Quando lo scorso anno i Golden State Warriors hanno fatto le valigie e abbandonato la vecchia Oracle Arena in favore del raffinato Chase Center, per Oakland è stato come un tradimento. La città sulla baia - che ospitava la squadra dal 1971 - è una delle realtà più appassionate di questo sport e produce talenti di grande livello a getto continuo. In questo contesto sono nate leggende come Bill Russell e sono cresciute icone del basket contemporaneo come Damian Lillard. La città si trova sul versante opposto della baia e, al posto della nebbia che avvolge spesso San Francisco, a Oakland il sole splende quasi sempre. Si tratta di un luogo tradizionalmente difficile ma pervaso da grande carattere e da una secolare tradizione afro-americana che ha prodotto grandi risultati in campo artistico e, come abbiamo accennato, anche dal punto di vista cestistico. In questi ultimi anni la città ha vissuto un periodo di grande rinascita e ha cominciato ad attirare di nuovo turisti e importanti investimenti, un rilancio difficile da immaginare nei tumultuosi anni '90.
L’unica Mecca del gioco rimasta in servizio è Mosswood Park che al massimo del suo splendore aveva poco da invidiare ai migliori playground metropolitani. Un decennio forse irripetibile ha visto crescere da quelle parti una generazione di giocatori di assoluto valore. Su quel campetto si sono incrociati Gary Payton, Antonio Davis, Brian Shaw, J.R. Rider, Greg Foster e Demetrius "Hook" Mitchell, quest’ultimo mai arrivato in NBA a causa di una serie di scelte sbagliate e degrado che ricordano da vicino la vicenda di Earl Manigault a New York. A fare da spalla alle esibizioni di Mitchell durante gare delle schiacciate che sono entrate nella mitologia e di cui abbiamo solo dei resoconti verbali, qualche volta faceva capolino anche Jason Kidd. Il classe 1973 è il più giovane di questa comitiva, arriva dalle zone più altolocate della città e inizialmente viene accolto con diffidenza. La famiglia Payton su impulso del padre (il celebre “Mr. Mean”, autorità indiscussa del playground e organizzatore di molte leghe amatoriali) lo accoglie sotto la sua ala protettrice e lo tiene lontano dai pericoli di un ambiente difficile, del quale conquista in breve tempo lo scettro di attrazione principale.
La progressione è quella di un predestinato e lo scenario che lo circonda per certi versi è simile agli affreschi che dirige negli stessi anni Spike Lee. Il talento fisico è la prima cosa che lo differenzia in modo sostanziale dai coetanei: testimonianze attendibili parlano di schiacciate entrate a far parte del suo repertorio verso gli 11 anni di età. Dopo aver abbandonato il calcio - che aveva eletto a sport principale durante la sua infanzia -, quando comincia a cimentarsi con un pallone a spicchi è talmente dominante da giocare regolarmente contro ragazzi più maturi di 5 o 6 anni. Se il tam tam della Grande Mela aveva trasformato Stephon Marbury, Kenny Anderson e Felipe Lopez in figure celebri anche nel resto del paese ben prima dell’approdo in NCAA, quello di Oakland cerca di non essere da meno. I Golden State Warriors vengono attirati dalla sua leggenda locale e in più occasioni lo invitano al palazzetto per confrontarsi direttamente con Chris Mullin e Tim Hardaway quando è ancora un imberbe minorenne. Don Nelson, uno che di playmaker se ne intendeva, ne nota subito le qualità fuori scala.
Notre Dame: la cattedrale della Kidd-Mania
Al principio del percorso c’è una robusta dose di playground insieme a un gioco modellato sulle caratteristiche di Magic Johnson e del bello stile dello Showtime. Il chiaro imprinting di quei Lakers accompagnerà Kidd per tutta la carriera: quando approda a Notre Dame per iniziare la sua avventura liceale assomiglia a un giocatore professionista intrappolato in un'età anagrafica di 14 anni. Coach Frank LaPorte assiste incredulo alle gesta di un talento ancora acerbo ma già in grado di orchestrare i celebri contropiedi che diventeranno presto il suo marchio di fabbrica. Laporte si confronta con diversi scout e con con il giornalista Mitch Stephens, che da metà anni '80 è uno dei più celebri cronisti cittadini a livello di basket locale. Molti anni più tardi Stephens rivelerà che, dopo aver visto giocare dal vivo Gary Payton, Brent Barry, Drew Gooden e Jeremy Lin al loro ultimo anno, nessuno di loro si avvicinava vagamente al livello di Jason da matricola. Nel giro di due anni Kidd completa la sua evoluzione fisica e arriva fino a 195 centimetri, una quota che esalta la sua visione periferica. Domina dal punto di vista delle letture tecniche e in campo aperto è semplicemente inarrestabile.
