Donna Vekić si prepara faticosamente per servire. Ha la faccia tutta rossa e stravolta, prende respiri lunghi e veloci. Sembra essere a metà di una lunga salita, in mezzo a una scampagnata di quelle organizzate al volo perché è bel tempo. In effetti su Londra splende un sole raro, ma l’atmosfera sul campo Centrale di Wimbledon è talmente tesa che il giallo stona. Il punteggio dice 8-9 nel super tie-break del terzo set. Se si conoscono le regole del gioco, si sa che è match point per l’avversaria, in questo caso Jasmine Paolini.
Nei pronostici della partita – forse viziati da un eccesso di hybris da parte nostra che ci speravamo – la croata sarebbe dovuta essere un ostacolo minore per Paolini. Una pratica da sbrigare per scrivere la storia del tennis. Nessuna italiana era mai riuscita a conquistare la finale di Wimbledon. Per di più, negli ultimi venticinque anni solo quattro giocatrici avevano raggiunto l’ultimo atto di Open di Francia e Inghilterra nella stessa stagione: Steffi Graff, Venus Williams, Justine Henin e Serena Williams. Se a questa statistica si aggiungono anche i maschi, il numero arriva a otto, con Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic e Andy Murray. Tutto quello che Jasmine doveva fare, era giocare come sapeva.
Vekić, dicevamo, si appresta a servire per annullare un altro match point – il terzo, per la precisione. Il numero di occasioni che Paolini ha avuto per chiudere la partita prima non deve ingannare: la croata ha avuto lo scontro in mano dal primo quindici, nel bene e nel male. Il primo set, in cui l’italiana è riuscita faticosamente a conquistare solo due game, ha chiarito subito i ritmi e gli schemi ammessi. Scambi brevi, colpi a tutto braccio (possibilmente da ferme) da fondo campo e chi tira prima il vincente o l’errore non forzato conquista (o perde) il punto: è il manifesto di una larga parte del tennis femminile anni Dieci del Duemila, quando Vekić, da adolescente, ha fatto il suo ingresso nella scena internazionale.
Nonostante la croata abbia ventotto anni come Paolini, ha alle spalle il doppio delle partite nel circuito maggiore e dieci anni in più di esperienza ai massimi livelli. La partita è a suo modo uno scontro generazionale, che Paolini dovrebbe (almeno tentare di) risolvere sulla carta con le variazioni e le soluzioni aggressive a rete che caratterizzano il suo gioco. Invece la numero uno italiana si fa schiacciare subito indietro. «Falla muovere!» le suppliche di Elena Pero e Paolo Bertolucci, che commentano la partita per Sky, si fanno sempre più disperate, inermi davanti a una partita frustrante in ogni colpo. «Come fai a fare a pallate con una più alta di venti centimetri e che pesa quindici chili in più?». Il dominio è tale che Vekić si sente libera di sperimentare con le palle corte. Dall’altra parte della rete, Paolini sembra lontanissima dalla giocatrice scesa in campo contro Madison Keys e Emma Navarro.
Forse abbiamo volato troppo vicino al sole. Che altro si può chiedere a una che fino allo scorso anno non aveva mai vinto una partita sull’erba in un tabellone principale?
Jasmine è entrata nel tennis che conta a una velocità impossibile, che di solito si concede solo alle adolescenti predestinate. Forse per questo, nonostante la stagione incredibile che l’ha vista raggiungere addirittura la top five, si tende ancora a considerarla sfavorita quando l’avversaria è di buon livello. Spesso il tennis femminile viene accusato di discontinuità cronica: i talenti emergenti vengono scrutati con sospetto settimana dopo settimana dopo settimana per capire se i risultati sono veri o si tratta dell’ennesima “truffa”.
Markéta Vondroušová, ancora per ventiquattro ore campionessa in carica di Wimbledon, è arrivata all’appuntamento sull’erba inglese, per sua ammissione, «un po’ spaventata». Forse complice l’angoscia delle attese, la ceca ha perso al primo turno contro Jessica Bouzas Maneiro, numero 83 del ranking mondiale. L’ultima volta che la campionessa in carica dei Championships era uscita a questa fase del torneo era il 1994. In conferenza stampa, Vondroušová ha raccontato trattenendo a stento le lacrime di come si sentisse «nervosa fin dall’inizio. Tutti si aspettano che tu vinca e oggi non è andata secondo i piani. È dura».
Prima di luglio 2023, la ceca aveva vinto quattro partite sull’erba in carriera e nessuno si sarebbe mai aspettato che potesse vincere il torneo più esclusivo prestigioso antico al mondo. Forse proprio quella sensazione che aleggiava sopra di lei e il suo successo passato, di essere un’impostora o una miracolata, le ha bloccato il braccio. Magari si sente così anche Jasmine ora: bloccata dalle aspettative esterne e non ancora abbastanza abituata a vincere da ignorarle. Tutti si aspettano che tu vinca (e forse se non lo fai è perché sei l’infiltrata del momento).
