Nel documentario di Agnes Varda La vita è un raccolto le persone vivono di scarti. La spazzatura nei cassonetti di Parigi, le patate sgraziate buttate dalla raccolta in Normandia, le mele ammaccate fuggite dai banchi alle fine del mercato. Le persone sono immortalate nell’eterno e modesto gesto del chinarsi, raccogliendo (“spigolando”) ciò che la fretta e l’incuria ha gettato a terra. In una società che produce in eccesso, devono pur esserci persone che vivono e si nutrono di avanzi. Ma il cibo ha la fortuna di essere organico: se non trova la bocca di qualcuno marcisce, ritornando alla terra. Il ciclo della sua vita lo esaurisce prima che possa diventare osceno, una fortuna che non tocca invece agli oggetti.
Il passare del tempo è l’accumulazione di cose. Le nostre case si riempiono di oggetti, i cassetti, le scatole, barattoli di carta, di latta, di vetro. Dentro le cianfrusaglie, le chincaglierie, oggetti di pessimo gusto finiti nella nostra vita per caso. Quando ce ne vogliamo disfare li buttiamo in cantina, in soffitta, nel box auto. Poi arrivano gli spigolatori - gli svuotacantine, i rigattieri - a portarseli via, cercando di restituirgli faticosamente una nuova vita di merci.
Le spigolatrici, di Jean-François Miller.
I mercatini delle pulci raccolgono le merci al loro stadio terminale, oggetti arrivati ormai alla coda esausta del loro ciclo. Non hanno più niente da offrire, sono brutali nella loro inutilità, puri e semplici oggetti materiali. Alcuni di loro però contengono il ricordo della vita precedente cui appartenevano, sono detriti di mondi scomparsi, pezzi di memoria, e quindi, a modo loro, sono storie. Al mercato di Porta Portese tutto può diventare merce: una maglietta della maratona di Lugano del 2004, una vecchia giacca di lavoro dell’AMA, coltelli da cucina, una stampa naturalistica di tucani, cravatte di topolino, set di tazzine di porcellana, cavi di ogni tipo e occhiali da sole quasi tutti uguali.
Certi banchi sono piccoli musei di vite passate, di case arredate con un gusto anacronistico e dimenticato, di un modo di usare le cose ormai scaduto. Buttati alla rinfusa su questi banchi si possono trovate fogli di carta scritti fitti fitti con calligrafie personali, sono lettere di qualcuno a qualcun altro, contengono racconti, descrizioni, piccoli flirt, dinamiche relazionali a cui non possiamo accedere. Guardandole, mi sono chiesto perché sono lì; le vite degli altri, oggi, sono facilmente mercificabili, ma come possono esserlo questi patetici brandelli strappati a un passato morto? Forse, da qualche parte, c’è uno scrittore che sta lavorando a un romanzo epistolare tratto dalle lettere trovate a Porta Portese.
Qualche domenica fa, imboccando la via d’uscita del labirinto trasteverino con le gambe lesse, getto qualche occhiata distratta agli ultimi banchi, quando noto un campo da tennis. È sempre scioccante il potere attrattivo che hanno, al primo impatto visivo, gli scenari degli sport che ci sono più cari; il verde smeraldo del prato da calcio, il rosso argilla della terra del tennis. È uno di quei banchi spogli, che somigliano ai teli allestiti dai bambini al parco; ha spille kitsch, bicchieri di rame, posacenere di marchi di sigarette, orologi a cipolla e poi, a lato, fotografie buttate a casaccio di una partita di tennis. Un intero rullino dedicato al match degli Internazionali di Roma tra John McEnroe e Mats Wilander, una ventina di foto, non so scegliere quale comprare. Ce n’è una in cui, durante un cambio campo, Wilander passa molto vicino all’obiettivo che lo fotografa, con la ricciolutissima testa china. Ha l’aria triste e riflessiva che hanno i tennisti che cambiano campo con centinaia di occhi addosso. L’unico essere umano che guarda dentro sé stesso in uno stadio in cui tutti guardano lui. Sto quasi per comprarla, quando mi accorgo di una foto di John McEnroe al servizio.
Si avvicina l’uomo unto che gestisce il banco: ha i capelli grassi, la barba di tre giorni e inizia a elencarmi i giocatori di quegli anni: «Si sfidavano sempre, McEnroe, Wilander, Lendl, Becker». Snocciola questi nomi come fossero una preghiera, si tengono insieme l’uno con l’altro come le perle di una collana. Vuole ricostruire il mondo che rende quelle fotografie degne di importanza, o anche solo dimostrarmi che quella cosa sia realmente accaduta; ma non è istinto mercantile, solo il gusto di farlo, di raccontare, visto che quando gli chiedo quanto costano ha un’esitazione, come se fosse l’ultima domanda che si aspettasse. Dice “bo, un euro”, è offeso che io voglia dare un valore economico a quella fotografia, o che io voglia comprarla?
