Che i Denver Nuggets in finale della Western Conference siano una clamorosa sorpresa è opinione comune, ma ad apparire ancora più sorprendente è il modo in cui i ragazzi di coach Mike Malone sono riusciti nell’impresa. La loro avventura in questa bizzarra post-season infatti non è cominciata proprio con i migliori auspici: il loro giocatore franchigia era bloccato in Serbia a risolvere i problemi legati al contagio da COVID-19; due uomini chiave come Will Barton e Gary Harris erano in forte dubbio a causa infortunio; e una discreta incertezza circa l’impostazione da dare alla squadra regnava sovrana.
Tra l’hype per i progressi di Bol Bol e la curiosità per il ritorno dall’Europa di un Nikola Jokic quasi irriconoscibile, la conclusione di regular season alquanto fiacca (3-5 il record nella bolla di Orlando, 8-10 quello complessivo dopo l’All-Star Game di metà febbraio) aveva fatto da preludio alla sfida contro Utah al primo turno dei playoff. L’accoppiamento con i Jazz, poco felice già sulla carta, si è rivelato da subito ostico anche nella pratica. Sorretti da un Murray celestiale, capace di infilare tre prestazioni da 50, 42 e ancora 50 punti nell’arco di una settimana, i Nuggets sono riusciti a invertire l’inerzia di una serie che sembrava non semplicemente una sconfitta, ma una vera e propria disfatta - una di quelle capaci di far saltare per aria l’intero progetto, a partire dal capo-allenatore. Il rientro, seppur ancora a mezzo servizio, di Gary Harris in gara-6 ha garantito un puntello difensivo cruciale per limitare Donovan Mitchell, fin lì incontenibile. E come per molte delle storie di successo tratte dal grande romanzo dell’epica sportiva, anche quella dei Nuggets è quindi dovuta rimbalzare su un colpo di fortuna.
Gli ultimi, incredibili 17.4 secondi di gara-7 in cui Conley sbaglia il tiro della vittoria salvando Torrey Craig dalla crocifissione postuma per il mancato sottomano in attacco.
Al turno successivo i Nuggets si sono trovati di fronte gli L.A. Clippers, che rimanevano per molti - soprattutto dopo l’eliminazione di Milwaukee - i favoriti nella corsa al Larry O’Brien Trophy. E la prima parte della serie ha confermato le previsioni, con Kawhi Leonard e compagni in controllo della situazione ma incapaci di infliggere a Denver il colpo del KO. Il resto del racconto è cronaca recente: la supponenza dei Clippers ha concesso agli avversari una chance di rientrare e i Nuggets, grazie all’ostinazione nel non arrendersi figlia della serie con Utah e a una continuità di gioco impressionante, hanno fatto sembrare logica, persino inevitabile una rimonta del tutto impossibile da pronosticare. Coach Malone si è aggrappato alle sue stelle, certo, ma anche giocatori come Paul Millsap, rinsavito dopo una permanenza ad Orlando alquanto mediocre, e Jerami Grant, sempre più ago della bilancia negli equilibri difensivi di squadra, hanno dato un contributo fondamentale per la rimonta.
Forse il momento chiave di gara-6 e dell’intera serie, quando la difesa dei Clippers ha cominciato a sgretolarsi.
Il fragore suscitato dal tonfo clamoroso dei Clippers ha forse fatto passare in secondo piano i meriti di Denver, perché il colpo di scena è stato tanto sensazionale quanto difficile da comprendere e ricomporre anche per i più scafati tra gli addetti ai lavori. In mezzo a tutto questo scompiglio, sembra esserci una sola certezza: i Nuggets viaggiano sulle spalle del duo Jokic-Murray. Al di là della cedevolezza degli avversari, dell’apporto dei cosiddetti gregari e degli aggiustamenti operati in corso d’opera dal coaching staff, la storia di questi playoff passa dal duo serbo-canadese. Una coppia che, almeno sulla carta, potrebbe rassicurare molti tra gli appassionati, in particolar modo quelli meno attratti dall’evoluzione della pallacanestro contemporanea e quindi ansiosi di ricondurre i successi di squadra al proverbiale asse play-pivot. Peccato che Jokic e Murray siano quanto di più distante dall’archetipo tradizionale di playmaker e centro.
