A Wimbledon, sul percorso che porta i tennisti dagli spogliatoi al campo centrale c’è un’iscrizione in rilievo che recita in lettere maiuscole: «Se, imbattendoti nel successo o nel disastro, tu tratti questi due impostori allo stesso modo».
È una poesia di Rudyard Kipling, del 1895. Nell’antica Grecia non c’era gara sportiva senza poesia; nello sport contemporaneo rimangono soltanto questi due versi. Ma è un baluardo: è stata adottata anche da Forest Hill, Federer e Nadal prima di giocare la finale di Wimbledon del 2008 hanno registrato la loro lettura perché fosse trasmessa durante le interruzioni per pioggia, e nel 2017 l’ha fatto anche Serena Williams, aggiornandola in versione femminile.
«Se puoi conservarti calmo, mentre tutti attorno a te hanno perduto la testa, e dicono che ciò è per colpa tua,
Se sei sicuro di te mentre tutti ne dubitano, e tuttavia puoi trovare delle scuse per questo dubbio,
Se puoi aspettare, senza stancarti di aspettare»
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Se saprai fare tutte queste cose, Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa, E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio. O una Donna. O un campione di tennis.
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Per il punto in cui è affissa, l’iscrizione di Wimbledon non si rivolge al pubblico. Può essere letta solo dai tennisti, solo nel momento precedente all’entrata sul centrale, il campo più importante del torneo più importante; e questo ne definisce l’uso. Serve proprio a ricordare che vittorie e sconfitte non sono valori in sé: sono parte di un percorso, costellato da una serie di se. Non esiste, nel tennis, un obiettivo definitivo; il fine si sposta sempre oltre, è un limite a cui si tende all’infinito. Ci sono una serie di condizioni di possibilità che devono verificarsi, che trascendono qualsiasi partita, campo, e risultato.
La poesia di Kipling si intitola If-, Se-, e appartiene alla tradizione dei consigli d’autore per chi sta crescendo. Il sottotitolo è ‘Lettera al figlio’, appropriato abbinamento per lo sport con più genitori coach al mondo. Kipling è l’autore di Kim, Il libro della giungla, Capitani coraggiosi: classici del romanzo di formazione. Il bildungsroman, o coming-of-age-story, nasce nell’età moderna, perché si basa su delle condizioni sociali di questo specifico contesto storico e sociale: per raccontare la crescita e la giovinezza come qualcosa di a sé stante, e non come essere non-ancora-adulti, occorre che sia data la possibilità a un individuo di diventare qualcosa di non predeterminato; serve una società borghese, la mobilità sociale, il viaggio.
E il tennis cos’è, se non il primo sport che ha realizzato questo modello sociale? Uno sport individuale, egualitario, internazionale, con un calendario intenso, l’era open come rivoluzione fondativa di un sistema economico, e un potentissimo immaginario. Nel tennis professionistico si entra adolescenti e si esce adulti: che la storia sia quella di un onesto lavoratore, di una promessa mancata, o di un campione immortale, dipende da una serie di se.
Il maestro
«Ci vogliono 150 partite per diventare un giocatore vero» ha detto Riccardo Piatti all’inizio del 2021, parlando di Jannik Sinner. Di lì a breve lui avrebbe giocato e perso la finale del primo master 1000 su cemento, da diciannovenne, conquistando di colpo l’attenzione che l’Italia non riservava al tennis da mezzo secolo. Poi l’affronto delle Olimpiadi disertate, e la redenzione della corsa all’ultimo respiro per il posto alle Finals, perso per un soffio e poi strappato, le partite stellari dedicate a Matteo Berrettini, l’Italia trascinata ai quarti della Davis.
Nella pioggia di titoli e record stracciati, le parole con cui Sinner e Piatti hanno deciso di raccontare la propria storia, e il loro stesso rapporto, sembrano appartenere più alla letteratura che non al tennis. Una storia che non è un elenco di successi, «non parla della superficie luccicante delle cose», come scrive Maria Sharapova nella prefazione al libro di Piatti, Il mio tennis, scritto con Federico Ferrero e uscito a novembre per Rizzoli. Al contrario si racconta soprattutto attraverso le sconfitte più amare, ed è legata alla capacità di guardare oltre, per «quando penserai che vincere sia più importante che giocare».
