È difficile rimanere calmi con Jannik Sinner. In due anni è passato dal numero 324 al numero 21 del mondo. A 19 anni è arrivato in finale al torneo di Miami battendo un top-10 e un top-20 del mondo; era appena al suo terzo Master 1000 giocato in carriera. Solo due tennisti avevano avuto bisogno di meno tentativi per raggiungere la finale. Se scorriamo i nomi di quelli che ne hanno usati di più vengono le vertigini: Tsitsipas 7, Nadal 9, Djokovic 10, Federer addirittura 19. Solo Nadal era riuscito a fare finale in Florida da ancora più giovane. Gli unici teenager oltre lui a raggiungere questo risultato sono stati Agassi, Nadal e Djokovic. Magari possono suonarvi come dati astrusi, ma rappresentano un’unità di misura piuttosto fedele del talento precoce di un tennista. E in questo momento abbiamo tutti una grande ansia di misurare il talento di Jannik Sinner: siamo così innamorati, eppure così timorosi che questo amore possa deluderci, che Sinner possa rivelarsi meno perfetto di quanto ci sia sembrato finora. Un conto è vivere i primi giorni d’amore sulle ali dell’entusiasmo, un altro è tenere viva la fiamma resistendo alle difficoltà del tempo.
E così ieri, quando abbiamo visto Sinner perdere malamente nel momento meno opportuno, contro l’avversario meno irresistibile, quando volevamo vedere brillare lui e solo lui su quel palcoscenico, siamo rimasti delusi. È stata la prima vera grande fitta al cuore che Sinner ci ha dato, da quando ormai più di due anni fa è sbarcato nel nostro orizzonte di pensiero come un mondo impossibile: un tennista italiano appena maggiorenne che tira servizio, dritto e rovescio a duecento all’ora, in un movimento che ha prodotto tanti ottimi tennisti ma nessun campione. Nessun giocatore, cioè, che dava l’idea di poter vincere uno slam, di poter diventare numero uno del mondo. Certo, abbiamo amato la genialità di Fognini, e ci siamo emozionati per l’ascesa di Berrettini e Cecchinato, ma sempre stando attenti a non lasciarci andare, sapendo che prima o dopo avrebbero sbattuto sui loro limiti. Sinner, invece, finora non aveva suggerito limiti alle sue possibilità.
Aveva perso altre volte, ma contro avversari semplicemente più avanti di lui, oppure in contesti minori e senza importanza. Non c’era stata una sconfitta che non abbiamo visto come salutare, nessun passaggio a vuoto che non fosse fisiologico, in attesa del suo primo momento di grandezza che sembrava essere arrivato con questo torneo. A Miami si gioca uno dei tornei più importanti della stagione, diciamo uno dei più importanti dopo i grandi slam, e lui era avanzato fra i turni con una certa sicurezza. Mentre vinceva le sue partite i giocatori forti perdevano le loro: prima Zverev, poi Medvedev, Tsitsipas e infine Rublev, uno dei pochi che aveva vinto più partite di lui in questo 2021. Era rimasto da affrontare Hubert Hurkacz in finale, e i molti appassionati occasionali che si sono sintonizzati sulla finale di ieri sapevano poche cose di lui. Sapevamo che era polacco, che aveva 24 anni e che era molto alto; che aveva un gran servizio e che era amico di Sinner, che giocavano il doppio insieme. Sapevamo però che era in grande forma e che durante il torneo aveva disseminato vittorie nobili. Al secondo turno aveva battuto Denis Shapovalov in due set, un avversario dal gioco brillante che aveva avuto la meglio su Sinner agli Australian Open; agli ottavi era venuto a capo di una lotta arcigna di servizi contro Milos Raonic; ai quarti era andato a un soffio dalla sconfitta contro Tsitsipas, ma poi aveva vinto, regolando in due set in semifinale Rublev, che a quel punto sembrava il favorito indiscusso del torneo.
Niente di tutto questo bastava a farci pensare che Sinner poteva non vincere la partita. Aveva dovuto soffrire a lungo per avere la meglio di Khachanov e per lunghi tratti ha capito poco del tennis enigmatico di Bublik. In semifinale, contro Bautista, ha dovuto poi rimettere in piedi una partita che a un certo punto sembrava essergli sfuggita. Era sembrato soccombere al ritmo da orologiaio dello spagnolo, ai suoi colpi piatti, al suo timing preciso, alle sue letture tattiche da veterano. Bautista in campo era sembrato un tennista migliore di lui, finché non è arrivato quel game sul 6-5 del terzo set, un manifesto di volontà di potenza: 3 vincenti tirati senza esitazione, con una scintilla negli occhi, un rovescio finale potente che ha lasciato un solco a un palmo dalla riga.
Nel torneo aveva seguito alla lettera il manuale dei campioni di questo gioco: aveva vinto partite ruvide in cui le cose non gli riuscivano, ne aveva vinte altre mordendole nel momento decisivo, con un’esuberanza e una freddezza così disumane che avevano fatto dire a un Bublik stecchito «Non sei umano». Poco prima era stato lui a dire la stessa cosa al suo avversario, ma cos’è meno umano, un tennista che alterna onnipotenza e fragilità come Bublik, oppure uno che a 19 anni gioca come un computer?