Compro la foto di McEnroe al servizio perché non c’è nessuna immagine più iconica nella storia del tennis. Nessun gesto tecnico riesce a esprimere in modo tanto perfetto la presenza di un tennista. Anche la storia di come McEnroe lo ha brevettato racconta il suo speciale modo di trovare la bellezza rovistando nel disagio. Un giorno, durante un torneo, aveva un dolore lombare, e quindi ha lasciato che il corpo cercasse sollievo in una strana contorsione. Una volta visto che funzionava, lo ha tenuto. Gli avversari restavano ipnotizzati davanti a quel movimento strambo; McEnroe dondolava con la racchetta in mano, tutto vibrante d’ansia e paura, prima di lanciare la palla in aria; poi si inarcava in diagonale, l’anca pendente verso il campo, le braccia tese, libere. Durante i brevi istanti del caricamento del servizio McEnroe scopriva tutto il corpo, e accettava di essere indifeso. Poi frustava la palla girandosi di novanta gradi, trovando angoli sempre imprevisti.
Nell’attimo in cui la foto è stata scattata, McEnroe sta per liberarsi della pallina dalla mano, ha già gli occhi rivolti verso il cielo. La sua figura è così girata che volta le spalle all’avversario. Indossa un completino Nike bianco con una fantasia orizzontale sul petto, scacchi azzurri e neri sotto altri scacci neri e bianchi come quelli della bandiera della Formula Uno. L’attaccatura dei capelli sta già retrocedendo, ma è coperta da un’ampia bandana blu di quelle classiche da motociclista. Sopra le scarpe, parallele alla riga, spuntano dei calzini bianchi con due bande blu, e poi le sue gambe, così poco toniche per essere quelle di uno sportivo di alto livello. Pallide e flosce abbastanza da fare una linea continua passando per il ginocchio. McEnroe, del resto, non aveva bisogno di sottoporre il suo corpo a grandi allenamenti: «Non ha mai pagato il prezzo» disse di lui Billie Jean King, con non trascurabile invidia.
Basterebbe guardare quelle gambe, contenute da calzoncini corti e mosci, per ricordarsi che si sta guardando una foto degli anni ’80, ma c’è altro. Gli sponsor sui cartelloni raccontano un’economia perduta: Banco di Roma, le sigarette Kim, col cerchio rosso sopra la stanghetta della ‘I’, Volvo, Tè Ati, addirittura, che stava nella credenza di nonna nella scatola rossa con la tazzina bianca fumante al centro. Le sigarette Kim non esistono più, nelle loro confezioni dall’eleganza orientale, la forma affusolata fatta per il mercato femminile. Sugli spalti si indovinano certi colori sgargianti indossabili a cuor leggero solo in anni leggeri. Una visiera bianca che spunta sopra una testa maschile, un maglione color salmone, dei pantaloni senape, un cardigan carta da zucchero sopra una camicetta bianca e un collier d’oro. Era un sabato a Roma, si indovina la luce metafisica del Foro Italico, le signore sono arrivate da Prati, da Piazzale Clodio, dai Parioli fresche di parrucchiere, i capelli ariosi che scendono sopra le spalle gonfie delle giacche.
Che fosse un sabato l’ho scoperto una volta tornato a casa, e ho cercato di riannodare la storia dietro questa fotografia. Non è stato difficile, scoprire l’unica volta in cui John McEnroe ha affrontato Mats Wilander sul campo di Roma. Era il 1987 e quella partita era una semifinale, arrivata però in momenti molto diversi della carriera dei due giocatori. Su terra, in quegli anni, Wilander era una macchina da guerra: veniva dalla vittoria a Montecarlo e sarebbe arrivato in finale al Roland Garros, perdendo di misura da Lendl. McEnroe, invece, beh, restava in giro per il circuito soprattutto assecondando interessi economici, suoi e degli altri, che in lui trovavano sempre qualche motivo di interesse. Scendeva in campo poco convinto, con in mano la sua Dunlop Max200g che gli ricordava che la fine dell’epoca delle racchette di legno era in fondo la fine della sua epoca. McEnroe giocava coi sensi aperti, il suo tennis era un’invenzione continua di angoli e traiettorie inesistenti fino al momento in cui non le creava lui. Per farlo cercava a fatica un equilibrio tra l’irrequietezza del suo stare al mondo e la calma precisa che il tennis richiede. McEnroe era la corda di un violino pronta a vibrare nel microcosmo di una partita di tennis. Nelle sue mani la racchetta di legno sembrava un arto nevrotico impossibile da controllare, con l’arrivo della grafite i suoi colpi hanno preso un’aria sorda e distante. Era impossibile entrare in contatto sensibile col mondo, sembrava di suonare una chitarra elettrica con la spina staccata.
Un anno e mezzo prima di quella partita di Roma John McEnroe si era ritirato.
Stava giocando al Madison Square Garden contro Brad Gilbert, ed era un incubo. Gilbert era, in un certo senso, il suo ritratto di Dorian Gray: nella sua bruttezza poteva vedere riflessi i propri difetti. Sgraziato, antipatico, mediocre, Gilbert aveva trovato il modo per sabotare il tennis dei suoi avversari fino a vincere le partite. Così era diventato un giocatore di alto livello, e così quel giorno stava battendo un avversario infinitamente più dotato di lui, che a ogni cambio cambio gli diceva «Non meriti di stare sul mio stesso campo, non dovresti proprio essere qui». Dopo aver perso, McEnroe era andato ai microfoni e aveva annunciato il ritiro: «Quando comincio a perdere contro giocatori come lui devo riconsiderare cosa sto facendo, il perché sto giocando a questo gioco». Era stato il capolavoro del gioco sporco di Gilbert: trascinare al ritiro uno dei due o tre giocatori più talentuosi della storia del suo stesso sport.