Il libro di Piatti racconta del suo metodo per trasformare un giocatore in un campione; e il 2021 di Jannik Sinner contiene in sé molti archetipi narrativi di un romanzo di formazione, insieme al classico del rapporto tra maestro e allievo. «Le vittorie vanno e vengono. Il bagliore dell’attimo, le braccia al cielo, il bacio al trofeo. [...] Ma appena ti rendi conto di quello che sei riuscito a fare, il momento svanisce ed è ora di scrivere una nuova pagina».
A 16 anni Jannik Sinner non sapeva cosa volesse fare. Aveva deciso di diventare un tennista ma non sapeva quanto potesse giocare bene. Piatti racconta di averlo incontrato nel 2014, quando era un campione di sci: aveva 13 anni e viveva sulle Dolomiti, dove i genitori gestiscono un rifugio alpino. La sua è una scelta: «sciare mi piace, ma non è un gioco. E a me piace giocare.»
Quando più tardi gli è stato chiesto di parlare del suo talento, ha sempre detto che il talento non esiste, ma è solo duro lavoro. I temi importanti per lui sono questi: il processo di maturazione, il cambiamento, il rapporto con la sua famiglia, e con il suo allenatore, Riccardo Piatti. Del suo 2021 è contento perché in ogni partita è riuscito a costruirsi l’opportunità per vincere, e quando ha perso è stato un processo di crescita: dopo ogni sconfitta, la più brutta come la più prestigiosa, è stato capace di reagire. «Ho vent’anni e sono fiero di dove sono arrivato». Nella storia che sta raccontando, da quando due anni fa il mondo del tennis si è accorto di lui, Sinner mette a tema la propria crescita: non è un eroe classico, come Achille, Ulisse, o Enea, o come Federer, Djokovic, o Nadal; non è ancora un adulto, e deve diventarlo.
Tra gli elementi invariabili ci sono le caratteristiche che definiscono l’eroe, che lo distinguono dagli altri, e che non cambiano nel tempo. Per prima cosa Jannik Sinner ha i capelli rossi. Nel tennis, ha illustri precedenti: oltre a Jim Courier, (con cui condivide anche il segno zodiacale, leone, come Roger Federer e Pete Sampras), la serie va da Don Budge e Rod Laver a Andrey Rublev, passando per Becker, e addirittura McEnroe. Al di là delle diverse sfumature, questo dato è così interessante che già trent’anni fa Jim Murray, giornalista sportivo e vincitore del Pulitzer, notava che nell’albo d’oro degli Slam si trova una quota insolitamente alta di capelli rossi.
Questo carattere, che nella realtà appartiene a meno del 2% della popolazione mondiale, è piuttosto ricorrente tra i personaggi delle storie di finzione, da letteratura e fumetto a cinema e videogiochi. Ha a che fare con alcuni degli stereotipi più radicati nelle culture di tutte il mondo, quasi sempre negativi, per cui le persone con i capelli rossi sono state considerate prive di anima, bruciate sul rogo per stregoneria, o addirittura associate dagli studi di Lombroso ai crimini a sfondo sessuale. Per queste ragioni è facile immaginare che una persona nata e cresciuta con i capelli rossi si trovi a familiarizzare molto presto con l’idea di sentirsi diverso, e di non dover dare troppo peso al modo in cui gli altri ti giudicano.
Foto di Giampiero Sposito / Getty Images.
In più, gli aspetti interiori di Sinner si intravedono in molto altro. A uno sguardo attento, c’è molto del suo cuore in campo, ma anche nei momenti lontani dalle telecamere, come quando viene avvistato, durante un torneo combined giocato a porte chiuse, a studiare gli schemi di una partita di Iga Swiatek. Dicono molto di lui i silenzi: tanto il modo in cui protegge la propria vita privata, quanto lo sguardo del team che lo segue e che lo ha cresciuto, Riccardo Piatti, Andrea Volpini, Dalibor Sirola, e Claudio Zimaglia.
