Jasmine Paolini ha vinto il WTA 1000 di Dubai, e ha migliorato il suo best ranking di dieci posizioni, diventando numero 14 del mondo. In un sabato pomeriggio di fine febbraio ha aggiunto un tassello splendente al 2024 dei miracoli del tennis italiano. Perché collezionare in meno di un mese uno slam, un WTA 1000, un ATP 500 a Rotterdam, e addirittura l’ATP 250 di Cordoba con Darderi, è qualcosa che dà le vertigini.
Deve darle, perché è vero che se è un sogno non vogliamo essere svegliati, ma con dei risultati del genere bisogna avere la lucidità di non abituarsi e non darli per scontati, e riuscire invece a capirne la portata. Prendendo in considerazione circuito maschile e femminile, in questo momento non c’è un altro paese al mondo che sia neanche vicino a questo livello. A inizio anno, fare man bassa di titoli, prendendo tutti quelli di prima categoria appena si affacciano sul calendario, è ai limiti della hybris.
Il titolo di Paolini arriva dieci anni dopo la vittoria di Flavia Pennetta a Indian Wells, che nel 2014 fu la prima italiana in assoluto, tra uomini e donne, a vincere un titolo di questa categoria - che oggi si chiama WTA 1000 e al tempo si chiamava WTA Mandatory. Il rinascimento italiano, prima di Jannik Sinner, è iniziato con il tennis femminile, con le Fed Cup vinte tra il 2006 e il 2010, il Roland Garros di Schiavone, Errani e Vinci doppiste più forti del mondo per quasi tre anni, la finale a New York tra Vinci e Pennetta. Nel 2019 è toccato Fabio Fognini a Montecarlo, nel 2021 finale di Berrettini a Wimbledon e WTA 1000 di Camila Giorgi in Canada.
Se il contesto nazionale non bastasse, per capire ancora meglio cosa vuol dire vincere un WTA 1000, basta scorrere indietro il calendario. Dal 2020 a oggi, tutti i tornei di questo livello sono stati vinti da campionesse slam, numero 1 (ex, o in carica): le meno titolate sono state almeno numero 3 del mondo, e hanno in bacheca le Finals di fine anno o un piatto da finalista slam. Oppure, sono italiane.
A Dubai c’erano tutte le più forti del mondo, ma nel tennis nessuno si porta mai la vittoria da casa. Sabalenka tornava per la prima volta in campo dopo il titolo agli Australian Open, e ha perso subito con Donna Vekic. Swiatek invece arrivava da neo-campionessa di Doha, e ha mantenuto la striscia di vittorie fino alla semifinale, dove però ha fatto una brutta partita. Così in finale ci è arrivata Kalinskaya, dalle qualificazioni, eliminando sulla sua strada ben tre campionesse slam, con un solo set perso: prima di Swiatek, Gauff e Ostapenko. Rybakina, che in questo inizio di stagione è la giocatrice che ha collezionato più partite vinte e titoli, si è ritirata senza giocare il quarto di finale con Paolini, dopo due partite in cui non aveva brillato.
Certo che Rybakina sarebbe stata pericolosa, se fosse scesa in campo. Ma non come può sembrare su carta. I loro confronti diretti, giocati tutti negli ultimi dieci mesi, erano 1 a 1. Si sono incontrate per la prima volta a Roma, che è stato un torneo particolare per entrambe: Rybakina avrebbe vinto il titolo, il primo importante su terra, coronando con una corsa incredibile la miglior stagione della sua carriera. Paolini invece aveva appena raggiunto il secondo turno in un torneo per la prima volta dopo mesi di difficoltà. Ci sono 61 posizioni di ranking, 24 cm di altezza di differenza tra di loro, e in teoria quantità smisurate di fiducia. Ma quella sera, sul campo centrale del Foro Italico, contro l’avversaria più forte incontrata in tutto l’anno Jasmine gioca la sua miglior partita: perde, ma conduce un primo set più che alla pari, arrivando a condurre il tiebreak 4-2.
