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Marco D'Ottavi

J.J. Redick, dai podcast alla panchina dei Los Angeles Lakers

Il tutto con zero esperienza da allenatore.

«Non ho mai allenato in NBA… non so se lo sapevate ragazzi». Come se fosse l’introduzione di una puntata di uno dei suoi podcast, J.J. Redick inizia con una battuta per attirare l’attenzione. Alle sue spalle però non c’è una delle tante stanze in cui ha registrato The Old Man and The Three, ma un muro griffato Los Angeles Lakers; né accanto a lui LeBron James con una bottiglia di vino per una nuova puntata di Mind the game, ma un ingessato Rob Pelinka, il GM della franchigia più famosa dello sport americano. 

 

Se non seguite il basket NBA e non sapete bene di cosa stia parlando, la notizia è più o meno tutta qui: J.J. Redick è passato dal condurre due podcast di successo e fare l’analista televisivo ad allenare i Los Angeles Lakers. 

 


Redick il comunicatore 

Soprattutto questo passaggio è avvenuto proprio grazie al suo lavoro da podcaster e analista, visto che Redick, come ripetuto all’infinito da tutti in questo mese di trattative, non ha nessun tipo di esperienza nel ruolo di capo allenatore in nessun tipo di squadra, né in quello di assistente, GM, scout o magari video coordinator. 

 

Subito dopo aver smesso di prendere triple in giro per l’NBA, infatti, Redick ha iniziato la sua carriera nei media. Era il 2021, c’era la pandemia, e il mondo dei podcast stava crescendo rapidamente. Come a molti di noi, a Redick è bastato rimediare un microfono, una connessione internet decente e iniziare a registrare. Certo, alla prima puntata del suo The Old Man and The Three lui aveva come ospite Damian Lillard (e questo è banalmente il motivo perché, soprattutto negli Stati Uniti, i podcast degli ex giocatori sono così frequenti e seguiti). 

 

Ascoltando Redick, però, è stato facile accorgersi che la sua idea di podcast era molto più profonda e dettagliata del mettere insieme atleti milionari che si annoiano e farli chiacchierare a ruota libera. La sua capacità di analizzare il gioco e raccontarlo, la brillantezza del suo linguaggio, ma anche il bell’aspetto e il look sempre curato, lo hanno reso rapidamente uno degli analisti più seguiti negli Stati Uniti. Il passo successivo è stato, ovviamente, la televisione, dove le sue capacità comunicative risaltano ancora di più e dove si è ritagliato un ruolo da “antagonista” dei Stephen A. Smith e Kendrick Perkins, la frangia più “estremista” nelle trasmissioni più famose, arrivando fino a commentare le ultime Finals.

 

 

Questo, insomma, è il bagaglio di esperienze con cui il 13 maggio, alla NBA Draft Combine di Chicago, Redick si è seduto a un tavolo per un primo incontro con Rob Pelinka, il GM dei Lakers. I due poi si sarebbero incontrati di nuovo circa un mese dopo, insieme Jeanie, Joey e Jesse Buss (i proprietari dei Lakers), più alcuni dei maggiori azionisti dei Lakers per il colloquio decisivo. In questo resoconto di The Athletic, i colloqui di Redick vengono definiti da diverse fonti vicine ai Lakers come “impressionanti”. Redick avrebbe vivisezionato a fondo la sua filosofia di gioco, mostrando grande passione e capacità di analizzare l’attacco e la difesa dei Lakers. Inoltre avrebbe fornito una visione strategica innovativa per quanto riguarda le possibilità future del roster (come coinvolgere di più Davis, far tirare di più da tre LeBron, usare Austin Reaves nei giochi a tre, ma per questa parte ci sarà tempo in futuro).


Vista così, con una punta di cattiveria, o invidia, si può dire che Redick abbia convinto i Lakers ad assumerlo grazie alla sua abilità davanti a un microfono. Quanta differenza ci può essere infatti tra un colloquio per un posto da capo allenatore e un’analisi approfondita del gioco di una franchigia NBA per una puntata di un podcast? Noi speriamo molta ma magari non è così.

 

Solitamente nel processo di scelta contano anche, se non di più le esperienze precedenti, i risultati da capo allenatore o da assistente, oppure le raccomandazioni di chi ha lavorato con te. Redick però non poteva portare niente di tutto ciò al tavolo delle trattative, ma soltanto la sua naturale capacità di comunicare, di saper cioè – a parole – esprimere al meglio le sue idee e la sua visione sulla pallacanestro. 

 

Da podcaster a capo allenatore

È questa la grande scommessa da parte della dirigenza dei Lakers: credere che le evidenti capacità di analisi e divulgazione di Redick possano funzionare anche all’interno di uno spogliatoio NBA.

 

Il loro non è il primo salto nel vuoto nella storia della NBA, i precedenti però non sono incoraggianti: Steve Nash, forse il parallelo più calzante, messo ad allenare i Brooklyn Nets di Irving, Harden e Durant praticamente solo per il suo carisma (e per i rapporti con quest’ultimo) ha fallito malamente, così come ha fallito Derek Fisher. Altri come Jason Kidd ci hanno messo un po’ a ingranare. C’è un esempio di grande successo che è molto citato in questi giorni, ovvero Steve Kerr. Per quel che vale però, prima di sedersi sulla panchina degli Warriors, Kerr aveva lavorato molti anni come GM a Phoenix.