È giovanissimo, come si addice all’eroe di un romanzo di formazione, e come è stato ricordato per esaltare ogni vittoria e stemperare ogni sconfitta. Un po’ introverso, di poche parole e accorte, non dimentica mai da dove viene e dove sta andando. La sua fama esplode in un momento strano per il tennis, nel mezzo di una pandemia, quando tanti tornei si giocano senza pubblico. Nei campi circondati da spalti vuoti non esulta e non fa scene, tra un punto e l’altro va verso il proprio asciugamano camminando lentamente, mettendo i piedi appena all’infuori. Non sa quante persone si collegano alla tv per seguirlo, il suo personaggio ha dei tratti particolari senza essere viziato da modi acquisiti a beneficio di pubblico, la quarta parete è intatta.
Riti di passaggio
Jannik Sinner nel 2021 ha vinto quattro titoli in singolare, uno in doppio; ha raggiunto la top 10 del ranking ATP; ha giocato due match alle Nitto ATP Finals, uno vinto e uno perso al tie-break del set decisivo contro il numero 2 del mondo; ha debuttato in Davis Cup vincendo tutte e tre le proprie partite di singolare. Ha compiuto vent’anni ad agosto.
Soltanto Novak Djokovic e Alexander Zverev hanno vinto più titoli di lui in questa stagione. Uno di questi è il titolo difeso a Sofia, dove nel 2020 ha conquistato il primo trofeo di livello ATP. Un altro dei tornei vinti è l’ATP 500 di Washington: Jannik Sinner è il più giovane ad aggiudicarsi un torneo di questa categoria dal 2009, dopo Rafael Nadal.
Ha giocato anche la finale del master 1000 di Miami, unica finale persa della sua carriera: è il primo italiano a raggiungere la finale di un 1000 su cemento outdoor, e il primo tra tutti i giocatori nati dopo il 2000. Nel 2020 è stato anche il più giovane a raggiungere i quarti di finale in torneo dello slam, ed è tuttora il più giovane vincitore del torneo Next Gen, conquistato nell’edizione 2019.
Foto di Jonathan Moscrop / Getty Images.
Ha vinto più di tre milioni e seicentomila dollari di montepremi, e i suoi contratti di sponsor continuano a aumentare: Head, Nike, Gucci, Intesa San Paolo, Parmigiano Reggiano, Panini, Lavazza, Rolex, Technogym, e Fastweb. Lo scorso anno ha lanciato su Instagram una serie di interviste dedicate alla salute mentale dal titolo What's Kept You Moving; all’inizio appare il suo monogramma, J e S astratte nella forma del muso di una volpe. Nella primavera 2022 uscirà per Panini un fumetto, intitolato ‘Piccoli, grandi campioni’. Per il Times, già si parla del nuovo Roger Federer.
La lista dei suoi record è già più lunga di così, ma ancora più impressionante è vederlo giocare. Il primo ad accorgersi che Sinner è diverso dagli altri è Riccardo Piatti. «Jannik non parlava praticamente mai. [...] Ma in campo si trasformava. Rimasi fulminato da Sinner perché colpiva in un modo diverso dagli altri, come se per lui fosse un movimento automatico» racconta Piatti nel suo libro. «La verità è che mi si era aperto il cuore: una cosa che non mi capitava da anni, forse che non mi era mai capitata. Jannik era un bambino appena un po’ cresciuto, venuto su lontano da tutto, ancora acerbo: ma aveva delle qualità rarissime».
Subito dopo se ne sono accorti gli avversari: gli antagonisti forse, o i co-protagonisti del tour. Giocatori di livello altissimo che vengono surclassati in campo senza avere il tempo di capire cosa succede. “Tu non sei umano” gli dice Alexander Bublik al momento della stretta di mano a rete, dopo aver perso 67 46 ai quarti di Miami. Nick Kyrgios in un tweet, a ottobre, sostiene di non aver mai giocato con qualcuno che colpisse la palla così forte. E John Isner nel singolare di Davis Italia-USA di quest’anno non sa come spiegare la sconfitta peggiore della sua carriera, 62 60: mai aveva perso un incontro portando a casa meno di 4 game.
Una vera e propria rivalità deve ancora delinearsi, per quanto alcune sfide, come quelle con Alcaraz, Hurkacz, Musetti, abbiano raggiunto un livello ulteriore di significato. Ma il conflitto, motore di ogni parabola di formazione, non è rappresentato tanto dalla rivalità, quanto piuttosto da un sistema di aspettative esterne troppo arbitrarie, prossime, e insistenti. A luglio Sinner ha rinunciato ai Giochi Olimpici. Parla meglio il tedesco dell’italiano, non sente l'onore di vestire la maglia della nazionale. Una parte del pubblico a quanto pare non glielo perdonerà mai: come ha detto Panatta, “doveva andarci anche a piedi”.