Da quella partita cambia qualcosa: Rybakina subisce un calo fisiologico e non riesce più a mantenere lo stesso livello nei tornei successivi; mentre la stagione di Paolini si accende. Con un tennis ritrovato, in poche settimane vince il titolo a Firenze, fa finale in Croazia e a Palermo - dove il cuore e il sudore spesi in campo una maratona dopo l’altra valgono anche più del titolo. Poi i quarti al 1000 di Cincinnati, dopo aver pareggiato i conti con Rybakina che si ritira prima della fine del secondo set.
Da quel momento in poi è stato evidente. Paolini è entrata tra le prime trenta giocatrici del mondo, da lì si è aperta la strada e non si è più fermata. Complice il calendario, che le ha permesso di rimanere a lungo sulla sua superficie preferita, il veloce, ha giocato una semifinale in Cina, poi a Monastir (in un torneo che si chiama come lei! Jasmin Open. Oltretutto il nome Jasmine viene dalla pianta del gelsomino: una delle sue varianti è il gelsomino invernale, originario della Cina, che in inverno fiorisce di un tappeto di fiori gialli.). Qui ha conquistato la finale in singolare e titolo in doppio con Sara Errani. A novembre, appena qualche giorno prima della Davis, ha trascinato l’Italia fino alla finale di Billie Jean King Cup dove mancava da nove anni. All’inizio di quest’anno, dopo un’ottima United Cup, all’Australian Open è arrivata fino agli ottavi senza perdere un set, in un quarto di tabellone dove erano cadute tutte le teste di serie.
Era stata proprio Anna Kalinskaya, a gennaio, a fermare la corsa del miglior slam della sua vita, con un netto 64 62. Per questo trovarsela davanti nella finale di Dubai, anche al posto di Swiatek, non era necessariamente una bellissima notizia. Per la prima finale di livello 1000 della carriera, meglio affrontare una numero 1 strafavorita con cui giocarsi il tutto per tutto da underdog, oppure un’altra esordiente, appena più giovane e inesperta e quindi teoricamente battibile, ma che ha vinto in modo netto l’ultimo confronto diretto?
Non è raro nel tennis assistere a brutte finali: partite a senso unico, fatte di errori, condizionate dalla tensione. Si dice siano uno sport a sé; che serve un po’ di esperienza (chiedete pure a Tsitsipas). E invece, oltre all’impresa, Jasmine Paolini può vantare di averci regalato anche una bellissima finale. Ha vinto 46 75 75 tenendoci con il fiato sospeso fino all’ultimo minuto, rimontando il match, e pure il terzo set, dove era stata sotto sin dal break subito in apertura. Non ha smesso un solo istante di crederci, non ha mai tremato. Nemmeno Kalinskaya, a dire la verità, ha sofferto la tensione: ha cercato subito di imporre il controllo, gestendo in fretta gli scambi, per non dare ritmo all’avversaria. Hanno giocato due ore di tennis serrato, a un ritmo che rendeva ridicola la presenza dello shot clock. Jasmine si è fatta strada nella partita, usando i colpi da fondo, aggressività, resistenza, e la forza di volontà, continuando a parlarsi e caricarsi punto su punto.
Il bello delle partite di Paolini è che il suo agonismo è trascinante: è come se in ogni partita riuscisse a superarsi, giocando sempre un po’ oltre il livello che sembra spettarle, spinge sé stessa da dentro spostando il limite più lontano. Il suo tennis è di prima qualità, ma spesso sembra riesca a battere le avversarie per il coraggio con cui le sfida al loro stesso gioco, guardandole dritte negli occhi, ergendosi alla loro statura. A Dubai l’ha messo in chiaro nella partita di primo turno con Haddad Maia, rifilando un 60 al terzo alla regina dei deciders; nel secondo turno con Leylah Fernandez si è presa la rivincita della finale di BJK Cup - anche qui ha vinto ogni set in rimonta, con strisce di game serrate, a togliere spazio a una giocatrice che fa del togliere il tempo la sua arma migliore. Stesso andamento con Sakkari, numero 11 del mondo ed ex 3.
