al termine di un anno simile, alla coda di un percorso di redenzione e riscatto.
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Un’altra foto sta circolando molto. Iga Swiatek e Jannik Sinner che danzano in modo impacciato nella festa finale del torneo. Una tradizione che gli è toccato portare avanti, nonostante siano due delle creature più legnose e inibite sul pianeta terra. Eppure anche quella è stata un’immagine significativa: due tennisti che a inizio anno sono passati per una squalifica severa, politica, e che hanno attraversato una gogna mediatica spietata. Ne sono usciti col primo Wimbledon della loro carriera, danzando insieme in una serata a Londra.
È stato lo stesso Sinner, a dare a quel ballo un significato di rivincita: «Io e Iga ne abbiamo parlato ieri, e in un certo senso abbiamo festeggiato ancora di più, perché è stato un periodo molto difficile per lei e anche per me, e solo io, la mia squadra e le persone a me vicine sappiamo esattamente come è andata».
Un'altra foto - l'ultima giuro - dobbiamo guardare. Quella in cui Sinner lascia il centrale di Wimbledon nel 2023, dopo aver perso contro Djokovic, col borsone in spalla, e allunga la sua mano verso la celebre scritta di Kipling: «If you can meet with triumph and disaster and treat those two impostors just the same».