Al terzo anno conduce il suo liceo al titolo statale e comincia ad attirare un pubblico che in occasione delle gare più importanti arriva a sfiorare le 15.000 unità. Viaggia a medie di 25 punti, 12 rimbalzi e 8 assist ed entra stabilmente a far parte della cultura popolare cittadina. L’anno successivo i numeri sono molto simili, ma la crescita tecnica è molto importante e affonda le sue radici in un'estate passata ad allenarsi con i fidati Gary Payton e Brian Shaw, rifinendo gli aspetti meno convincenti del suo repertorio. Il tiro da fuori resta la lacuna più evidente e qualche maligno comincia a chiamarlo “ason” eliminando la “J” iniziale per sottolineare le carenze con il jump shot. Nel frattempo insieme a un altro titolo statale arriva anche il premio di miglior liceale del paese. Gestire il flusso di agenti, reclutatori e addetti ai lavori che fanno spesso visita al campo di Notre Dame diventa quasi impossibile, ma Kidd risponde alla pressione meglio del previsto: è sempre molto abile con i giornalisti e respinge le sirene di Don Nelson che gli suggerisce di saltare il college per tentare la strada diretta verso la NBA. Sin da giovane sfoggia una convincente semplicità e molto buon senso, doti che in futuro gli faranno spesso difetto.
Tra lo stupore di molti addetti ai lavori scarta numerose borse di studio universitarie da parte degli atenei più prestigiosi e sceglie di percorrere una strada molto diversa dalla traiettoria dei migliori prospetti locali. Decide infatti di rimanere vicino a casa e di giocare di fronte agli amici di infanzia e la comunità che lo ha sempre supportato indossando la maglia dell’Università della California, situata su una collina della città. Una scelta criticata da molti addetti ai lavori ma accolta con molto favore dalla gente di Oakland, che ormai sembra legata a doppio filo alle sorti del suo nuovo simbolo.
Il pretzel & California
I Golden Bears prima del suo approdo languivano in una situazione di persistente mediocrità e rovesciare le sorti della squadra portandola a un rinnovato splendore non è sfida semplice. Una situazione che mette sotto pressione la scuola e lo stesso protagonista, chiamato ad affrontare un compito tutt’altro che semplice con tutti gli occhi della nazione puntati addosso. Coach Lou Campanelli sembra pronto a capitalizzare al meglio la grande possibilità e appronta per l’occasione un quintetto con due matricole e due secondo anno, un approccio abbastanza rischioso per la natura conservatrice dei tempi.
Il suo impatto nel basket collegiale è devastante e rimette i Golden Bears sulla cartina geografica delle eccellenze cestistiche. La squadra mette in fila cinque vittorie consecutive nelle prime uscite e per la prima volta in assoluto comincia farsi strada la percezione di come Jason riesca a elevare il rendimento di compagni abbastanza modesti. Le sue finte e le sue esitazioni in palleggio portano l'intrattenimento a un altro livello, ma la sua innegabile concretezza soddisfa anche i puristi più intransigenti. Il suo approccio miscela bene gli aspetti più ludici della generazione X che tanto spaventano la tradizione e finisce per portarli a braccetto.
A dispetto del buon inizio, la enorme pressione di Oakland e dei giornali finisce per pesare sulle sorti di una stagione che rischia di essere una delle più importanti della storia dell’ateneo. Coach Campanelli si è costruito un buon nome grazie a un rendimento nettamente superiore ai suoi predecessori, ma i suoi metodi motivazionali al vetriolo entrano in rotta di collisione con una squadra molto giovane e inevitabilmente immatura.
Con un record di 10-7 e un paio di sanguinose sconfitte, la dirigenza della scuola prende la decisione di licenziare il coach, un provvedimento che scatena i media sportivi e finisce per alimentare tensioni ed equivoci che a distanza di molti anni finiscono ancora nei tribunali. Le ricostruzioni della vicenda sono arrivate a scenari fantasiosi, ma è probabile che lo stile di gioco controllato e metodico di Campanelli non abbia trovato il sostegno di Kidd e di parte delle nuove leve. Il ruolo del giocatore di riferimento in questa vicenda non è mai stato chiarito del tutto, ma la sua immagine pubblica comincia a risentire di un certo appannamento. Con un radicale cambio tecnico la squadra si riprende lentamente e ottiene la seconda apparizione nel torneo NCAA in trent'anni di attività. Kidd, con una media di 13 punti, 5 rimbalzi, 7 assist e quasi 4 recuperi, ottiene altri riconoscimenti su scala nazionale e per quasi tutti è il miglior esordiente del paese.
