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Dario Vismara

Jayson Tatum, un leader al servizio dei Boston Celtics

In questi playoff sta mettendo la squadra davanti al proprio ego da stella.

Jason Kidd risponde a una domanda su Jaylen Brown con il suo solito tono di voce basso e monocorde. Sembra poter essere l’ennesima risposta banale a una delle tante questioni che gli vengono sottoposte nelle mille conferenza stampa che scandiscono i tempi delle Finals, ma sa benissimo cosa sta per fare. Dopo qualche secondo di pausa, comincia la sua risposta dicendo: «Beh, Jaylen Brown è il loro miglior giocatore».

 

Kidd prova a dissimulare quello che ha appena fatto continuando a elogiare il numero 7 dei Boston Celtics parlando del suo impatto sulle due metà campo come se fosse una risposta normale, ma le sue parole ci mettono pochissimo a essere smascherate come un tentativo, forse già disperato, di creare zizzania all’interno dello spogliatoio avversario.

 

Da anni ormai la coesistenza tra Brown e Jayson Tatum è l’argomento di discussione principe all’interno e soprattutto all’esterno dei Celtics, forse l’unico davvero in grado di catturare l’interesse delle persone visto che nessuno dei due è considerato come uno dei volti di punta della NBA. Il discorso attorno a Tatum e Brown ci mette un attimo a diventare tossico, creando ad arte delle polemiche di poco conto tipo quella sulla reazione-non-entusiasta di Tatum al momento dell’incoronazione di Brown come MVP delle finali della Eastern Conference. O quella, persino ancora più scema, su chi sia il vero maschio alfa della squadra.

E quando si parla di polemiche sceme, basta accendere il Perkins-segnale.

 

Jason Kidd sa tutto questo e ha cercato di minare le certezze di una squadra che non perde ormai da un mese ai playoff, arrivando alle Finals con un record di 12-2. Dopotutto stiamo parlando di un allenatore che in passato ha chiesto a un suo giocatore di colpirlo apposta mentre teneva un drink in mano per guadagnarsi un timeout che non aveva, nonché di una delle menti cestistiche più brillanti che si siano mai viste su un campo da gioco. Se c’è anche solo un piccolo vantaggio da poter ottenere in conferenza stampa, tanto vale cercare di ottenerlo.

 

Le sue parole però non hanno minimamente sortito l’effetto sperato, anzi. Sia Brown che Tatum sono stati perfetti nelle loro risposte alla provocazione di Kidd a livello comunicativo. Tatum in particolare, che era evidentemente il bersaglio delle frecciate di Kidd visto che è stato lui a essere nominato nel primo quintetto All-NBA della stagione, ha mostrato una maturità sorprendente: «Capiamo il motivo per cui le persone cercano di creare tensioni tra di noi, immagino che sia una cosa intelligente da provare a fare. Ma è da tanto tempo ormai che cercano di separarci dicendo che uno di noi due deve essere ceduto o che uno è meglio dellaltro. Non è il nostro primo giro di giostra», ha detto mentre si stiracchiava in conferenza stampa, come se stesse parlando dei cereali che aveva mangiato al mattino. Brown è stato altrettanto sicuro nel rispedire al mittente ogni polemica: «Dobbiamo impedire che qualsiasi interpretazione esterna si metta tra di noi».

 

Parole che non avrebbero avuto lo stesso peso, però, se non fossero state accompagnate dai fatti. Come ha ammesso lui stesso, in un altro momento della sua carriera Tatum avrebbe preso sul personale le parole di Kidd, cercando di dimostrare in campo di essere il miglior giocatore dei Celtics e di riaffermare il suo status in una lega che non sembra apprezzarlo come meriterebbe per quello che ha fatto e per quello che sta facendo. Come aveva detto anche LeBron James nella prima puntata del suo podcast con JJ Redick, su Tatum più di tanti altri suoi coetanei ci sono aspettative gigantesche, dimenticandosi di quello che ha già vinto e dimostrato in carriera. «Tutti vogliamo vederlo arrivare fino in fondo, ma il suo palmares è già élite. E quando ti prepari ad affrontare Boston, lui è il primo della lista dello scouting report». 