Per Piatti, per il quale aver saputo vivere a stretto contatto con l’idea di conflitto ha fatto la differenza tra il rimanere un maestro di tennis federale e diventare uno dei coach più importanti al mondo, non andare alle Olimpiadi è stata invece la miglior scelta che Sinner abbia fatto nel 2021. “Non ci è andato, tengo a ripeterlo un’altra volta, perché è stato molto onesto: non era pronto per andare alle Olimpiadi.” Qualcuno ha capito; altri sono pronti ad applaudire le sue vittorie, ma senza mai dimenticare di quando ha sbagliato.
Infine, pian piano, Sinner conquista anche il pubblico: responsabile, come il coro di ogni struttura narrativa classica, dell’appropriata risposta emotiva agli eventi. La redenzione arriva a novembre, alle Nitto ATP Finals. Jannik Sinner scende in campo nel Pala Alpitour di Torino per la partita con Hurkacz, poche ore prima Matteo Berrettini si è ritirato e l’atmosfera è cupa. Il pubblico sostiene Sinner, all’inizio senza lasciarsi troppo andare. La fase di studio dura fino al terzo game del primo set; mentre Jannik, studiando l’avversario, intuisce di potersi portare subito in vantaggio. Con i vincenti di dritto incrociato di quel game si mette in tasca il primo break della partita e insieme il cuore del pubblico: il tifo diventa da stadio, e da lì in poi Sinner perderà appena altri 3 game. Con la partita con Medvedev, dopo il 60 al primo set, e il fiato sospeso fino all’ultimo punto del tiebreak del terzo, tutti i vecchi dissapori sono dimenticati. Torino diventa il campo dove Jannik Sinner può dire di aver giocato per la prima volta davvero in casa. Quando torna pochi giorni dopo per la Coppa Davis, è una consacrazione.
Assistere a una sua partita è un’esperienza che colpisce sia chi segue molto tennis sia chi lo guarda occasionalmente. Non ogni tipo di spettatore, questo è chiaro: probabilmente chi apprezza il repertorio di colpi più vario e il tocco più sofisticato preferirà seguire altri incontri. Ma se del tennis si ama il gioco in sé, la partita e il giocatore, è difficile non trovare qualcosa di magnetico in Jannik Sinner.
Foto di Matthew Stockton / Getty Images.
La prima cosa è il suono dell’impatto tra la pallina e la sua racchetta, soprattutto dal vivo. La seconda cosa è la morbidezza che mantiene il suo polso in fase di accelerazione, il movimento così veloce che a cercare di guardarlo bene sembra salti qualche fotogramma. La terza cosa è il footwork, la leggerezza e la rapidità con cui va incontro la palla, lasciando andare il peso come se avesse il potere di inclinare il piano del campo da tennis a suo favore, come su una pista da sci. La quarta cosa è la concentrazione e l’intensità presenti in ogni punto, più forti di qualsiasi situazione di punteggio e stato emotivo. La quinta cosa è l’istinto, il modo in cui affronta ogni avversario a viso aperto, una continua ricerca del tennis in sé stesso.
Incompiuto, imperfetto, in trasformazione
Jannik Sinner è al centro dell’attenzione del tennis per ognuno questi motivi, ma anche per qualcosa di molto più immateriale e difficile da vedere. Quello che tutti cercano, guardandolo, è di intravedere i tratti del predestinato: poter dire, un giorno, di aver riconosciuto da un dettaglio la stoffa del campione, di aver seguito i primi passi di un fenomeno. Come se il coinvolgimento nell’osservare il presente fosse già quasi sbirciare nel futuro. Dove può arrivare? Sarà uno dei più grandi?
Non è solo l’età, come numero: il protagonista del romanzo di formazione è soprattutto incompiuto, imperfetto, in trasformazione. La fortuna di questo genere letterario è tutta qui, nel presentare un personaggio in divenire. Per Olga Campofreda, che ha scritto Dalla generazione all’individuo, se da un lato la fascinazione per le storie di formazione nasce dalla loro universalità, dal fatto cioè che hanno come centro qualcosa che riguarda ciascun individuo da vicino, dall’altro lato diventano anche un modo per rivelare i retroscena di grandi traguardi raggiunti. Nel caso del campione, si cerca di ricreare la formula che lo ha reso tale rivelandocelo nella sua umanità. Le storie di formazione, quando sono anche storie di sport, dicono che la differenza tra noi e certi atleti non sta in un talento naturale inspiegabile; ma nel fatto che loro ci hanno provato tanto, che ci hanno provato davvero.