È nella natura umana cercare dei pattern: trovare galassie nelle iridi, o ricorrenze numerologiche. Per esempio nel numero tre, che è sacro per i culti cattolico, wiccan e tennistico. Prima i Big Three, che si può dire senza blasfemia generati (dalle circostanze e dalla manifesta superiorità) e non creati. Poi i Little Three – loro sì, creati – Daniil Medvedev, Stefanos Tsitsipas e Alexander Zverev, ex giovani promettenti che avrebbero dovuto prendere in mano il dominio dello sport, ma hanno conquistato una sola vittoria Slam in otto finali giocate. Ora ci sono Jannik Sinner, Carlos Alcaraz e Holger Rune: rispettivamente il numero uno del mondo, il più giovane vincitore Slam su tre superfici diverse e Holger Rune. In molti vorrebbero creare il trio dominante anche nella WTA: Iga Świątek, Aryna Sabalenka e Elena Rybakina? O Coco Gauff? Ancora siamo nella fase della Genesi. In ogni caso, parte fondamentale dell’epica dei Tre è che devono vincere tutto loro sempre.
Torniamo alla nostra “infiltrata” del cuore. Adesso, però, siamo nel secondo set. Jasmine continua a non trovare il suo gioco e fatica a mantenere ogni turno di servizio. Sta perdendo, addirittura contro un’avversaria che un paio di anni fa stava contemplando il ritiro! È per la pressione esterna? La paura di mancare l’occasione? O era tutto solo un abbaglio?
Mentre stiamo collettivamente preparando l’analisi della sconfitta, Donna Vekić sbaglia uno smash che l’avrebbe portata a 15-30 sul turno di servizio di Jasmine per il 5 a 4 nel secondo set. Da quel momento la croata entra in confusione e vince un solo punto su otto. Paolini, che ha lottato per mantenere ogni turno di battuta e non ha avuto praticamente chance in quelli di Vekić, fa insieme break e set e forza la partita al terzo.
L’erba è la superficie preferita dell’ex numero 19 del ranking mondiale. Si capisce il perché: esalta ogni suo punto di forza, soprattutto il servizio. Il suo primo risultato importante in uno Slam era stato qui a Londra, con gli ottavi di finale raggiunti nel 2018. Non ha avuto una carriera semplice, costellata da infortuni vari, che le avevano tolto la motivazione. In questo Wimbledon però Vekić sembra aver ritrovato la fiamma: conquista la sua prima semifinale Slam in carriera a suon di vincenti. Ci crede, forse più di Paolini, e infatti inizia il terzo set con un break immediato, che per come si era sviluppata la partita fino a quel momento sembra una sentenza.
Jasmine però sorride, si forza a farlo almeno, e si riprende il break. Immediatamente la croata vince un altro turno in risposta e Paolini di nuovo riporta le cose in equilibrio. È una battaglia di nervi che si manifestano in ogni colpo e in ogni smorfia delle due. Vekić sbuffa, si dispera, piange disperata nei cambi di campo. Non perché si senta sconfitta, però: si libera delle sensazioni negative, le vomita via con i singhiozzi e resiste. Paolini invece sorride, si forza in alcuni casi e si vede. Non è solo un modo per generare energia positiva, ma anche per mostrare i denti. Sembrano le allegorie di Mercurio e Apollo, mentre ci avviciniamo all’atto conclusivo della partita, che coincide con il punto da cui siamo partiti: il super tie-break.
L’orologio in campo segna che sono passate due ore e trentotto minuti. Vekić è sempre più stanca, sempre più rossa, ma ha perso fino a quel momento solo dieci punti con la prima in campo. Dall’altra parte Paolini, che fino a questo momento aveva perso un solo set in tutto il torneo, è molto più fresca, ma non è mai riuscita a trovare la prima di servizio. Non si potrebbe in nessun modo prevedere come andrà, e quindi si soffre. La prima a sbagliare è Paolini, che con un doppio fallo regala il 3-1 all’avversaria. La situazione torna subito, ancora una volta, in equilibrio sul 3-3. Nessuna delle due sbaglia più. Bertolucci in telecronaca si augura solo che Vekić non pianga più «perché poi gioca meglio». Non piange più, ma sembra posseduta dal connazionale Ivo Karlović e infila una prima di servizio dopo l’altra. Per questo quando si prepara per servire sull’8-9, la partita sembra destinata a continuare, potenzialmente per altre tre ore.
Poi succedono due cose: a Vekić non entra la prima; Paolini riesce finalmente, nel punto più importante della sua vita finora, a cambiare inerzia allo scambio e a forzare l’errore della croata. Finisce così, dopo due ore e cinquantuno minuti, la semifinale femminile più lunga della storia di Wimbledon.
Così Jasmine Paolini è riuscita a scrivere la storia del tennis italiano e mondiale, a mettere il suo nome accanto a quello di Steffi Graff, Venus Williams, Justine Henin e Serena Williams. Lo ha fatto giocando una partita sporca, del tutto innaturale per il suo tennis e il suo fisico. Ci è riuscita con l’improvvisazione e la resistenza, accettando ogni punto perso, ogni break subito contro una Donna Vekić al meglio delle sue potenzialità. È proprio qui che sta la linea di demarcazione tra un buon giocatore e un campione: riuscire comunque a vincere quando conta, anche se tutto va per il verso sbagliato. Dopo la vittoria ha detto ai microfoni di Sky: «Non so se è il giorno più bello della mia vita, di sicuro è uno di quei giorni che non mi dimenticherò». Nonostante i ventotto anni di Jasmine Paolini, la sua carriera è appena iniziata e lei lo sa.