Non dimenticheremo facilmente la mattinata in cui Jannik Sinner è diventato campione Slam, passando per tutto lo spettro dell’esperienza tennistica. La sofferenza, la possibilità del fallimento, e poi la lotta, l’intelligenza, l’entusiasmo, la leggerezza.
Non dimenticheremo facilmente quell’ultimo punto, nato più dalla gioia che dalla freddezza. Non dimenticheremo quel dritto in corsa, e tutti gli altri dritti in corsa. Non dimenticheremo la fermezza morale dell’ultimo game. Non dimenticheremo la caduta a terra, il lieve sorriso, l’abbraccio dentro cui la sua testa rossa è scomparsa, dopo l’ultimo punto del torneo, riunito al suo team. Non dimenticheremo il coraggio, l’ambizione, l’infinito talento. Non dimenticheremo il trofeo sollevato, la piccola risata da bambino dopo l’hello everyone. L’assoluta, lucida, compostezza con cui ha affrontato la vittoria - «Se affronterai la vittoria e la sconfitta, e li tratterai allo stesso modo come due impostori», come vuole la frase di Kipling all’ingresso del centrale di Wimbledon.
Non dimenticheremo la determinazione con cui ha iniziato opporsi alla sconfitta, rifiutando una fine veloce e l’idea - inaccettabile - di lasciare il campo senza aver dato tutto.
Non dimenticheremo quando è stato a pochissimi passi dalla fine, due set sotto dopo averne perso solo uno nelle precedenti cinque partite. E noi stavamo cercando già di domare la nostra isteria e di razionalizzare la sconfitta. Avrebbe avuto altre possibilità, il suo momento sarebbe arrivato, ci dicevamo.
Il suo momento, però, era oggi.
Alla coda del terzo set lo abbiamo visto sul punto di spezzarsi. Jannik Sinner si avvicina all’angolo e cerca di trovare energie nel suo asciugamano. Si toglie il sudore dalla faccia e guarda i suoi allenatori frustratissimo: «Sono morto». Era sotto di due set, sul 4-4, contro il più grande giocatore su cemento del circuito oggi. Non aveva più la forza per lottare? Sulla Rod Laver Arena gracchiavano i soliti uccelli apocalittici, e qualche tifoso italiano gli ricordava: «Respira». Medvedev lo aveva portato alla parità dopo un game in cui era davanti 40-15: non c’era niente di facile nella sua partita, mentre per l’avversario tutto stava andando secondo i piani.
Cos’era successo fino a quel momento di quasi rottura?
C’era un numero che ricorreva nei pensieri prima della finale: 20 ore e 33 minuti, il tempo trascorso da Daniil Medvedev in campo prima della finale. Sei ore più di quello passato da Sinner. Questo numero ha dato inevitabilmente la forma agli eventi. Medvedev aveva bisogno di un match rapido: avrebbe dovuto attaccare Sinner alla gola sin dal primo punto, togliergli il tempo del respiro e del pensiero. Lo aveva già fatto agli US Open contro Alcaraz, lo aveva fatto anche alle ATP Finals di Torino contro Sinner. Aveva perso, ma per sfortuna. Far sentire a questi tennisti - che colpiscono leggeri e ispirati - il peso del punteggio, la gravità del tennis. Dargli la partita che non vogliono. A quel punto la pressione della prima finale Slam sarebbe montata su Sinner.
È quello che è successo.
Medvedev ha iniziato la partita in modo feroce. Ha servito appena tre seconde in tutto il primo set; ha tirato 6 ace e 14 vincenti. La partita è diventata subito veloce e violenta, Sinner arrancava senza tempo e senza spazio. Era impacciato e meno penetrante nel solito, più lento con le gambe, più teso, ma non era solo ansia da palcoscenico: era un’involuzione provocata da Medvedev che gli ha tolto uno a uno i suoi punti di forza. La capacità di cambiare ritmo sul rovescio, la diagonale di dritto, la solidità della seconda di servizio, la pericolosità della risposta. Si è trovato senza coordinate. Quando accelerava, gli tornava più veloce, quando variava, gli tornavano pallate, quando giocava profondo, l’altro giocava ancora più profondo. Quando cercava l’angolo sinistro, Medvedev lo devastava. Dopo un paio di cambi di ritmo lungolinea, senza riuscire a far punto, si girava perplesso al suo angolo.