 

Le aspettative impossibili sulle spalle di Tatum

Da Tatum ci si aspetta che sia sempre il miglior realizzatore dei Celtics, che ne sia il principale trattatore di palla e gestore dei possessi più importanti, che metta in ritmo i suoi compagni (né Holiday né White, per quanto straordinari, sono necessariamente delle point guard pure), che in difesa cambi su tutti i blocchi e marchi qualsiasi avversario senza ricevere aiuto, che vada forte a rimbalzo reggendo contro lunghi spesso più pesanti di lui, che batta l’uomo dal palleggio e attacchi il ferro senza accontentarsi del tiro in sospensione, che non salti neanche una partita, che sia leader e guida dell’intera franchigia — forse anche della lega intera visto che è l’unico membro del primo quintetto All-NBA a essere statunitense.

 

Chiariamoci, non è un peso inusuale per una superstar di quel calibro, ma Tatum a differenza di altri deve farlo meglio di Jaylen Brown perché altrimenti gli viene rinfacciato di non essere il leader della squadra. Ci sono momenti in cui Tatum e Brown vengono trattati come due piloti della stessa scuderia di Formula 1, in diretta competizione tra di loro prima ancora che col resto della pit lane. Accumulate una sopra l’altra, sono un bel po’ di responsabilità da dover sopportare.

 

Dopo la sconfitta in gara-2 contro Cleveland, questo era il tenore della conversazione attorno a Tatum.

 

Per questo la sua serie finale fino a questo momento merita di essere celebrata più di quanto non si stia facendo. Certo, Tatum sta indiscutibilmente tirando male: nelle prime due partite ha tirato 38 volte e ha segnato solo in 12 occasioni, sbagliando 10 delle 14 triple tentate, prendendosi dei brutti tiri concettualmente prima ancora che come realizzazione tecnica. In difesa è stato anche più poroso rispetto a quanto siamo stati abituati a vederlo, venendo “scelto” da Doncic in qualche occasione come punto debole da attaccare (o forse, considerando quanto è straordinaria la difesa di Boston, come il punto meno forte) sui cambi difensivi. E la gestione del pallone non è certamente stata ideale, perdendo per nove volte la palla, di cui alcune particolarmente sanguinose nei quarti periodi.

 

Detto tutto questo, bisogna però parlare delle tantissime altre cose che Tatum sta facendo a livelli altissimi — cioè praticamente tutto il resto. Nessuno ha distribuito 17 assist come lui nelle prime due gare della serie e con il suo altruismo ha permesso all’attacco dei Celtics di macinare punti anche quando le percentuali da tre punti li hanno abbandonati come in gara-2. Jason Kidd avrà anche definito Brown come il miglior giocatore dei Celtics, ma la prima preoccupazione della sua difesa è sempre cosa fare contro Tatum, riempiendo l’area sulle sue penetrazioni anche a costo di lasciare liberi i tiratori sul perimetro o avversari sotto il canestro.

 

Osservate quante volte ci sono due giocatori contro Tatum e lui riesce a uscirne con un assist che regala un canestro facile al compagno. Nella grande gara-2 di Jrue Holiday c’è anche lo zampino delle attenzioni che Tatum attira su di sé e i suoi miglioramenti nel riconoscere certe situazioni che in passato avrebbero esposto i suoi limiti di playmaking.