 

È quindi lecito chiedersi cosa abbia spinto i Lakers a una scelta così rischiosa, che stride anche con quella che era l’alternativa. La prima scelta per la panchina era infatti Dan Hurley, che si è guadagnato la fama di allenatore geniale grazie al sistema sviluppato a UConn, con cui ha vinto gli ultimi due titoli NCAA. Hurley però ha rifiutato la ricca offerta dei Lakers per restare al college.

 

Dan Hurley, che è stato anche ospite del podcast di JJ Redick.



Una risposta è che non c’erano molte alternative: al momento in NBA non ci sono disponibili allenatori con il giusto pedigree per interessare i Lakers (l’unico nome uscito era quello di James Borrego) e affidare la panchina a un assistente avrebbe significato ripetere l’operazione fatta con Darvin Ham (e quindi allora tanto valeva tenersi Ham, che non ha fatto poi così male). A questo punto i Lakers devono aver pensato che tanto valeva provare qualcosa di totalmente nuovo, qualcuno che – vallo a sapere – ha magari il potenziale per creare una cultura vincente e una nuova legacy in una squadra che ha costruito la sua fama proprio su allenatori di questo tipo.

 

Non si può infatti ignorare che stiamo parlando dei Los Angeles Lakers, una franchigia che per storia, DNA e cultura, insegue questo tipo di grandezza quasi spirituale, e che non ha mai disdegnato un colpo con un grosso impatto mediatico. Anche per questo, come riportato sempre da The Athletic, all’interno dei Lakers il riferimento per Redick è Pat Riley, passato dalle radiocronache alla panchina (ma con due anni da assistente) diventando l’artefice dei Lakers dello Showtime, lì dove sono nate le fondamenta del mito. 

 


Secondo Zach Lowe, Redick ha una mente abbastanza analitica da competere già oggi con molti allenatori NBA.  

 

Nella conferenza di presentazione Redick non si è nascosto, accettando le pressioni che derivano da tutto questo. Ha detto di voler «diventare un grande allenatore e vincere dei titoli NBA», e che saranno lui e i giocatori a dover creare una squadra che può competere per l’anello. Sicuramente Redick ha il carisma per farsi ascoltare dai giocatori – in tutto il racconto su di lui come podcaster che diventa allenatore ci stiamo scordando che comunque è un ex giocatore NBA molto rispettato per la sua carriera – e la brillantezza per rapportarsi con i giornalisti, due caratteristiche che non fanno male nel ruolo, soprattutto dovendo stare sotto i perenni riflettori di Los Angeles. 

 

Ma realisticamente quali sono le possibilità dei Lakers? Il roster non sembra essere così competitivo e il prossimo anno l’Ovest sarà un incubo. Idealmente la scelta di Redick dovrebbe essere quella di costruire un grande allenatore con il tempo, ma per definizione i Lakers non hanno tempo. L’obiettivo è ancora massimizzare le ultime stagioni di LeBron James e, nonostante a 40 anni sia ancora uno dei migliori della Lega, è difficile pensare che possa aspettare che Redick impari il mestiere in una squadra mediocre.

 

Basterà vedere, ad esempio, cosa faranno delle tre prime scelte che hanno a disposizione: accetteranno di usarle nei draft futuri per creare un core giovane o le sacrificheranno per arrivare a qualcuno da mettere vicino a Davis e LeBron? Sicuramente la seconda, se ne avranno l’occasione. 

 

Staremo a vedere

Inoltre è impossibile non considerare nella scelta di Redick la parola di James. L’influenza del prescelto sulle squadre in cui ha giocato, dalla scelta degli allenatori a quella dei compagni, è da sempre l’argomento preferito dei suoi critici. Da una parte il “LeBron GM” non è sempre stato lucido, dall’altra è anche l’unico appiglio per andare contro al miglior giocatore, per distacco, di questa epoca. Sebbene lui abbia prontamente smentito qualunque coinvolgimento in questa storia, e lo stesso ha fatto Redick, i due hanno un podcast insieme, che è la cosa più vicina a un grado di parentela senza essere parenti. Dovesse essere un fallimento, James finirà inevitabilmente per pagarne le conseguenze (per non parlare se, domani, al secondo giro del Draft i Lakers dovessero chiamare il figlio). 


In ogni caso Redick è sembrato il primo a essere consapevole di tutto questo, di essersi ritrovato sulla panchina più difficile della NBA quasi per caso, perché qualcuno ha voluto scommettere in maniera significativa sul suo personaggio e sulle possibilità, remote o meno, che si porta dietro. E anche per questo che sarà scrutinato all’infinito, dentro e fuori dal campo. Subito dopo la prima conferenza stampa, più di qualcuno
ha storto il naso perché ha abusato della parola “fuck”, mentre ieri è stato accusato su Twitter da una sua compagna di college afroamericana ai tempi di Duke di averla chiamata con la N-word. Un accusa prontamente smentita di Redick, ma che sta facendo il giro di internet (e che forse non avrebbe girato così tanto se non fosse diventato il nuovo allenatore dei Lakers).

 

 

Per il resto, come si dice in maniera banale, parlerà il campo. Nel basket, e più in generale nello sport, è una continua ricerca di figure rivoluzionarie capaci di cambiare, se non il gioco, almeno il destino di una squadra. A Los Angeles sperano sia Redick, e lo sperano perché hanno visto con quanta competenza e passione ha intrapreso un ruolo da divulgatore. È obiettivamente una decisione coraggiosa, e da spettatori non possiamo che essere contenti: sarà sicuramente la storia più interessante della prossima stagione. Lui intanto ci ha tenuto a far sapere che, per il momento, i suoi podcast vanno in pensione. Staremo a vedere se avrà fatto bene a passare dal microfono alla panchina.

 

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Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.