Un anno e mezzo dopo è in campo contro Mats Wilander, che invece doveva rispettare per forza, ma non per questo non lo esasperava. Se per McEnroe il tennis è stato una guerra, per Wilander era solo il più bel lavoro del mondo. Era bello come Borg ma senza il suo tormento interiore, era forte come Lendl ma tre volte più amato. Nel 1982 aveva perso da McEnroe una delle partite più lunghe della storia del tennis, un quarto di finale di Coppa Davis durato 6 ore: il pubblico aveva rinunciato a pranzare per vederli giocare, ma per l’ora di cena avevano lasciato gli spalti deserti. Dopo quella sconfitta però, mentre l’americano cercava di capire il suo posto nel mondo, per Wilander erano arrivati moltissimi successi. Era un uomo fortunato: nel 1988 era in Scozia pronto a partire per New York, ma un’iniezione di cortisone lo aveva costretto a cancellare il volo. Quell’aereo era il Pan Am 103 sul quale morirono 243 passeggeri e 16 membri dell’equipaggio per un attacco terroristico.
Quel giorno, a Roma, nel 1987, era il miglior giocatore in campo, per arrivare in semifinale non aveva perso nemmeno un set, mentre per McEnroe il viaggio era stato lungo e ridicolo. Al primo turno, contro l’argentino Franco Davin, stava già per tornarsene a casa. Una partita in notturna, Mac sotto di un set e di un break, finché al Foro Italico non cala il buio per un guasto elettrico. Cinquanta minuti di pausa che spezzano il ritmo dello sfidante, e che permettono a McEnroe di ritrovare la concentrazione e vincere. Il direttore del torneo era un amico del suo agente e aveva di proposito staccato l’elettricità (un episodio raccontato da McEnroe in persona pochi anni fa). Non era raro, per l’epoca, che i tennisti più amati venissero favoriti in ogni modo possibile. Si racconta che durante i sorteggi degli anni ’70 era stato escogitato un raffinato sistema per favorire Adriano Panatta: nelle stanze del circolo Parioli in cui veniva stilato il tabellone certe palline dei bussolotti venivano raffreddate e altre scaldate, in alcuni biglietti col nome buono veniva infilato uno spillo, e così via. Tutto per concedere al braccio d’oro del tennis italiano gli avversari più morbidi. Era una fortuna che John McEnroe fosse arrivato fino alla semifinale, ma contro Wilander quel giorno non c’era niente da fare, perse 6-1, 6-3.
Senza McEnroe la finale fu senza interesse. Wilander sfidò l’argentino Martin Jaite, spintosi a sorpresa fin lì, approfittando della disabitudine di Andre Agassi alla terra e del ritiro di Henri Leconte ai quarti. Si giocò sotto un cielo plumbeo e annoiato, e Wilander - spesso criticato per il suo gioco monotono - vinse senza problemi, in un Centrale per lo più disabitato.
Era la prima partecipazione di McEnroe al torneo di Roma, e quella contro Wilander fu l’ultima partita al Foro. Mi sono chiesto cosa avrebbe pensato, John McEnroe in persona, se passeggiando per Porta Portese si fosse imbattuto in una sua fotografia. Non è mai esistito nessuno sportivo più a disagio dentro i panni dell'oggetto dello spettacolo. McEnroe, che aveva una concentrazione elettrica, poteva ricordare il modo in cui era vestito uno spettatore in terza fila e sentiva sul suo corpo, come la merca del bestiame, gli occhi di ogni singolo tifoso sugli spalti. A proposito della sensazione dell'essere guardati in campo Boris Becker diceva: «Quelli non vogliono guardarti, vogliono possederti». La macchina fotografica moltiplica il senso di possesso dell'oggetto fotografato, tanto che i membri di certe società tradizionali rifiutano di essere fotografati per paura gli venga sottratta l'anima. Per Roland Barthes «La Fotografia (quella che io assumo) rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte (della parentesi): io divento veramente spettro». McEnroe sembrava aver sviluppato una suscettibilità estrema a questo senso di piccola morte, e quando girava per il campo, tra un punto e l'altro, si guardava attorno sospettoso e sofferente. Gli sembrava osceno prestarsi a quella mercificazione mentre in lui era in corso un'aspra battaglia con sé stesso. Pensandoci, comprare quella sua fotografia è stato un piccolo torto.
La persona che l'ha scattata è stata una delle poche testimoni in presenza dell'ultima partita di John McEnroe a Roma. Il rullino, una volta sviluppato, è stato infilato in qualche scatola, e la scatola in qualche cassetto, e poi nello sgabuzzino, prima di finire su un banco di Porta Portese in mezzo a una montagna di altre cianfrusaglie mute.