Non è più l’asse play-pivot dei vostri padri
A ben vedere, invece che rassicurare conservatori e nostalgici, il duo Jokic-Murray sembra costruito apposta per smantellare le poche residue certezze su come andrebbe giocato il basket. L’identità tattica per molti versi unica dei Nuggets non è peraltro frutto delle convinzioni o dei principi di coach Malone, che viceversa nel plasmare la squadra è partito con grande pragmatismo dalle caratteristiche del tutto peculiari dei suoi due giocatori migliori.
Per i Nuggets tutto inizia e finisce con Nikola Jokic, specimen cestistico unico nel suo genere su cui si è detto e scritto molto, ma su cui rimane ancora molto da dire e da scrivere. Anche perché, per quanto sia difficile da credere, il ragazzo di Sombor ha solo 25 anni. Nonostante la carriera ancora tutta da vivere e da scrivere, il dibattito che lo vede come potenziale miglior lungo di sempre nel passare la palla potrebbe già considerarsi archiviato. Con tutto il rispetto per autentiche leggende come Bill Walton e Arvydas Sabonis, primi nomi a essere chiamati in causa nel dibattito, un atleta di quella stazza in grado di condurre il contropiede sui 28 metri e passare la palla con quei tempi e quella visione anche dal palleggio, molto semplicemente, non si era mai visto.
Jokic ha rivoluzionato il concetto di lungo come pochi altri, forse come nessuno in precedenza, e di certo ha dato prova di come un centro - ammesso che nel 2020 abbia ancora senso usare questa definizione - possa distribuire la palla in movimento e non solo da fermo in post-up o spalle a canestro. Eppure, nonostante il suo talento fosse universalmente riconosciuto, al serbo veniva rimproverata una certa pigrizia nel lavorare sui propri difetti e nel suo impegno ondivago nel corso della stagione. Durante questi playoff però la capacità di lettura dimostrata sui raddoppi - a cui è sottoposto ormai in maniera sistematica quando ha la palla in mano - è risultata nettamente superiore rispetto al passato, con evidenti benefici sulla manovra offensiva di Denver. Non bastasse, Jokic soprattutto nella serie contro i Clippers ha fatto largo uso del fadeaway jumper su una sola gamba, movimento in tutto e per tutto tratto dal repertorio di Dirk Nowitzki, soluzione di tiro che gli permette di sfruttare al meglio i tanti mismatch contro avversari più bassi o più lenti.
Solidarietà al povero Ivica Zubac, impotente di fronte al movimento effettuato da Jokic una volta chiuso il palleggio.
L’altra pecca che spesso veniva rinfacciata alla stella dei Nuggets era rappresentata dalla presunta tendenza ad assentarsi dalla partita quando si entrava nei momenti decisivi. E se per confutare la tesi della pigrizia è bastato il campo, per ribattere a questa accusa è sufficiente consultare le statistiche. Gara-7 contro Leonard e George è stata l’ottava partita da “dentro o fuori” della sua breve esperienza ai playoff: in queste elimination game, Denver vanta un record di 7-1 mentre Jokic ha fatto registrare la media di 25.6 punti, 13 rimbalzi e 6.8 assist. Non male per un choker, palese vittima di pregiudizi che ancora - nonostante le smentite - circondano i giocatori europei. Semmai, quello che si poteva rimproverare a Jokic è che non iniziava a dare il massimo fino a quando non fosse strettamente necessario, ma nei momenti decisivi ha sempre risposto presente.
L’ascesa di Jamal Murray al top delle point guard
Quanto a dubbi e pregiudizi, pure il collega di Jokic può vantare un discreto curriculum. Arrivato in NBA attraverso un tragitto più lineare rispetto al suo compagno di squadra (settima scelta al Draft uscendo da Kentucky), Jamal Murray ha vissuto le prime stagioni nella lega con appiccicata l’etichetta di “potenziale inespresso”. Nonostante statistiche personali più che discrete e un rendimento di squadra positivo, al canadese veniva imputata una certa incostanza delle prestazioni. Murray, insomma, era considerato un buon corista all’interno dell’orchestra condotta da coach Malone, ma gli si addebitava l’incapacità di risultare davvero trascinante per più di una partita.
Nell’estate 2018, alla firma dell’estensione contrattuale, erano stati in molti a storcere il naso di fronte ai 170 milioni di dollari (ora diventati 158 a causa della mancata inclusione tra i quintetti All-NBA) che la franchigia s’impegnava a versargli per i successivi cinque anni. Dubbi fugati solo in parte da qualche prestazione sopra le righe ai playoff dell’anno successivo. Le prestazioni sopra le righe, per usare un eufemismo, sono arrivate nelle ultime settimane, durante le quali Murray ha messo in mostra una maturità eccezionale nella selezione di tiro, molto più efficace rispetto al passato, e nell’interpretare l’andamento delle singole partite.