Nel torneo California affronta al primo turno Louisiana State University. Con il punteggio fermo sul 64 pari il nuovo coach Todd Bozeman chiama un timeout e gli consegna su un piatto d'argento la responsabilità dell’ultimo tiro. Kidd attacca il ferro con energia e conclude con uno strano layup pieno di effetto che trova il fondo della retina. In conferenza stampa il tiro viene felicemente ribattezzato “pretzel shot”, un nome destinato a riecheggiare spesso nei playground della città. Galvanizzati dalla vittoria, i Golden Bears buttano fuori anche i campioni in carica di Duke, anche grazie a un altro tiro miracoloso nel bel mezzo dell'area congestionata di una delle migliori difese del paese.
La cavalcata si conclude con una uscita di scena contro Kansas alle Sweet 16, in un anno nel quale è riuscito a rispettare le grandi attese e le speranze dell’intera comunità trascinando la squadra ben oltre i propri limiti.
In estate Jason comincia a lavorare furiosamente sul suo tiro da fuori che mai come in questo momento appare un problema a tutti gli effetti. La malizia degli allenatori collegiali ha esposto in modo evidente il suo tallone d'Achille, ma i mesi spesi a lavorare sui particolari e nuove routine per affinare la sua meccanica pagano dividendi. I progressi balistici e un anno di esperienza gli consentono di portare il suo dominio a un altro livello e di segnare con più facilità rispetto al passato. Accumula 16.7 punti, 7 rimbalzi e 9 assist con un incoraggiante 36% nel tiro da tre e finisce per inerzia nel miglior quintetto della stagione con la solita incetta di riconoscimenti individuali. Il gruppo si affaccia nuovamente al torneo ma escludendo il contributo del compagno di riferimento Lamond Murray, la maggior parte del roster non riesce a supportare la sua stella. Una brutta sconfitta contro Wisconsin al primo turno segna la fine della sua avventura romantica con California, ma non certamente la storia con la gente di Oakland di cui resterà il figlio prediletto.
La telenovela di Dallas
Quando si dichiara eleggibile per il Draft del 1994 il suo nome finisce tra il primo e il terzo posto dei vari Mock, entrando in competizione con Glenn “Big Dog” Robinson e il solito Grant Hill con cui aveva già equamente condiviso le copertine al college. Lontano dal “principato” cittadino che lo aveva ricoperto di attenzioni e coccolato, cominciano ben presto i problemi di adattamento. I Dallas Mavericks lo scelgono alla seconda posizione assoluta nonostante qualche piccolo screzio tra squadra e giocatore che precede la firma e che comincia a suonare come un campanello di allarme. A metà degli anni '90 la lega è ancora alla ricerca di equilibrio tra la nuova generazione poco incline ai compromessi nei primi anni di carriera e la fragilità di una struttura in rapida espansione. Le incomprensioni tra Penny Hardaway e Shaquille O’Neal a Orlando e le tensioni tra Alonzo Mourning e Larry Johnson a Charlotte mostrano chiaramente i limiti di franchigie deboli e poco attrezzate.
Dallas è una delle peggiori destinazioni del periodo (nel 1993-94 aveva rischiato di battere il record di 73 sconfitte dei Sixers del 1972) e, pur avendo visto la luce negli anni '80, paga una pessima gestione del personale, a cui si aggiunge un cambio di proprietà che complica le gerarchie. Kidd infonde nuova linfa ai derelitti Mavs e in contrasto con il suo approccio immaturo trascina una squadra mediocre a un miglioramento di 20 vittorie rispetto alla stagione precedente. La squadra è costruita sulle “3 Js” (in aggiunta a lui i giocatori di riferimento sono Jamal Mashburn e Jim Jackson) e grazie al nuovo playmaker quasi tutti i componenti del roster vivono la miglior stagione della loro vita. Kidd trascende i numeri e sfoggia un gioco che anticipa le tendenze della lega degli anni successivi: ha lampi di genio e improvvisazioni artistiche come il miglior Jason Williams, ma raramente eccede con i virtuosismi. Sembra il ponte ideale tra il rigore di John Stockton e i Globetrotter in grado di far saltare il pubblico sulla sedia grazie a passaggi e soluzioni fantasiose. Insieme a questo va a rimbalzo come un'ala, in difesa è in grado di difendere su una vasta tipologia di avversari e migliora tutti quelli che lo circondano. Vince il titolo di matricola stagionale in coabitazione con il sodale Grant Hill e pretende apertamente di ricevere le chiavi della squadra.