 

Tatum è anche andato fortissimo a rimbalzo specialmente in difesa, negando quello che sulla carta poteva essere un vantaggio per i Mavs nel procurarsi seconde opportunità, anche perché spesso gli viene chiesto di marcare il lungo avversario (Gafford, Lively o Kleber che sia) per poter cambiare sui pick and roll che coinvolgono Doncic e Irving, e negare la fonte primaria di vantaggi dell’attacco dei Mavs. Se Doncic ci ha messo una partita e mezza per trovare gli assist a cui è abituato è anche per il lavoro di Tatum nel negargli certe soluzioni, invitandolo ad attaccare a destra per togliergli il ritmo che è solito prendersi con l’amato step back. Ci vuole lucidità per eseguire così bene il piano difensivo e Tatum la sta dimostrando anche in una serie — e in una cavalcata playoff, visto il 29% con cui sta tirando da tre punti — in cui finora non gli sta entrando niente di niente, con percentuali che avrebbero frustrato e mandato fuori di testa tanti altri giocatori, in primis lui stesso anche solo pochi anni fa.

 

La maturità di chi ha perso

Se i Celtics riusciranno a suggellare con un titolo una stagione in cui hanno dominato la concorrenza — 78 vittorie e 20 sconfitte sommando regular season e playoff, allungando a 9 la striscia di successi in fila ai playoff dopo la vittoria in gara-2 — è anche per la maturità dimostrata da Tatum, che in un anno di pieno prime della sua carriera ha accettato di fare un “passo indietro” per il bene della squadra. Il numero 0 in regular season ha segnato oltre 3 punti in meno rispetto a un anno fa, accettando di prendersi meno tiri, prendere meno rimbalzi, guadagnarsi meno liberi e in generale condividere molto di più il pallone (quasi 5 assist di media, massimo in carriera) mettendo con i fatti il bene della squadra davanti al suo orticello personale. Un sacrificio non banale per un giocatore che, con altre cifre, avrebbe potuto candidarsi al premio di MVP, considerando il record di squadra avuto dai Celtics quest’anno.

 

Ai playoff lo ha fatto ancora di più, scendendo a patti con le percentuali che non vogliono saperne di riequilibrarsi — solo in tre partite su 16 finora ha toccato o superato il 50% dal campo, mentre sei volte ha tirato sotto il 40% — per dare spazio agli altri, in primis Brown. Il quale ha meritatamente vinto il premio di MVP delle finali di conference contro Indiana, ma Tatum ha comunque viaggiato a 30-10-6 di media nelle quattro partite, non esattamente un rendimento banale pur con basse percentuali al tiro. Come ha detto anche coach Mazzulla dopo gara-2: «Jayson fa sembrare facile la grandezza».

 

Sono state però proprio le parole di Tatum dopo gara-2 a mostrare quanti passi in avanti abbia fatto dal punto di vista della leadership nonostante abbia appena compiuto 26 anni, sottolineando come la sconfitta di due anni fa contro Golden State — in una serie in cui ha giocato indiscutibilmente male — sia la base da cui è ripartito per affrontare quella di quest’anno. «Sono già arrivato fino alle Finals senza riuscire a vincere, perciò ora che siamo così vicini al nostro obiettivo, perché dovrei mettere in mezzo il mio ego o la mia necessità di segnare tutti i punti?», ha detto retoricamente alla stampa. «Ci saranno dei momenti in cui dovrò segnare e ovviamente devo tirare meglio, golly. Ma parliamo sempre di fare tutto il necessario per vincere per tutto il tempo che serve. Se avere 16 assist potenziali ogni singola sera è quello che ci mette nella miglior condizione per vincere e questo significa che non sarò io il miglior realizzatore, ditemi dove devo firmare».

 

Essere il leader non significa aver segnato più punti degli altri compagni sul tabellino, ma aver messo la squadra nelle migliori condizioni di vincere: Jayson Tatum fino a questo momento ha dimostrato esattamente questo. Ed è proprio per il fatto di essere disposto a non vincere il premio di MVP delle Finals che si trova a due vittorie dal conquistare il primo titolo NBA della sua carriera.

 

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Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).