La guardia nata in Ontario ha prima tenuto in piedi i Nuggets nel momento più critico contro Utah, per poi risultare decisivo nelle tre gare che hanno condotto all’incredibile sorpasso sui Clippers. I numeri, per quanto strepitosi (27.1 punti di media tirando con il 50.2% dal campo e il 49% da tre), non dicono della voglia di essere protagonista nei momenti decisivi, così come le statistiche non sono in grado di misurare il peso dei tiri presi, e segnati, dall’ex Kentucky Wildcats.
Nei soli quarti periodi, quasi sempre decisivi per l’esito delle singole sfide, Murray ha tirato con 57.4% dal campo, il 67.7% da tre segnando 9.6 punti di media.
Se Jokic governa la parte cerebrale dei Nuggets, coordinando i movimenti e scandendone il battito vitale, Murray domina l’emotività della squadra, gestendone il sistema cardiovascolare durante i passaggi chiave e affondando il colpo quando serve. La loro è una combinazione quasi perfetta, ancorché in aperta antitesi con gli stilemi prediletti dai puristi del gioco. Quello tra Jokic e Murray è infatti sì un asse play-pivot, ma in cui a dettare i ritmi dell’attacco è il pivot mentre a prendersi un tiro appena la difesa avversaria lo concede è il playmaker. È una combinazione che può apparire bislacca solo a chi ha poca familiarità con la NBA del 2020 e, più di ogni altra cosa, è una combinazione che produce risultati strabilianti.
It’s a two-man game
Questi playoff - e la serie contro i Clippers in particolare - sono stati il laboratorio in cui il gioco a due tra Jokic e Murray si è trasformato da esperimento con buone prospettive di riuscita a trionfo nel campo della scienza cestistica. Le cifre raccolte dalla coppia, se raffrontate a quelle già ottime della regular season, rendono il senso della loro importanza nei recenti successi dei Nuggets. Titolari di usage rating sensibilmente più cospicui rispetto alla stagione regolare (29.4% contro 26.6% per Jokic, 27.5% contro 24.8% per Murray), la presenza sul parquet del duo ha prodotto risultati migliori in termini di percentuali dal campo (49% contro 48.1%, 43.2% da tre contro 34.8%, 61.6% di percentuale contro 57.7% rispetto a quando non ci sono). Il confronto con le medie complessive di squadra nei playoff, rispettivamente assestate al 46.5% dal campo, 39.1% da tre e 58% di true shooting, confermano l’effetto benefico sull’efficienza offensiva di Denver.
Inizio dei playoff e prime prove di perfezionamento del gioco a due Jokic-Murray.
A rendere devastante il gioco a due tra Jokic e Murray è la capacità del primo di penetrare in palleggio sia negli spazi aperti che in traffico tra i corpi degli avversari, skill impensabile per un lungo di quella stazza, e l’abilità di Murray nel muoversi lontano dalla palla, caratteristica non così comune tra i ball-handler della lega.
Zubac non sa se coprire l’eventuale penetrazione di Jokic o uscire sul perimetro: l’indecisione si rivela fatale.
Jokic sta tirando con il 49% da tre in questi playoff mentre Murray, stando ai dati forniti da Synergy via The Athletic conclude al ferro con il 58.7%. Non c’è espediente tattico che tenga quindi, non esiste una road map che eviti alla difesa di ritrovarsi impantanata nella terra di mezzo tra il perimetro e il pitturato. Si può provare a raddoppiare con regolarità chi dà inizio all’azione dei Nuggets, ma il raddoppio su uno dei due concede all’altro di poter condurre un attacco 4 contro 3. Quando i compagni, disciplinati nel seguire la circolazione della palla, si fanno trovare pronti a ricevere sugli scarichi o tagliano con decisione verso il canestro vengono puntualmente ricompensati.
La difesa dei Clippers cade nella trappola architettata da Jokic e Murray già durante le prime battute di gara-7.