Sinner ha perso velocemente il servizio nel primo game: un paio d’errori gratuiti, un doppio fallo. Era sembrato subito teso e fuori fuoco, ma gli era successa la stessa cosa con Bautista, pensavamo, aveva solo bisogno di riprogrammarsi. Trovare la calma e un tempo migliore sulla pallina. La partita però ha cominciato a scorrere strana e francamente brutta. Da una parte Sinner metteva un errore dietro l’altro, sempre frettoloso, sempre mal messo con le gambe o sciatto nelle idee; dall’altra parte Hurkacz è stato attento a non fare danni, forse capendo che gli bastava sbagliare meno e aspettare che la partita scorresse sonnolenta dalla sua parte. Il suo tennis, di solito potente e aggressivo, ha iniziato a prendere la forma delle fragilità di Sinner. Un gioco intelligente e conservativo, da zero vincenti di dritti, che ha cotto l’italiano a fuoco lento. Eppure, alla ricerca di un equilibrio faticoso, Sinner ha pareggiato il conto dei break e sul 5 pari ha trovato quel momento di luce che in qualche modo abbiamo imparato ad aspettarci da lui. Un game in cui il gioco forsennato da fondo ha rotto il muro di Hurkacz, prima con un rovescio lungolinea teso come viaggiasse sulla superficie dell’acqua; poi un dritto profondo e cattivo.
Aveva giocato un brutto inizio, ma ne stava di nuovo venendo fuori con economia di forze scientifica. Era arrivato il momento di servire per il set, ed è stato quello il momento in cui Sinner si è spezzato. Il tempo di un battito d’occhi, ed era sotto 0-40; a quel punto Hurkacz lo ha tenuto nella naftalina della diagonale di rovescio, cercando di tirare quasi nello stesso identico punto del campo, con l’idea di togliere a Sinner ritmo e angoli. Spazientito, ha provato a uscirne con un lungolinea profondo, finito troppo profondo.
Al tiebreak, dove vantava uno score disumano quest’anno (11 su 13), Hurkacz ne ha domato i bollori. Spesso qualche metro dietro la riga di fondo, si è messo a mungere con pazienza gli errori di Sinner; mentre al servizio è stato fenomenale, come sempre lungo il torneo. Arrivava alla finale col record di ace, 51, ma con uno stile che non può essere ridotto alla gretta potenza. Hurkacz sa tirare ace centrali sbrigativi, certo, ma sta anche attento a non diventare monotono, a non dare punti di riferimento, variando effetti e traiettorie.
Sinner si è ritrovato sotto di un set, e ha commesso uno degli errori più classici per un giovane tennista: staccarsi mentalmente dalla partita, perdere punti e game velocemente e senza neanche accorgersene. Una decina di minuti dopo la fine del primo set, si è ritrovato sotto 0-4 nel secondo. Hurkacz ha affondato la presa nel primo game, dove ha ottenuto il break, poi ha iniziato a sciogliersi e a tirare più libero: al servizio era ingestibile - più dell’80% dei punti vinti con la prima palla nel secondo set - mentre in risposta ha iniziato a lasciar andare il braccio senza più preoccupazioni. Il servizio di Sinner non ha mai funzionato: pochissimi punti diretti, poco più del 50% di punti vinti con la prima palla. Un fondamentale del suo gioco da cui aspettarsi miglioramenti. Sinner poi è tornato in sé, ha avuto una reazione, ha tolto il servizio a Hurkacz e gli ha fatto tremare le gambe al momento di chiudere una partita dominata contro ogni aspettativa. Ha battuto alcuni dei tennisti più in forma del circuito, e tra semifinale e finale ha dominato due avversari sulla carta migliori di lui. Ha giocato una grande partita e un grande torneo, e i meriti di Hurkacz sono la prima cosa da riconoscere nell'analizzare quello che è successo. Ha 24 anni, non sembra un fenomeno ma le sue vittorie sono solide e promettono futuro.
Se poi passiamo dalla parte dei demeriti, ci possono essere spiegazioni semplici a questa sconfitta. La prima è meteorologica: Sinner col volto bruciato e forse a corto di crema solare, è sembrato soffrire particolarmente il caldo e l’umidità della Florida, sia ieri che con Kachanov; in più il vento, nel tennis una variante tanto decisiva quanto intangibile per chi guarda la partita, che sembra averlo disturbato nella ricerca delle distanze. Da questo punto di vista Hurkacz è sembrato più pronto, e prima della partita aveva dichiarato: «Ho passato qui un anno e mezzo ad allenarmi nel clima più caldo durante la primavera e l’estate, e mi sta aiutando in queste condizioni difficili, il vento tira da una direzione all’altra ed è complicato».
Un’altra spiegazione è la sua giovinezza, la sua mancanza d’esperienza. Hurkacz ha quattro anni più di lui, che nella vita comune sono tanti (provate a pensare a cosa stavate facendo a pasqua di quattro anni fa) ma in quella tennistica bastano per calcolare due età di sviluppo completamente diverse. Qualche giorno fa Riccardo Piatti a Sky aveva dichiarato che Sinner doveva ancora cominciare a capire il circuito: «Jannik ha tanta strada davanti, ha giocato una sessantina di partite a livello pro e sarà completo quando ne avrà giocate 150». Poi ci ha ricordato che non ha nemmeno mai giocato a Wimbledon.
Sono entrambe spiegazioni vere, in misure diverse, eppure finiscono per suonarci vaghe e consolatorie. Questa sconfitta è stata interessante proprio perché arrivata in modo inatteso più nella forma che nella sostanza. Hurkacz ha vinto in modo all’apparenza paradossale, cioè vincendo gli scambi lunghi, sbagliando meno. Paradossale perché in teoria doveva essere lui il tennista a dover sfuggire al ritmo, a forzare gli scambi, a temere il gioco da fondo dell’avversario; invece è stato Sinner a non avere pazienza, a cercare strappi goffi e sempre poco centrati. Ma in fondo ha scoperto esattamente il suo punto debole in questo momento del suo sviluppo. Hurkacz ha mostrato l’importanza del calcolo del rischio in una partita di tennis.
C’è una differenza sottile tra controllare le partite e dominarle, tra manovrare e tirare vincenti. O tra tirare un vincente dopo tre o quattro colpi, o volerlo fare in uscita dal servizio. Sinner a volte va di fretta: il suo tennis vive di ritmi progressivi, di una ricerca ossessiva del vincente. A volte, però, semplicemente le cose non vanno come vorresti, e un tennista deve vivere nella ricerca di compromessi tra quello che si vorrebbe e quello che si può fare, che l’avversario o che le tue condizioni ti permettono. Solo McEnroe o Federer hanno potuto permettersi l’ossessione per la perfezione. Sinner lo sa bene, visto che dopo un’importante vittoria a Dubai contro Bautista Agut aveva detto: «In un anno poche volte ti senti bene in campo. È ancora più importante vincere le partite in cui non giochi bene e fai fatica». Sinner deve imparare a calibrare meglio i rischi, non cercare sempre le righe, o il vincente a duecento chilometri orari; come ha scritto Claudio Giuliani nella sua newsletter: «usare il campo anche in lunghezza e tenere in campo le chiusure di punti oramai conquistati con i colpi precedenti». Sinner non diventerà mai un tennista di variazioni, né tantomeno uno che risolve i momenti difficili affidandosi al serve&volley come si augura Diego Nargiso. Può imparare però a gestire meglio la propria energia, provando a razionalizzare un gioco che troppo spesso prende la forma della furia cieca. Più che a Nadal o a Federer, dovrebbe guardare a Djokovic, un maestro nel prendersi solo i rischi che vale la pena prendersi; uno che da un decennio pare giocare col cambio automatico, alzando o abbassando i giri del motore sempre in maniera esatta rispetto alle difficoltà che ha di fronte. Questo lo sa anche lui, che a fine gennaio aveva dichiarato che il suo obiettivo del 2021 sarebbe stato quello di «Ridurre gli errori non forzati», che contro Hurkacz sono stati 53 (!).
Non bisognerebbe nemmeno ricordare l’ovvio, che questa sconfitta cioè non ridimensiona in alcun modo la grandezza del percorso di Sinner, e che al termine di questo torneo le nostre speranze su di lui sono ancora più giustificate. Da oggi è numero 21 del mondo ma nella classifica Race, quella che conta per la qualificazione alle Finals di Torino, Sinner è settimo. Questa sconfitta ci dice però qualcosa su come abbiamo voluto raccontarlo. Abbiamo cominciato a descriverlo come il bravo ragazzo tutto tennis e montagna, umile e dedicato; poi è arrivata una ragazza e abbiamo provato a sostenere che poteva distrarlo - in una visione molto medievale della donna come demonio corruttore. Siamo rimasti delusi visto che, naturalmente, quello continuava a giocare a tennis molto bene e a vincere le partite. Allora abbiamo iniziato ad appiccicargli l’immagine di robocop, del fuoriclasse disumano. La frase di Bublik, quella dichiarazione dopo una vittoria: «Cosa faccio tra una partita e l’altra? Guardo il tennis». Ma le immagini che cerchiamo di cucire sugli atleti sono spesso scivolose e contraddittorie, ci fanno comodo per ricondurre l’ignoto al già conosciuto, per far finta di saperla più lunga, ma finiscono quasi sempre per non c’entrare niente con la realtà. La finale con Hurkacz ci ha ricordato che Sinner è umano, non ha ancora vent’anni e ancora tante cose da capire. Il suo talento, magnifico e così precoce, deve ancora prendere una forma definitiva. Ieri Sinner ci ha mostrato le sue fragilità, e invece che rimanerne delusi dovremmo amarlo ancora di più. Sai che noia, tifare uno che non è un essere umano.