Alla fine della prima stagione si scatenano i contrasti nel trio delle “3 Js” che si accusano a vicenda di una serie di mancanze professionali. Se all’epoca fossero esistiti i social network i vostri feed sarebbero stati inondati dalle dichiarazioni a mezzo stampa su base quotidiana di questo terzetto. Nonostante i rapporti tesi, Kidd è già entrato nel salotto buono e al secondo anno è convocato a furor di popolo alla partita delle stelle. Mette a referto quasi 17 punti a partita, 9.7 assist (che valgono la seconda posizione di specialità), 7 rimbalzi e oltre due palloni recuperati per sera. Le percentuali non fanno gridare al miracolo e si attestano sotto al 40%, anche se il tiro da fuori si dimostra più solido delle previsioni. Trasforma George McCloud (che migliora di quasi 10 punti la media personale) in un realizzatore affidabile, ma traghettare la squadra a un record vincente si dimostra un'impresa ai confini della realtà. I risultati deludenti generano ancora liti che sfociano in una serie di scioperi verbali, con Jason che rifiuta di parlare con questo o quel compagno dopo gli screzi in spogliatoio. A margine di comportamenti discutibili, sotto la sua guida la squadra realizza 735 triple su oltre 2.000 tentativi, un attestato alla sua modernità.
Un aspetto sorprendente del suo repertorio consiste nelle variazioni di ritmo quando guida la transizione offensiva e la capacità di congelare per qualche istante la sua azione quando sta per scoccare un passaggio no-look. Si tratta di una specie di illusione ottica che strega il pubblico e cristallizza come in una fotografia il momento in cui la palla sta per lasciare le sue mani. A metà anni '90 porta in scena una serie di passaggi-baseball che nessuno aveva nemmeno immaginato e una collezione inedita di scarichi in emergenza nei pressi del canestro degni di una forma di arte popolare. La stragrande maggioranza degli esterni negli anni successivi saccheggerà senza remore le gemme mostrate nella sua avventura ai Mavericks, trasformandolo in uno dei modelli tecnici più studiati nella storia recente del gioco. Se qualche passaggio fuori dalla solita routine vi ha fatto impazzire in tempi recenti è probabile che sia farina del suo sacco, almeno come soggetto originale. La sua capacità di produrre triple doppie cambia il paradigma dell’esterno rimbalzista e comincia a incoraggiare scenari avanguardisti con quattro guardie e un pivot di riferimento.
La possibilità di mettere assieme la ragione e il sentimento non bastano però a compensare il clima che si respira in spogliatoio. Quando la proprietà opera uno scontato cambio in panchina, la giovane stella polemizza per non aver preso parte al processo decisionale. Entra in aperto contrasto con il nuovo coach Jim Cleamons, tanto per cambiare si rifiuta di parlare con lui dopo un diverbio in allenamento e infine lancia un ultimatum per la cessione di Jim Jackson (“Allontanate lui o scambiate me”) che compromette definitivamente la sua avventura. Dallas prova a normalizzare il clima di guerra civile mentre i giovani di riferimento continuano a lanciarsi accuse sui giornali e a fornire un pessimo esempio. La stampa arriva a ipotizzare un clamoroso triangolo sentimentale tra la cantante Tony Braxton, Kidd e lo stesso Jackson. Una semplice leggenda metropolitana che provoca ulteriore confusione e accelera la cessione del prodotto di Oakland che ovviamente ha molti ammiratori pronti a concedergli volentieri una seconda possibilità.
La crescita esponenziale a Phoenix
Nel dicembre del 1996 lascia il Texas per approdare in Arizona, ai Phoenix Suns. L’esordio con la nuova squadra non è però dei più fortunati a causa di un infortunio alla caviglia che lo tiene fuori da campo per 21 partite. Dopo un recupero laborioso, le sue ultime 32 apparizioni in stagione regolare sono più che sufficienti per portare la squadra nei playoff. L’organizzazione solida guidata da Jerry Colangelo e la voglia di cancellare le intemperanze texane danno vita a uno periodi più tranquilli e produttivi di tutta la sua carriera. A Phoenix mette da parte molte delle licenze artistiche esibite in precedenza e si focalizza dal principio nella nobile impresa di far salire di livello compagni di talento già molto elevato. Il fisico da uomo bionico è al massimo del suo splendore e se un tiratore è ben posizionato, il passaggio arriva sempre immancabilmente a destinazione grazie al suo radar a 360 gradi. Tra le varie caratteristiche spicca un trattamento del pallone molto più sofisticato dai suoi contemporanei grazie a una pulizia del palleggio che omaggia e richiama la vecchia scuola delle stelle NBA degli anni '60 e '70.