Il secondo set è stato terribile. Nella seconda parte Medvedev ha iniziato a calare, ma Sinner non era pronto ad approfittarne ed è finito fuori dal match. Il suo tennis ha bisogno di fluidità, scioltezza, e in quella partita di guerriglia non riusciva a trovare ritmo. Il punteggio è franato. In quel momento abbiamo riconosciuto la situazione: il tennista giovane che in finale Slam gioca con le gambe e le mani di pietra, e si trasforma nella vittima sacrificale. In Sinner si è iniziato a infiltrare il pensiero velenoso di non essere all’altezza del palcoscenico. Non sapeva cosa fare, non aveva armi, se non mal messe e spuntate. Ha continuato a giocare con queste cattive sensazioni, anche quando il suo avversario è tornato a essere in realtà più vulnerabile - a servire meno prime, a essere meno devastante. Aveva giocato tutto lo Slam col sorriso, Sinner, e nel momento più importante si trovava infelice e frustrato.
Eppure lo sapeva, che se la partita fosse diventata un tantino più lunga, più laboriosa, le sue possibilità sarebbero aumentate. Forse le gambe di Medvedev avrebbero iniziato a cedere, e forse avrebbe ripensato a quando qualche anno fa il russo aveva perso la finale degli Australian Open dopo essere stato in vantaggio di due set. Fino a quel momento Medvedev non gli aveva concesso niente, eppure bastava poco, anche un sottilissimo spiraglio di luce, per poter rompere la finestra. Trovarsi in una partita completamente diversa. Bisognava insinuargli il dubbio, dilatare i tempi degli scambi e dei match. Fare come quei lottatori di MMA che fiaccano l’avversario a forza di calci alle gambe. Simone Vagnozzi dal suo angolo gli diceva di manovrare. Non doveva essere una partita veloce, ma una partita lenta e sofferta. Meno brillante, più cerebrale. Bisognava spingere, remare, soffrire su ogni punto. Abbandonare l’istinto, ragionare. Sinner avrebbe dovuto vincere la partita non sul proprio terreno ma su quello dell’avversario. Sono i paradossi del tennis d’alto livello oggi, dove non vince il più forte ma chi si adatta meglio.
Di questa meravigliosa vittoria ne abbiamo parlato anche in Quiet Please, il podcast di tennis di Ultimo Uomo.
Sul 5-1 Medvedev ha allentato la presa, Sinner forse ha iniziato a percepire di poter essere pericoloso, ha ottenuto un break buono per il morale. Ogni punto, ogni game conta. Nel terzo set ha iniziato a servire meglio, a soffrire meno lo scambio da fondo. La tensione nell’aria è cambiata; abbiamo sentito un leggero smottamento degli equilibri del match: quando gli scambi si allungavano, spesso era Sinner a vincerli. Ha iniziato a tenere gli angoli del campo chiusi, a manovrare su traiettorie più centrali. La diagonale di rovescio, mortifera per tutto il match, ha iniziato a pendere dalla sua parte. Erano esattamente i miglioramenti che si chiedevano a Sinner uno o due anni fa: sarebbe quasi sempre stato il miglior colpitore in campo, ma non gli sarebbe bastato per raggiungere i più grandi obiettivi. Avrebbe dovuto rischiare meno, giocare non il colpo più bello ma quello più giusto; non avere fretta, manovrare, usare la testa, essere imprevedibile. «Devi essere imprevedibile», gli aveva detto Djokovic quando era un ragazzino, e Piatti gli aveva chiesto consigli per farlo diventare grande.
Nel terzo set la partita si è assestata in equilibrio, ma mancava ancora qualcosa. Seduto all’angolo, l’aria frustrata, diceva “poco così” alla panchina, “una” chiedeva a un Dio qualsiasi. Era migliorato, ma aveva la sensazione di essere leggermente scollato dall’assoluto richiesto dal match. Gli bastava un punto fortunato, un breve momento di perfezione. Si era rimesso in partita grazie a un tennis sporco, tattico, di manovra, ma ora aveva bisogno di brillare. Era due set sotto, però, e il suo avversario continuava sbarrare tutte le porte, a dargli la sensazione che non sarebbe potuto rientrare.
Così si era avvicinato al suo angolo e aveva detto quella frase: «Sono morto».
Dopo si è rimboccato le maniche e ha servito due prime di sostanza. C’era solo da stare lì, l’occasione sarebbe arrivata. Ha fatto ciò che gli ha detto Vagnozzi: è indietreggiato, anche sulla seconda di Medvedev, per tirare risposte profonde, cariche di spin, lavoratissime. Entrare nello scambio, in quel momento della partita, lo avrebbe reso favorito per il punto. Riesce ad andare 0-30 con un altro dritto in topspin alto e centrale sul dritto di Medvedev: una delle armi decisive del suo torneo, implementata da qualche mese. Poi abbiamo vissuto quel punto, sul 15-30, su cui di nuovo tutto pareva finito.
Gli uccelli continuavano a gracchiare, mentre Medvedev faceva il tergicristallo a metri dalla riga di fondo. Sinner aveva sul dritto la palla per finire il punto, e invece si era accontentato di una stralunata palla corta finita troppo lunga. Sul recupero aveva tutto lo spazio per passare Medvedev, e invece aveva tirato un dritto in corridoio. Di nuovo si era incartato al momento di improvvisare: un tennista così aggraziato quando deve picchiare e così rigido quando deve inventare.
Medvedev soffia sulla pallina che va fuori.
Era questa l’occasione? Ne avrebbe avute altre? Medvedev tira una prima vincente e Sinner fa per lanciare la racchetta a terra (il massimo della sua rabbia è fare come se). L’inerzia dello scambio però è ancora dalla sua, ed è ancora il topspin carico e centrale sul dritto di Medvedev a regalargli il punto. Sul set point riesce in una cosa che non gli era ancora riuscita: una risposta prodigiosa in allungo su una prima forte e centrale di Medvedev. La palla in campo e le gambe del russo costrette a troppi spostamenti.
Lo spiraglio si è aperto. Sinner inizia a giocare sempre meglio e Medvedev sperimenta la peggiore sensazione che si prova in una partita di tennis: sentire la testa e le gambe che se ne vanno, mentre dall’altra parte c’è un avversario che cresce di forma e fiducia.
Non ha giocato un gran tennis, in questo torneo, Daniil Medvedev, ma ha sempre trovato il modo di cavarsela. Ha l’astuzia dei grandi strateghi militari, che sanno risollevare anche le situazioni più compromesse con grandi manovre invisibili. Sa leggere le piccole crepe tecniche e mentali dei suoi avversari, e sa infilarcisi. Cosa avrebbe potuto fare, però, arrivati alle 24 ore di gioco passate sul campo da tennis - un giorno intero! - mentre Jannik Sinner comincia a far piovere dritti e rovesci sempre più fiammeggianti?
Con l’andare della partita Sinner inizia a sciogliersi. Il suo tennis ha bisogno di leggerezza e fluidità. I piedi iniziano a danzare, la palla è più precisa. Legge meglio anche la prima dell’avversario. Manovra, cerca traiettorie, allunga gli scambi, spinge col tospin, risponde alle palle radenti di Medvedev alzando le curve. Quando accelera inizia a toccare la carne viva del suo avversario, e gli fa male. Spezza la resistenza di Medvedev giocandogli spesso in contropiede; il dritto in corsa inizia a filare con quelle traiettorie di fuga che lo rendono esaltante.