Il dritto è il colpo più spettacolare. Paolini ha chiuso la finale con più vincenti che errori, e per tutto il torneo, dalla prima partita e fino all’ultimo game, è andata a colpire in anticipo, a tutto braccio, salendo sopra alla palla anche quando le avversarie la spingevano fuori dal campo sulla diagonale stretta. Con sprezzo dell’idea di rischio, e di qualsiasi situazione di punteggio. Senza nulla togliere al rovescio, con cui ha lo stesso timing immacolato, tiene perfettamente tutte le direzioni, e può fare anche molto male, il dritto è un colpo che merita di essere considerato di primissima categoria. Le appartiene: le esce dalla racchetta non solo sicuro, ma con un’invidiabile naturalezza. Il suo gesto è coordinato, libero e ordinato allo stesso tempo: il gomito alto nel caricamento è da Next Gen, crea spazio e poi si estende fluido in avanti, con una scioltezza quasi sfrontata.
L’unico indizio dell’inesperienza delle finaliste a Dubai erano i loro coach, Renzo Furlan per Jasmine Paolini e Patricia Tarabini per Anna Kalinskaya. Al posto del folto team che accompagna i top player, loro erano sugli spalti soli, seduti sul bordo della sedia, protesi verso il campo, quasi senza battere ciglio per non perdere un istante di partita. Raccontando più di qualsiasi altro aspetto perché la cerchia dei vincitori e delle vincitrici dei tornei di alto livello sia così ristretta, e di difficile accesso. Difficilmente i top player si spostano con meno di tre persone al seguito, che possono diventare più del doppio in occasione degli slam. Jasmine ha ringraziato a distanza anche il suo preparatore, Andrea Bracaglia, che senz’altro ha avuto un ruolo importante nel costruire il periodo di continuità e ottima condizione fisica che sta attraversando; come pure Tathiana Garbin e tutte le altre persone che lavorano con lei. Ma qui sta una misura determinante del tennis contemporaneo: o puoi investire nel tuo percorso, o la tua fortuna dipende da chi decide di investire in te.
Paolini nel discorso di premiazione ha raccontato che prima dei quarti Patricia Tarabini, la coach di Kalinskaya, l’ha fermata per dirle che si sarebbero incontrate in finale - e lei le ha risposto “Sei matta?”.
Non era scontato che Jasmine Paolini potesse diventare una giocatrice in grado di competere a questo livello sul veloce. Per una giocatrice di piccola statura, il rimbalzo alto di ogni buon servizio potrebbe rappresentare un problema. Per lei oggi è una sicurezza, la superficie che sceglie a occhi chiusi, e ha dimostrato addirittura di preferire il cemento asiatico rispetto a quello americano, normalmente considerato un po’ più lento. E questo testimonia quanto sia cresciuto nel tempo tutto il suo gioco, compresa la risposta, e il servizio. Come testimonia anche la qualità del lavoro fatto con Renzo Furlan, e come il piano che lui ha saputo vedere per Paolini fosse giusto e lungimirante.
Paolini ha da poco compiuto ventotto anni, non è giovanissima, ma in Italia è la più giovane ad aver vinto un torneo WTA di alto livello. Le italiane sono sempre state late bloomer: Schiavone e Pennetta si sono passate il record di tennista più anziana ad aver vinto il primo slam, da 29 a 33 anni. Spesso nelle interviste capita di sentirle raccontare che il momento in cui hanno capito di poter diventare professioniste, o almeno in cui hanno deciso di provarci, è arrivato intorno ai 14, 15, 16 anni, che è relativamente tardi (e che spinge a chiedersi cosa avrebbero potuto fare se il loro potenziale fosse stato visto prima).
Furlan è suo coach a tempo pieno dal 2020, ma la conosce e la segue da molto, dai tempi del centro tecnico federale di Tirrenia. Furlan, ex numero 19 ATP (il best è del 1996, quando Jasmine nasceva), è stato il tennista con cui Riccardo Piatti ha deciso di lasciare la Federazione e intraprendere un percorso da coach privato - che poi è diventato a sua volta direttore tecnico federale, guidando, guarda caso, il progetto Campi veloci.