I playoff del 1997 sono i primi a cui partecipa e, per ironia della sorte, gli avversari che si trova di fronte sono i Seattle Supersonics del suo mentore Gary Payton. Tra steccature insospettabili e prestazioni maiuscole trascina i suoi all’ultima gara disponibile, costringendo la squadra favorita a esplorare in pieno i suoi limiti. La sua nobiltà tecnica e la solita versatilità sono un tesoro che il nuovo coach dei Suns Danny Ainge riesce a capitalizzare in modo molto efficace. Phoenix gioca una small ball ad alto voltaggio che anticipa i tempi e vede impegnati allo stesso tempo quintetti con Kevin Johnson (anche lui prodotto di California), un giovane Steve Nash e Rex Chapman con Kidd pronto a lavorare contro i lunghi avversari nella sua metà campo difensiva. Il centro di riferimento con questa strutturazione è Antonio McDyess, che comincia a beneficiare ben presto dei passaggi del suo playmaker. A dispetto delle previsioni la squadra registra un eccellente record di 56-26 e nella post-season una nuova sconfitta al primo turno viene accolta con la giusta filosofia, vista la oggettiva difficoltà di contrastare il grande tonnellaggio che i San Antonio Spurs possono vantare grazie alla coppia formata da Tim Duncan e David Robinson.
Phoenix è in una fase di transizione e, con la partenza di McDyess sul mercato estivo, non ha una stella di prima grandezza da affiancare al suo leader. Nash ha lasciato la città per cercare fortuna a Dallas e i giocatori più affidabili del roster restano Clifford Robinson e un Tom Gugliotta che ha già imboccato il viale del tramonto. Nell’anno del lockout, Kidd guida la squadra ad un record positivo (27-23), giocando oltre 41 minuti a sera e ritoccando verso l'alto la maggior parte dei suoi record statistici.
La mira nel tiro da fuori continua a progredire: le sue prestazioni gli valgono l’inclusione nei migliori quintetti stagionali e attestano la definitiva consacrazione a miglior playmaker della NBA. La prevedibile nuova sconfitta al primo turno, stavolta per mano dei Portland Trail Blazers, accende qualche polemica ingenerosa, ma il roster dei Suns impedisce particolari voli pindarici. Colangelo migliora il potenziale del gruppo con la scelta felice di Shawn Marion nel Draft successivo e con la sorprendente acquisizione di Penny Hardaway pronto a formare una coppia di esterni da sogno.
La stella dei Suns riprende l’annata 1999-2000 sulla falsariga della precedente e nel mese di dicembre registra 4 triple doppie, anche se Penny si dimostra abbastanza lontano dal giocatore che aveva incantato la lega anni prima. Tra febbraio e marzo il gruppo sta veleggiando comunque nelle alte sfere della Western Conference quando Kidd è costretto a fermarsi per un infortunio e la dirigenza, per tamponare la sua assenza, richiama l’attempato Kevin Johnson dal ritiro agonistico. I Suns affrontano buona parte del primo turno dei playoff senza il loro leader, ma i San Antonio Spurs campioni in carica sono una preda facile, anche loro privi del loro leader Tim Duncan.
Kidd torna giusto in tempo per affrontare un proibitivo secondo turno contro i Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal che non offre molta storia. La stagione successiva è segnata dai suoi problemi familiari con la moglie Joumana che sfociano in un episodio di violenza domestica. Dopo aver saltato qualche gara a metà stagione per salvare il suo matrimonio, mette a referto una serie di partite oltre i 30 punti e finisce in grande crescendo, ma non trova risposte nei playoff contro i Sacramento Kings che lo costringono al 30% dal campo. Colangelo sta lavorando da mesi per scambiarlo e il clima in città ormai si è fatto molto teso.
Al vertice con New Jersey
La scelta di Phoenix di metterlo al bando per un'immagine pubblica che fa discutere diventa la fortuna dei Nets, che per i suoi servigi si liberano volentieri della presenza di Stephon Marbury. La perla di Oakland è nel momento migliore della carriera e a dispetto di un anno complicato resta una delle maggiori attrazioni della lega. Kidd in New Jersey trova finalmente la continuità e dei compagni capaci di sfruttare le sue illuminazioni fino in fondo.
Con una Eastern Conference complessa ma molto più abbordabile rispetto alla Western, dove non bastano 50 vittorie per una stagione da protagonisti, gli scenari che si aprono sono intriganti. Kidd è in stato di grazia e gioca con un'ispirazione tecnica e un senso estetico che non sfoggiava dalle prime uscite con i Mavericks. I Nets tecnicamente parlando sono una squadra mono-dimensionale, ma con un tasso di verticalità sopra la media e una facilità di corsa da riferimento assoluto. Richard Jefferson, Kenyon Martin e Kerry Kittles sono dei giocatori in cerca d’autore e di un leader tecnico che risponde perfettamente all’identikit di Kidd.
La nuova stella della squadra trasforma una massa informe di qualità atletiche in una corazzata pronta a puntare al titolo. Nasce il Flying Circus: una ricetta a base di transizione, difesa aggressiva e la capacità di volare sopra il ferro astutamente esaltata dalle visioni e dai passaggi incredibili di Kidd. Nella prima stagione l’urgenza di aggredire la partita in ogni momento e la capacità di incidere sotto ogni voce statistica trasportano le sue qualità ad un livello ancora superiore e scioccano buona parte degli analisti. La sua intensità frutta un record di 52-30, che migliora la classifica dell’anno precedente di ben 26 partite. New Jersey si toglie i panni della cenerentola e comincia ad attirare i tifosi e l’ammirazione degli appassionati neutrali, che restano rapiti da uno stile di gioco coinvolgente e soprattutto divertente. Nei playoff viaggiano spediti e solo nella Finale di Conference contro i Boston Celtics Kidd è costretto a fare gli straordinari. Chiude la serie con una tripla doppia di media e un'aggressività che finisce per spegnere lentamente le legittime ambizioni dei biancoverdi.
La prima finale della sua carriera si chiude con una prevedibile sconfitta per mano dei Lakers di Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, che agguantano il terzo anello consecutivo con una squadra nettamente superiore a quella avversaria. Kidd rende incerte un paio di partite con la sua classe ma è costretto a sventolare bandiera bianca in quattro gare. New Jersey riparte l’anno successivo con l’aggiunta di Dikembe Mutombo per aumentare il ventaglio delle opzioni dei lunghi nelle partite più spigolose e con la consapevolezza di essere una contender in piena regola. Nella strada verso la nuova finale gli emergenti Detroit Pistons sono spazzati via con un perentorio 4-0 e nemmeno i soliti Boston Celtics e i Milwaukee Bucks riescono a spezzare il ritmo del passatore più efficace in circolazione. Kidd si staglia sulla Eastern Conference da dominatore assoluto anche se la critica continua a ignorare le sue prestazioni e sceglie ancora una volta di assegnare il premio di giocatore dell’anno a Tim Duncan. La sua maglia, in compenso, diventa un must assoluto.
I Nets si giocano l’anello proprio contro i San Antonio Spurs e, nonostante il cast di supporto attorno a Jason Kidd sia più convincente rispetto alla precedente finale contro i Lakers, c’è ben poco che New Jersey possa fare per sovvertire lo scontato pronostico. I campioni della Eastern Conference conquistano una grande vittoria esterna in Gara- 2 ma ancora una volta sono costretti a cedere il passo. Due sconfitte consecutive nelle Finals sono il punto più alto della storia della franchigia e contemporaneamente il picco della carriera individuale di Kidd. Il quale però in estate si trova di fronte a un bivio, visto che il suo contratto è ormai prossimo alla scadenza e il mercato gli offre la possibilità di giocare in una squadra da titolo. Proprio gli Spurs infatti hanno lo spazio salariale per firmarlo: giocare in coppia con Tim Duncan versione MVP e gestire il backcourt con Manu Ginobili e Tony Parker sembra un'occasione assolutamente imperdibile. I texani sognano di allestire una squadra quasi imbattibile e di allungare grazie a lui la striscia di successi. Quando le indiscrezioni lo vogliono vicino a firmare per i nero-argento, lui però con un colpo di scena annuncia la volontà di restare ai Nets per venire incontro ai desideri della sua consorte.
Il declino dei Nets
La scelta di vita si rivela dal principio un pessimo affare dal punto di vista tecnico e dalle prime battute della tornata 2003-04 comincia un lento ma inesorabile declino che elimina la squadra dal lotto delle migliori. Mantiene comunque un efficacia che lo conferma nell’olimpo assoluto del ruolo, ma il gruppo lo segue con meno convinzione e accusa un certo logorio mentale e fisico dopo due anni di selvaggia intensità. Il mercato ha portato in dote Alonzo Mourning come espressamente richiesto dall’uomo franchigia, ma i problemi di salute limitano il suo contributo a 12 malinconiche apparizioni. I rapporti degradano velocemente ed emergono frizioni che ancora una volta scatenano il lato oscuro già dimostrato a Dallas e nel licenziamento di Lou Campanelli. Con un mediocre record di 22-20 salta la panchina di Byron Scott che trova difficile giustificare alla dirigenza il crollo di produzione a rimbalzo (quasi ultimi in assoluto) e il netto peggioramento della fase offensiva, di solito il vero punto di forza. Il coach paga come capro espiatorio un apparente ammutinamento che coinvolge i veterani più rappresentativi e ovviamente lo stesso Jason, che non nasconde le sue perplessità sulla gestione degli schemi e sulle capacità di analisi dello stesso Scott.
Lo spogliatoio impone il giovane Lawrence Frank come successore, un assistente che alla soglia dei 33 anni non ha mai guidato una squadra di livello simile. Il cambio di gestione e la maggiore attenzione ai dettagli del nuovo arrivato contribuiscono a ricompattare un ambiente che dopo un avvio incerto torna a esaltarsi dietro la leadership del giocatore di riferimento. La stagione si chiude vicino alle 50 vittorie grazie a una convincente seconda parte dell’anno che lascia presagire la possibilità di comparire nella Finali per il terzo anno di fila. Il sogno si infrange quando il ginocchio sinistro di Kidd comincia a fare i capricci e a limitare in modo evidente la sua corsa. Diversi specialisti cercano di migliorare la situazione e vengono provate varie terapie che però non portano a risultati apprezzabili. I Nets pur con qualche affanno tornano a disputare l’atto conclusivo della Eastern Conference in una sorte di rivincita con i Detroit Pistons che stavolta riescono a rimontare da una situazione di 3-2 e conquistare la serie. Kidd conclude malinconicamente la gara decisiva senza canestri dal campo, con un ginocchio ormai fuori servizio e la sensazione di aver perso l’ultima occasione buona.
L’inevitabile operazione chirurgica ottiene un successo insperato, anche se questo infortunio deteriora progressivamente le qualità di uno dei migliori atleti NBA. Il mercato porta in dote l’ingaggio di Vince Carter e la partenza di Kenyon Martin, il bersaglio preferito della maggior parte dei compagni. A causa di una serie di problemi fisici dei componenti del roster e la difficile integrazione del nuovo arrivato, la squadra cede il passo alle forze emergenti e si ritaglia un ruolo di secondo piano nelle gerarchie a Est. Quando Frank prova a costruire una squadra impostata su Vince Carter con dei nuovi principi di gioco a metà campo e ripudiando il classico contropiede, i risultati sono semplicemente disastrosi. I Nets restano in un limbo che li vede troppo deboli per impensierire le contender ma al tempo stesso abbastanza competitivi per qualificarsi agevolmente ai playoff. Kidd continua a produrre stagioni di grande qualità ma l’ascesa di Steve Nash e di Chris Paul fanno notevolmente diminuire le attenzioni che i media gli rivolgono. Affronta con grande carattere le serie con i Miami Heat di Dwyane Wade nel 2006 e quella contro i Cleveland Cavaliers di LeBron James nel 2007, ma senza riuscire a sovvertire il pronostico avverso. Nel febbraio del 2008 quando è in vista dei 35 anni accetta la proposta di Mark Cuban e torna a Dallas via trade.
La redenzione con i Mavericks e l’anello NBA
Kidd torna in una franchigia che ormai è diventata tanto funzionale quanto moderna e che spera di conquistare il titolo anche grazie alla sua esperienza. I primi mesi, tanto per gradire, non sono semplici e sfociano in una serie di contrasti con coach Avery Johnson che restano sempre sotto il rigoroso controllo della dirigenza. La sua prima stagione completa nel nuovo ambiente è molto più incoraggiante perché l’upgrade che i texani effettuano in panchina con la firma di Rick Carlisle cambia in positivo tutti gli scenari. Il nuovo allenatore cerca di proteggere i limiti fisici a cui Kidd sta cominciando a pagare pesantemente dazio e con il suo benestare vara una fase offensiva che media alla perfezione le sue esigenze di gestione “controllata” con le ambizioni della squadra. L’appoggio sincero alla miglior guida tecnica della sua carriera è molto importante per la definitiva affermazione di un allenatore universalmente apprezzato ma considerato troppo rigido. Il suo tiro da fuori dopo quasi venti anni di continui perfezionamenti gli permette di garantire flessibilità al gioco dei compagni e mascherare il più possibile i limiti di un primo passo sfiorito. Con una paziente cesellatura tattica, un grande roster e finalmente la presenza di un fuoriclasse come Dirk Nowitzki, tutti i tasselli sembrano posizionati al punto giusto.
Alla veneranda età di 38 anni e con 17 stagioni sulle spalle arriva finalmente un titolo NBA grazie alla straordinaria cavalcata di Dallas nei playoff del 2011 in cui veste i panni del giocatore di ruolo a supporto del collettivo. La maggior parte dei selezionati al Draft del 1994 hanno appeso le scarpe al chiodo da tempo quando uno dei migliori interpreti della sua generazione conosce finalmente la soddisfazione di conquistare il prezioso anello. Sorretto dalle alchimie della difesa a zona di Rick Carlisle, affronta anche qualche missione speciale in quella post-season e riesce a limitare avversari come Kobe Bryant, LeBron James e Russell Westbrook. La sua versatilità si dimostra un elemento essenziale per una impresa che rende giustizia alla sua classe.
La difesa del titolo si dimostra proibitiva l’anno successivo per la partenza di Tyson Chandler e di J.J. Barea, due elementi vitali nel puzzle dei Mavs. Resta ancora un anno in Texas e nel 2012-13 firma per i New York Knicks per soddisfare le sue esigenze familiari. Contro ogni previsione disputa un'altra annata di livello dove spesso resta in campo con minutaggi incredibili per un atleta con il suo chilometraggio. Contribuisce a un record di 54 vittorie, ma il carico di lavoro in stagione regolare penalizza tremendamente il suo contributo nei playoff: siamo ormai al capolinea. Per una sorta di romantica coincidenza anche Grant Hill si ritira negli stessi giorni chiudendo un cerchio ideale tracciato oltre 20 anni prima.
Eredità
La considerazione di cui gode Kidd al giorno d’oggi è probabilmente poco generosa in relazione al sua lungo percorso. Il prodotto di Oakland ha perso diverse occasioni a causa del carattere passivo-aggressivo ma se analizziamo la sua generazione, buona parte degli eccessi e dei vari screzi con gli allenatori non sono certamente casi isolati. Quando Gary Payton è approdato a Seattle è stato gestito da veterani di lungo corso che non hanno esitato a metterlo in riga dopo ogni bravata e soprattutto da un allenatore solido come K.C. Jones abituato a negoziare con la personalità di Larry Bird. Jason è finito in una franchigia in pieno caos che ha contribuito ad accentuarne i difetti e nelle sue incarnazioni successive ha trascinato sulla soglia delle 50 vittorie squadre discrete che senza il suo contributo non avrebbero avvicinato quel tipo di risultati. Quando ha risollevato la storia dei Nets con due finali consecutive ha trasformato Kenyon Martin in un giocatore degno dei primi venti della lega. Quando è riuscito a disporre del talento di Vince Carter non ha potuto contare su un cast di supporto consistente. Nessuno dei contemporanei ha saputo mescolare come lui elementi di dominio in difesa, letture da passatore sublime, stile accattivante e rendimento a rimbalzo.
Gary Payton si è probabilmente avvicinato a lui più di chiunque altro anche se i media tendono a concentrare le maggiori attenzioni su Steve Nash e Chris Paul quando provano a cercare una efficace pietra di paragone. Questi splendidi giocatori hanno brillato in contesti migliori e con allenatori spesso molto sopra la media. Nash ad esempio si è imposto giocando con Dirk Nowitzki e Michael Finley a Dallas e quando si è trasferito a Phoenix ha beneficiato del contributo di Mike D’Antoni e di compagni come Amar'e Stoudemire e Shawn Marion nel momento migliore della loro carriera. Paul ha collaborato per molti anni con Doc Rivers e protagonisti nel “prime” come Blake Griffin e DeAndre Jordan ai Clippers, dove ha imposto uno stile di gioco molto veloce che ha similitudini con quello dei Nets di Kidd, divenendo a rigor di logica forse è il rivale che ha molti più punti in comune. Quei Clippers però sotto la patina di innegabile squadra di culto non hanno mai superato il secondo turno a causa della solita tosta concorrenza nella Western. La bandiera dei Golden Bears ha perso l’occasione della vita quando ha rifiutato la corte dei San Antonio Spurs: un ambiente granitico con Tim Duncan vicino gli avrebbe regalato una bacheca e forse una considerazione molto più corposa.
Jason Kidd resta in ogni caso nettamente inferiore a livello realizzativo rispetto a questa prestigiosa compagnia, ma dominare con pochi canestri dal campo è sempre stata la sua specialità più apprezzata. Il dono innato di trasformare in cecchini dei mestieranti di relative ambizioni ha un fascino decisamente in linea con John Stockton, ma si sposa male con le qualità che fanno la differenza nelle valutazioni di oggi. Al momento del ritiro ha chiuso il sipario al secondo posto nella classifica di tutti i tempi sia negli assist che nei palloni rubati dietro ovviamente al playmaker dei Jazz. Ha vinto la classifica di miglior passatore della lega per cinque volte e accumulato un numero stratosferico di apparizioni nei migliori quintetti stagionali con la bellezza di dieci All-Star Game. Per decenni ha calamitato attenzioni e risentimenti che hanno penalizzato anche la sua avventura da allenatore e pagato molto una critica che lo ha molto rispettato, ma poco amato.