Nel quinto set Medvedev si aggrappa alla prima di servizio con tutte le forze. Ne serve tante, e nello scambio da fondo prova a resistere pescando da un serbatoio demoniaco d’energia; indietreggia di qualche metro e la rimanda di là. Magari Sinner si sarebbe sciolto, al momento di chiudere. Lo ha invitato a cedere al terrore, ma non ci è riuscito. Nel quinto set Sinner avrebbe dovuto prendersi la partita e se l’è presa, con un volume di colpi sempre più alto. Più si andava avanti, più colpiva meglio la pallina. Fino a quel dritto in corsa lungolinea con cui è diventato campione Slam, al diciassettesimo tentativo: come Roger Federer. Non ha tremato nemmeno per un secondo, mentre noi tremavamo da casa; è rimasto lucido ed entusiasta, mentre sul divano noi eravamo presi dall’ansia e dal terrore. È la grande esperienza di seguire Jannik Sinner: soffrire e star male per un giocatore che rimarrà sempre forte e saldo al momento necessario.
Un anno fa Jannik Sinner perdeva da Stefanos Tsitsipas in questo stesso torneo. A Montecarlo perdeva da Rune un ispida battaglia di tre set. Al Roland Garros si faceva sorprendere dal rovescio a una mano di Altmaier. A Wimbledon non vinceva un set in semifinale con Novak Djokovic. Agli US Open perdeva da Zverev, il redivivo Zverev, che si è sempre pensato meglio di lui. Ricordiamo tutte queste sconfitte, mentre oggi festeggiamo. Ricordiamo il momento in cui avevamo dubitato, se non del suo talento, almeno della capacità di realizzarlo fino in fondo.
Dopo alcune di queste sconfitte la nostra fede ha vacillato. Sinner era forte, ma era sulla soglia dell’autentica grandezza, in un limbo d’eccellenza frustrante in cui ci rigiravamo, un quarto di finale dopo l’altro. Il suo tempo sarebbe arrivato, si diceva, ma continuava a esistere il sospetto che no: il suo tempo poteva anche non arrivare mai.
Oggi che siamo così felici, vale la pena tener presente che - davvero - questo momento non sarebbe potuto arrivare mai, o comunque non così presto. Tenerlo presente non per sminuire il talento di Jannik Sinner, ma per dare il giusto valore all’eccezionalità della sua impresa. Quello che è riuscito a fare negli ultimi mesi non è una crescita fisiologica, non è una semplice maturazione: è un salto quantico. La più rapida e poderosa evoluzione avuta da un giocatore di tennis negli ultimi anni. Bisogna forse tornare ai mesi in cui Federer ha aggiustato il suo gioco e vinto, a Wimbledon, il suo primo Slam. Era il 2003. Un plateau, un nuovo livello, prima sconosciuto. Non è detto che sarebbe successo, perché abbiamo visto altri tennisti impantanati in questo limbo di anonima eccezionalità. Rimanere ai vertici della classifica senza risultati di grande spessore. Rublev, Tsitsipas, Zverev ci sono rimasti imprigionati da anni, altri in passato si sono fermati su quella soglia di grandezza, o sono regrediti, hanno perso certezze e ambizioni. Hanno iniziato a convincersi di non poter raggiungere quello per cui hanno lavorato tutta la vita. Ancora oggi Zverev perde partite impossibili da perdere, soggiogato alla magia nera di questo sport diabolico. C’è qualcosa che manca a questi tennisti che è difficile da analizzare o descrivere. Si usano questi termini vaghi - mentalità, killer instinct - che suonano vaghi e insufficienti. Per togliersi da questa eccellenza frustrante, Sinner ha lavorato su ogni piccolo dettaglio: il servizio, la risposta, le variazioni. Non sappiamo, però, cosa è successo nella sua vita interiore. Come è cambiata la sua consapevolezza, da quando perdeva secondi turni facili, da quando era ancora in balia dei propri dubbi, delle proprie fragilità. È questa fioritura interiore a restare misteriosa, e quindi magnifica.
Ci sono ancora margini per crescere, momenti di felicità da vivere e una storia che, a 22 anni, è appena all’inizio.