Va detto, per completare il quadro, che gli stessi compagni che beneficiano del gioco a due tra le stelle della squadra ne coprono le falle aperte nella propria metà campo, ambito in cui Jokic e Murray - al netto dei loro miglioramenti - non eccellono. In questo senso, paradossalmente, la forzata rinuncia a Will Barton, terzo terminale offensivo dei Nuggets in regular season, ha concesso minutaggi sostanziosi a Grant e al redivivo Harris, elementi fondamentali per la tenuta difensiva di squadra.
Un modo diverso di essere leader
L’aspetto più significativo della crescita inarrestabile dei Nuggets, nonché il vero emblema del salto di qualità compiuto da Jokic e Murray è riscontrabile forse nei piccoli e grandi dettagli che non finiscono negli highlights di giornata. Portare a termine due rimonte da 1-3, miracolo sportivo mai riuscito a nessuno nella storia dei playoff NBA, richiede infatti prima di tutto una coesione di squadra e una durezza mentale fuori dall’ordinario. I Nuggets erano stati catalogati alla voce “belli ma fragili”, squadra piacevole da vedere ma priva della consistenza necessaria per mirare in alto, e Jokic e Murray, anche da questo punto di vista, ne erano gli uomini simbolo.
La voglia di non arrendersi mai, coadiuvata dalla testarda convinzione nei propri mezzi e nel progetto di gioco portato avanti ormai da quattro anni, hanno invece consentito ai ragazzi di Malone di scalare due montagne altissime nelle serie contro Jazz e Clippers. Murray ha mantenuto una lucidità trapelata in dichiarazioni che hanno lasciato il segno dopo performance epiche come quella di gara-6 contro Utah. Jokic, pur non rinunciando al suo spiccato senso dell’umorismo, ha mostrato quel pizzico di cattiveria in più levando, forse in via definitiva, la patina di gentilezza agonistica che permeava i Nuggets.
Atto di puro sadismo da parte di Jokic sul cadavere dei Clippers a 26.5 secondi dal termine di gara-7, con Denver sopra di 16 punti.
Infine, la gestione dello spogliatoio, animato da personaggi non proprio semplicissimi, è stata esemplare. Tenendosi lontani da proclami, dichiarazioni roboanti o provocazioni degli avversari, Jokic e Murray hanno dimostrato di saper esercitare una leadership diversa dai consueti modelli, che forse non sono nient’altro che stereotipi belli e buoni. Senza alzare troppo la voce in campo o di fronte ai microfoni, i due hanno saputo amministrare malcontenti e timori, incanalando le energie nella giusta direzione. Una direzione che andrà seguita con ancora maggior compattezza ora che il cammino dei Denver Nuggets si fa sempre più in salita. Un cammino esaltante, vissuto al traino di due stelle ormai conclamate, e che potrebbe non essere nemmeno ancora giunto al termine.
L’esame che attende ora il dinamico duo è di quelli impegnativi, perché i Lakers sembrano ben attrezzati per affrontare Denver. Jokic, dopo essere scampato al duello con Gobert al primo turno e aver banchettato su Zubac e soprattutto Harrell in quello successivo, si troverà di fronte un avversario di pari stazza ma allo stesso tempo dotato della mobilità e dell’atletismo necessari per inseguirlo in lungo e in largo per il campo. È probabile infatti che a prendersi cura del serbo sarà principalmente Anthony Davis, alternandosi con JaVale McGee sugli attacchi a metà campo e con Markieff Morris, e magari LeBron James, quando The Joker agirà da portatore di palla e iniziatore delle azioni dei Nuggets. Murray dovrà vedersela in prima battuta con Danny Green, con Rondo e Caruso e magari con il solito, immancabile James su singoli possessi di notevole importanza. A entrambi verrà dedicata un’attenzione particolare, tradotta in raddoppi sistematici simili a quelli con cui i Lakers hanno fermato prima Lillard e poi Harden.
I Lakers mettono in atto il piano di raddoppiare l’avversario più pericoloso per forzarne le decisioni: come Denver riuscirà ad attaccare i 4 contro 3 sarà una delle chiavi della serie.
Jokic e Murray si troveranno a operare nei meandri della terza miglior difesa della stagione regolare, posizione confermata durante i playoff, una missione che richiederà di alzare ulteriormente il livello del loro gioco. I Lakers, inoltre, al contrario dei cugini Clippers, difficilmente si renderanno protagonisti di un tracollo emotivo. E, forse, a risultare decisiva nel decidere la finale di conference potrebbe essere proprio la tenuta psicologica. Anche in questo senso, Jokic e Murray sembrano pronti alla sfida.