Un’ascesa sensazionale a una velocità vertiginosa, conquiste che talvolta bastano per una carriera intera vengono macinate a distanza di settimane. Nel novembre del 2018 Jannik Sinner aveva 17 anni e era numero 780 del mondo. Nel novembre 2019, toglie uno zero: 78. Nel 2019, con il debutto in top 100 e le Next Gen, gli viene assegnato il premio ATP Newcomer of the Year. Novembre 2020: 37. A fine anno, nelle interviste, dice che il suo obiettivo per il 2021 è di giocare almeno 60 partite: secondo il suo coach Riccardo Piatti, per diventare un vero giocatore servono almeno 150 partite nel circuito maggiore, e a quel punto non sono nemmeno a metà strada. Dodici mesi dopo di partite ne avrà giocate più di settanta, con un bilancio di 46 vittorie e 22 sconfitte a livello ATP e le tre vittorie in coppa Davis, e a novembre 2021 ha raggiunto la posizione numero 9 del ranking.
La storia di Jannik Sinner è appena cominciata: per quanto il 2021 sia stato un anno talmente ricco da essere un arco narrativo completo, siamo ancora all’inizio. Un racconto di formazione in fieri: l’eroe è appena apparso sulla scena, ha tutta la strada davanti, e la parola fine non è nemmeno all’orizzonte. “A inizio 2021 pensavo che un obiettivo potesse essere di qualificarsi per il masters (Nitto ATP Finals), e per riuscirci doveva riuscire a giocare tra le 50 e le 60 partite o anche di più.” ricorda Piatti. “Per il 2022 il discorso è analogo: giocare ancora 55/60 partite, puntando a qualificarsi per le Finals. Se Sinner riesce a fare quel numero di match, considerato il livello di tornei cui partecipa, è in automatico tra i primi 8 del mondo”. La storia gli appartiene e sarà lui a scriverla, ma i tratti essenziali sono già scolpiti nell’immaginario, fermi e indelebili.
Finzione
La storia della poesia di Kipling, a guardar bene, è come minimo controversa. Si intitola If-, Se-, o Lettera al figlio. Malgrado la fortuna dei versi, nella realtà il figlio di Kipling non è stato fortunato: lo scrittore, convinto imperialista, ha usato le proprie conoscenze per farlo arruolare, nonostante avesse gravi problemi di vista e fosse stato riformato. Morirà nella prima guerra mondiale, appena diciottenne.
Kipling aveva addirittura dedicato la poesia a Leander Starr Jameson, politico colonialista britannico, uomo di fiducia di Cecil Rhodes e suo successore nella Colonia del Capo in Sudafrica. Jameson è passato alla storia per la spedizione di Jameson, del capodanno 1896, un tentativo di provocare una rivolta dei lavoratori britannici contro il governo boero: la spedizione fallì, ma secondo Kipling il comportamento di Jameson fu esemplare. Di fatto Kipling era non solo un sostenitore del colonialismo inglese, ma attivo propagandista: per questo nel 2018 gli studenti dell’università di Manchester hanno cancellato If- dal muro che le era stato dedicato, e l’hanno coperta con Still I Rise di Maya Angelou, poetessa e attivista per i diritti civili.
Eppure il modello letterario di Still I rise è proprio If-, e Maya Angelou stessa nella sua autobiografia scrive di apprezzare e rispettare Kipling. La poesia, malgrado tutto, sopravvive e rimane una delle più amate al mondo. Anche Gramsci, che ha tradotto If- in italiano, scrive che Kipling può essere considerato imperialista nella misura in cui ha un legame con specifici contesti storici, ma questa poesia contiene delle «lezioni importanti per ogni gruppo sociale che lotti per il potere politico».
Che questa definizione si adatti alla storia del tennis, di un tennista e di un suo rivale, di un tennista e del suo allenatore, non spetta a Gramsci né a Wimbledon deciderlo: «La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve».