«Ha il senso innato della linea», me lo dice Milo De Angelis, che - oltre a essere il grande poeta che è – è un appassionato ed esperto di tennis. «Mi piace molto», aggiunge. A quella linea penso da molti mesi, una linea ideale che non coincide solo con il rettangolo del campo da tennis - e che decide quale palla sia dentro e quale fuori, fuori di poco, dentro di niente - una linea che ha molto a che fare con la misura, che tiene conto delle variabili, che segue un tempo che è fatto di ritmo, inventiva, talento, rigore. Una linea che ha molto a che fare con la lunghezza dei versi di una poesia, con la struttura metrica. Lo spazio tra un verso e l’altro, nelle poesie più riuscite, è quello in cui cade la palla dopo un diritto o un rovescio di Sinner. Quasi sempre dal lato giusto della linea, quasi sempre è punto. Ma De Angelis è andato oltre la normale misurazione, con il senso innato. Il senso è fiuto, è visione a occhi chiusi, è previsione, è sapere quello che gli altri non sanno, è conoscere prima di sapere. O ce l’hai o non ce l’hai. Sinner ce l’ha, guardandolo giocare negli ultimi due anni e, soprattutto, quest’anno, si ha l’impressione che mai, nemmeno per un momento, il numero del mondo non sapesse dove fosse la linea lungo la quale far cadere la palla, quale fosse l’orizzonte verso il quale roteare il suo rovescio. E la linea è la riga, ma è anche l’avversario, la linea sono gli spalti, la linea è il gioco e il contesto, la durata dei colpi, la loro variazione, l’attesa della risposta di chi gioca dall’altra parte. La linea che separa Sinner dall’avversario è, infine, la rete che decide cosa è un punto e cosa è niente, cosa è speranza e cosa è l’inferno, cosa è una possibilità e cosa la sua negazione. La rete, metaforicamente (e nemmeno così tanto) separa la vita dalla morte. Da un lato Sinner dall’altro quasi nessuno. E questa è la prima poesia.
Il rumore del diritto di Sinner è un rumore unico, inconfondibile. Un rumore che parte e finisce, si estende come un elastico dall’attimo prima in cui la palla verrà colpita fino al suo esaurimento in mano al raccattapalle, dopo il punto. Il diritto di Sinner ha un suo timbro ed è diverso se il colpo è a uscire o incrociato. Naturalmente, è diverso quando il tennista italiano va a punto oppure non ci riesce. Non suona come un colpo secco, somiglia più all’intro di un brano musicale che comincia con un colpo di batteria. L’incisione parte sfumata e al nostro orecchio il battito arriva piano piano, intanto la palla viaggia a velocità costante e impressionante, molto spesso imprendibile, all’incrocio delle linee. Dopo il rimbalzo, a punto fatto, come in un singolo dei Radiohead, entra una chitarra elettrica e - mentre Sinner si prepara a servire o a ricevere il 15 successivo – Thom Yorke comincia a cantare, qualcosa come: «You can't take it with you / Dancing for your pleasure». O almeno così pare, così mi è parso di sentire dopo la maggior parte dei diritti visti (e ascoltati) quest’anno. Questa cosa è soggettiva, immagino che altri appassionati abbiano potuto sentire un suono diverso. Di certo, per me, è uno dei toni dell’anno. Ho raccontato più volte di guardare le partite di calcio senz’audio, perché la più anziana dei miei cani soffre la voce concitata (costantemente) dei telecronisti e prende a tremare. Invece, l’audio del tennis non la disturba, è tutta un’altra cosa, così ho potuto ascoltare, uno per uno, diurni e notturni, tutti i diritti che Jannik Sinner ha eseguito in questa stagione. E questa, senza dubbio, è la seconda poesia.
Quando Sinner si piega, si abbassa, si coordina, per colpire di rovescio, c’è un primo istante in cui – ed è una sensazione quasi impalpabile – pensiamo che non riuscirà a piegarsi bene, che non fletterà le ginocchia nel modo giusto, che non arriverà pulito sulla palla, che ruoterà male il polso e che quel rovescio lo sbaglierà. Per fortuna questa suggestione, supportata da qualche principio di irrealtà e paure, dura meno di un secondo. Qualche mese fa, ho scritto sui social, com’è elegante il rovescio di Sinner. Se ricordo bene, deve essere successo durante la finale giocata e vinta a Miami, contro Dimitrov. È stata un’epifania, ai miei occhi si è concretizzata quest’evidenza, e sono quasi certo che non sia successa in seguito a uno dei punti più belli della partita, ma dopo uno scambio normale (scriviamo normale con tutte le pinze e attenzioni del caso). Perché ci accorgiamo del fantastico quando accade in mezzo all’ordinario. Il rovescio di Sinner è pieno di grazia, così com’è c’è grazia nella maggior parte dei suoi colpi. Ann Carson, una delle maggiori scrittrici e poete viventi, in uno dei suoi libri più belli, L’economia dell’Imperduto (Utopia, traduzione di P. Ceccagnoli), scrive: «La grazia è una moneta con più di due facce. Nella quale noi crediamo». Noi crediamo nella letteratura e nel gioco del tennis, e non li vediamo distinti ma insieme. Crediamo perciò ciecamente alla definizione della grazia di Carson, e l’applichiamo – senza timore di essere smentiti – al rovescio di Jannik Sinner e al suo gioco in generale. Questa, per ovvi motivi, è la terza poesia.
Paul Willems ha scritto: «L’attesa del tennista è breve ma terribilmente intensa, perché l’azione che la seguirà – la risposta al servizio – dovrà compiersi in lampo», lo scrive in un saggio sulla letteratura, tratto da La cattedrale nella nebbia (Safarà, traduzione Girimonti Greco e Musardo). L’intensità che avverte il tennista mentre attende la risposta dell’avversario, ognuno si concentra a suo modo, chi si flette, chi si piega leggermente, chi sta dietro la linea di fondo, chi ruota la racchetta tra le mani. Ognuno a suo modo, ognuno guarda davanti a sé. Dove guarda Sinner? Guarda un punto fisso al di là della rete e quel punto dev’essere l’avversario e la sua estensione in racchetta, ma è una frazione di secondo, gli occhi di Sinner paiono non muoversi ma già seguono la palla e cercano di prevederne la traiettoria e quali siano le possibilità di risposta. Willems continua: «Il tennista porta le sue forze al culmine di sé stesso, mobilitando tutto il suo essere». Qui Sinner è ancora immobile, ma da qualche parte dentro di lui la risposta al servizio dell’avversario sta già partendo. Ancora: «Dovrà rispondere al servizio prima ancora di aver visto la pallina e senza aver avuto il tempo di prendere una decisione». Ciò che scrive Willems è vero, ma è pure falso. Vero perché i tennisti, Sinner nel nostro caso, devono per forza cominciare a rispondere prima di compiere il gesto, prima di impattare la pallina, sapendo che spesso non sarà possibile, che molto frequentemente sarà inutile. Non hanno il tempo di decidere e per questo decidono in maniera inconscia, durante gli allenamenti, mentre si posizionano per ricevere, mentre vedono il tennista di fronte far rimbalzare la pallina sul campo, prima di lanciarla, prima di colpire. Non ha il tempo di prendere una decisione Sinner, mentre Alcaraz serve, mentre Medvedev serve, mentre Zverev serve, eppure decide e il talento incide su ciò che decide, così ogni tanto la risposta perfetta viene. Possiamo dire che, in questa fase, la risposta al servizio di Sinner è la migliore del circuito e lo diciamo. Lo diciamo specie se andiamo con la memoria a qualche risposta di rovescio, dove il corpo che si piega, il polso che ruota, il braccio che libera il colpo diventano tutt’uno. Diventano una decisione. Questa, lo sapete, è la quarta poesia.
Alcuni dicono colpo dell’anno e lo dicono abbastanza spesso, dieci, venti volte. Se ci pensiamo hanno anche ragione. In una stagione tennistica i colpi meravigliosi, incredibili, spettacolari, impossibili sono per forza di cose molti. Alcuni magari si manifestano nei primi turni di un Atp 250 e nemmeno ci capiterà di vederli. Perciò, col senno di poi, a ragion veduta, a partite viste, ad highlights straguardati, potremmo affermare, ecco, questi dieci sono forse i colpi più belli dell’anno. Stando a Sinner sono indeciso tra almeno sette o otto. Nei filmati che circolano in rete, uno dei più visti e indicato come colpo dell’anno è quello che Sinner fa contro Grieskpoor ad Halle. Nel secondo set, Sinner conduce 3 – 2, ed è in vantaggio. Lo scambio è molto rapido, Griekspoor serve al solito molto bene, la risposta di Sinner prende una strana traiettoria, una specie di pallonetto e cade abbastanza vicina alla linea di fondo. Una palla facile per il tennista dei Paesi Bassi che infatti colpisce forte e preciso di diritto, segue un rovescio di Sinner e un bellissimo diritto lungo linea di Griekspoor, uno di quei colpi che, se non sono punto, lo diventano poco dopo. Sinner però si allunga e arriva sulla palla, la rimanda non si sa come al di là della rete. Di nuovo una palla comoda per l’avversario, che si coordina e dal centro della sua metà di campo libera un diritto molto potente, sembra già punto, ma esiste il net. La palla colpisce la rete, si impenna e rallenta, cade nel campo di Sinner, non troppo distante dalla rete. C’è un momento di sospensione, di incredulità. Griekspoor forse pensa di aver fatto punto, forse lo pensa il pubblico, forse lo pensano i telecronisti, forse anche noi da casa. C’è uno che non lo pensa, e perciò è il numero 1 del mondo. Sinner stava andando dall’altra parte del campo, quindi dopo il net, deve frenare, cambiare direzione e correre verso il rettangolo alto di destra, prima che la palla compia il secondo rimbalzo. Aspettate che accada. E questo è ancora niente. Sinner arriva e praticamente in tuffo colpisce di diritto. Ne esce un diritto incrociato, stretto corto, una sorta di braccio lanciato insieme alla racchetta. Corpo, braccio, telaio mandano la pallina dall’altra parte, imprendibile, ed è punto di Sinner. La poesia, però, avviene subito dopo, ed è la quinta. Partono gli applausi scroscianti. Sinner fa una capriola da cartone animato, si raddrizza vicino ai cartelloni pubblicitari, si mette le mani sui fianchi, sorride voltando la testa verso Griekspoor, si mette le mani sui fianchi, poi si piega un attimo su sé stesso, poi si raddrizza, sorride ancora. Sinner aveva perso il primo set al tie-break, e questo punto lo porta in vantaggio sul 4-2 nel secondo set. Ma la poesia non sta in questo, sta nel modo di ridere di Sinner, non per l’importanza del punto in sé (non direttamente, almeno), ride come ride un ragazzo che fa un punto inatteso, giocando contro un amico su un campo affittato per la domenica mattina.
«Si migliora a tutt’andare. Conviene / abituarsi», sono versi di Giovanni Raboni, adattabili a molte cose, perfetti per l’evoluzione costante di Jannik Sinner. Due piani di osservazione. Il primo ha a che fare con la prima e la seconda di servizio. Quanto è migliorato in questo aspetto negli ultimi due anni? Non oso azzardare una percentuale. Riguardando ampi frammenti di partite degli ultimi mesi mi accorgo che il numero di ace è salito costantemente, così come il numero di punti ottenuti quasi direttamente con la prima. Il livello si alza però anche se osserviamo le seconde, sempre molto varie, sempre ragionate, quasi mai buttate lì per caso. Infatti, Sinner, commette pochissimi doppi falli. Lo ha raccontato lui, ormai lo sappiamo, fa rimbalzare la pallina 7 volte prima del primo servizio, 5 volte se si tratta di una seconda. Da quando lo abbiamo scoperto, contiamo quei rimbalzi, al sesto, o al quarto, ci prepariamo. Servirà al centro? Servirà a uscire? Non importa, conta che dopo quei rimbalzi ci aspettiamo qualcosa di buono. La seconda evidenza riguarda il miglioramento di ogni colpo. Miglioramento di tecnica, di ritmo, di coordinazione. Miglioramento rispetto alle scelte da compiere nei momenti cruciali di ogni match. Ma il progresso, quello che certifica questa poesia, ha a che fare con la partita singola. Sinner modifica il suo gioco durante la partita a seconda delle difficoltà, di come sta giocando l’avversario, di come si sente lui. Quando ha vinto gli Australian Open, dopo aver perso i primi due set da Medvedev, non entrando mai in partita, è come se avesse respirato prima di ripartire. «Ok, cambiamo qualcosa». Dopo è stato bellissimo gioco, è stato match ribaltato e vinto, con gli occhi nostri e di Danil colmi di stupore. Stupore controllato perché forse ce lo aspettavamo. Medvedev no. Sinner che adegua il suo gioco e lo cambia a partita in corso è una delle sue caratteristiche che amo di più. Questa è la sesta poesia.
Le espressioni del volto di Danil Medvedev che cambiano durante l’anno di sconfitta in sconfitta, non solo quelle con Sinner – che comunque sono un numero considerevole e costante -, passano dal sorpreso, all’arrabbiato, al deluso, all’ironico, al depresso sportivo. Il Medvedev di fine stagione è un tennista che non sa più che fare, ha perso molte delle sue certezze, il suo talento pare essere attraversato da solchi sempre più opachi. Di colpo ci è simpatico. Ha vissuto in una terra di mezzo, poteva essere quello dopo Federer, Nadal e Djokovic, è durato pochissimo, non si è accorto che stavano arrivando Alcaraz e Sinner, troppo forti per lui, troppo inesorabili. Medvedev è molto intelligente e nelle ultime interviste di fine anno ha riconosciuto la schiacciante superiorità di Sinner e la quasi impossibilità di batterlo. Le sue espressioni di delusione susseguitesi in tutta la stagione sono una diretta conseguenza del dominio del tennista italiano. Lui è quello su cui troviamo le tracce maggiori, ma potremmo chiedere a Rublev, a Dimitrov, a Zverev, a De Minaur, a Griekspoor, a Fritz, a Berrettini. Potremmo chiedere a Djokovic. Potremmo chiedere ad Alcaraz. Su ciascuno di loro, in misura diversa, Sinner ha esercitato una forte pressione mentale, semplicemente giocando bene, benissimo e sempre meglio di partita in partita, di torneo in torneo. Li ha resi minori, anche quando non lo sono. Prendiamo Alcaraz, ha vinto due slam, e un numero consistente di partite e di tornei, eppure, la sua pare una stagione di secondo piano, ed è abbastanza incredibile da pensare. Alcaraz, a differenza di Medvedev non pare depresso, solo incostante e ogni tanto spaesato. Aver reso i suoi avversari del 2024 dei satelliti sperduti sul campo da tennis, delle stelle che si spengono, rappresenta la settima poesia di Jannik Sinner.
Sinner guarda da un’altra parte, mentre aspetta il colpo dell’avversario, guarda come per aprire il diritto lungo linea, guarda come chi sta per colpire forte. Guarda dall’altra parte, come Pirlo prima di passare a Grosso nella semifinale dei Mondiali del 2006. Guarda dall’altra parte e quando la palla arriva, all’ultimo istante, prima di colpire, cambia il movimento del braccio, ed ecco la smorzata, ecco la palla corta. Ecco quello che io chiamo, il momento Edberg. «Questa se l’è strappata dal petto», diceva Gianni Clerici commentando quel colpo fatto dal tennista svedese. Classe sopraffina. Clerici si riferiva alle volée di Edberg, il suo colpo forse più bello. La volée non è di certo il miglior colpo di Sinner, eppure quando fa una smorzata o una palla corta, penso a Clerici su Edberg. Perché la smorzata di Sinner non è strappata dal petto, ma da qualche parte è strappata, a me pare che si tratti del polso, ma anche del movimento che fa il corpo, che pare sospendersi come in un rallenty e andare qualche centimetro all’indietro. Non è vero, Sinner non arretra ma orienta il corpo, ne varia l’angolazione e la postura, il braccio cambia movimento, e invece di chiudere e poi avanzare come per un diritto, arretra, s’alza in maniera impercettibile e s’apre. Ora Sinner non guarda più dall’altra parte, guarda davanti a sé, è punto. L’applauso che parte è l’ottava poesia.
Mentre si giocava il Roland Garros ero in Liguria al mare e, come sempre, orientavo le palline, i rimbalzi e i pensieri seguendo lo streaming. Prima che si giocasse la semifinale tra Sinner e Alcaraz, ho scritto una prosa breve che ne seguiva altre, questa. [Nel non tempo dei tennisti al cambio campo un mozzicone di sigaretta si spegne sopra gli altri, in un posacenere stracolmo, non è il tuo, non hai mai fumato. Juan Carlos Onetti solleva la testa e ti guarda. Dice che non è lo streaming, da sempre tutto è sospeso, da sempre tutto va a puttane. Gli chiedi dove sia finita la vecchia. Ti dice che è morta e poi che non è mai esistita. La vecchia è un personaggio, il tuo. Onetti va avanti: morta o viva, lo hai deciso tu. Punta gli occhi allo schermo del pc. I tennisti si alzano, Onetti dice: Vuoi sapere chi farà punto tra Alcaraz e Sinner? Non devi fare altro che scriverlo. Accende un’altra sigaretta. Se ne va]. Lo scrittore uruguaiano Onetti, e io con lui, crede che la letteratura possa fare tutto, spiegarci le cose, prevederle o addirittura indirizzarle. Non è il tempo dello streaming, né quello della partita vera a stabilire il risultato finale. Per Onetti, la vecchia che ho immaginato, Sinner e Alcaraz sono tutti personaggi, sono tutti parte dello stesso gioco letterario. Mi guardo tutta la partita, per gran parte del tempo penso che Sinner vincerà, quando si arriva al quinto set penso che perderà. Ed è questa la cosa che scrivo da qualche parte. Alcaraz vince al quinto set, meritatamente. Sinner, fresco numero 1 del mondo, perde, e questa è la nona poesia. Perché certe sconfitte centrano con le vittorie precedenti e con quelle a venire. Perché, quando giocano Sinner e Alcaraz, per lunghi momenti, quasi tutti, conta solo il gioco e ci dimentichiamo per chi tifare. O meglio, lo sappiamo, tifiamo il gioco del tennis.
Per ogni torneo vinto, Sinner ha esultato in modo diverso. Perché durante l’anno è cambiato, è più consapevole, è cresciuto, ha giocato con la gioia e con un peso sulla testa. Ha vinto. Nella seconda parte della stagione ha sorriso meno, ma ha continuato a vincere, poi ha riso di nuovo in Coppa Davis, anche se un poco imbarazzato dal modo caciaro di Berrettini e per Volandri che lo solleva da terra dopo il punto decisivo. A volte ha alzato solo il pugno, altre ha alzato entrambe le mani al cielo, come per la vittoria agli Us Open. Un lungo istante, un respiro con le braccia verso l’alto e lo sguardo in su. Poi, il ritorno a terra, lo sguardo verso il box, prima grintoso, poi più rilassato e un mezzo sorriso. Quella è stata psicologicamente la vittoria più difficile dell’anno, da vero numero 1 del circuito. L’esultanza più dolce e romantica è però quella dopo la vittoria agli Australian Open, con la foto che ha fatto il giro del mondo e che nella mente o sui desktop conserviamo come una delle immagini più potenti e luminose dell’anno. Sinner chiude quella bellissima partita con un diritto bellissimo e molto preciso. È finita. Il ragazzo si lascia cadere, steso per terra lungo la linea di fondo. Deposita la felicità che sta per esplodere - prima ancora che il suo corpo - al suolo. La sparge. Il corpo di Jannik Sinner è perfettamente centrato rispetto alla linea del campo, preciso anche in questo, di una gioia regolare ma che non può fare a meno di espandersi e contagiarci. Questa è la decima poesia.
Sinner (ma anche Alcaraz) mi sta insegnando che non si può definire la bellezza del gioco del tennis in un modo soltanto. Il talento è estensibile e prende varie strade e forme. Nessuno mi toglierà mai il fascino di aver amato l’imprevedibilità di McEnroe, nessuno mi toglierà l’incanto perpetuo che mi ha regalato Roger Federer. Sono entrato, per fortuna, in un tipo nuovo di meraviglia che nasce di epifania in epifania, e che si manifesta nell’incredibile varietà e controllo dei colpi di Sinner, nella sua gentilezza; che si manifesta nel dispiacere della sconfitta. Quando Sinner perde mi sento come quando perdeva Federer, non è giornata. Il Tutte le poesie non finisce qui, stiamo solo cominciando a raccoglierle, a rileggerle di tanto in tanto.