I lunghi sono finalmente tornati. Dopo che per anni ci si è stracciati le vesti, cosparsi di benzina e provato a darsi fuoco in pubblica piazza perché stavano scomparendo dai campi della NBA, ci si sta finalmente accorgendo che tutta questa narrazione catastrofista era molto lontana dalla realtà. La rivoluzione dello Small Ball non ha cancellato un ruolo ma definito un mestiere, portando i sette piedi a rivedere il proprio bagaglio tecnico e la specializzazione necessaria per ricavarsi un posto in una lega sempre più competitiva.
Ma come diceva Ian Malcom, “Life finds a way”. E dopo un lustro di onesta manovalanza, i lunghi sono tornati finalmente a prendersi la scena. Se non fosse bastato il dominio di Anthony Davis sulla bolla di Orlando, che ha imposto un modello di lungo moderno e completo nella sfida diretta con Bam Adebayo, proprio qualche giorno fa la NBA ha premiato Joel Embiid e Nikola Jokic come giocatori della settimana per le rispettive Conference.
Jokic, al nono riconoscimento in carriera, ha guidato i suoi Denver Nuggets a tre vittorie, una contro Oklahoma City e due volte al supplementare contro i Phoenix Suns chiudendo con 29 punti, 14.7 rimbalzi e 6.7 assist di media e tirando con oltre il 52% dal campo. Embiid, al quinto premio personale, non è stato da meno conducendo i Philadelphia 76ers ad altrettante tre vittorie contro Detroit e per due volte contro Boston. Il camerunense ha segnato almeno 30 punti e raccolto più dieci rimbalzi in ciascuna di queste gare giocate, risultando immarcabile per i lunghi avversari che lo hanno continuamente mandato in lunetta.
Certo, i premi individuali durante la stagione regolare contano il giusto, e tra tutti quello attribuito al miglior giocatore della settimana rimane forse il meno indicativo in assoluto visto che a volte basta prendere fuoco per un paio di partite (o trovare sulla propria strada avversari estremamente scarsi) per assicurarselo. Per mettere questo riconoscimento nella giusta prospettiva, basti pensare che l’anno scorso ne hanno vinto uno anche Carmelo Anthony, Josh Richardson e Norman Powell. Ma è significativo che a vincerlo in questo momento siano stati due sette piedi molto diversi e per certi versi estremamente simili, che a loro modo stanno imponendo un nuovo paradigma vincente - e che sono in piena corsa per il premio di MVP.
L’evoluzione del ruolo di centro
Sono passati ormai vent’anni da quando un lungo ha alzato il premio come Most Valuable Player stagionale - Shaquille O’Neal nella stagione 2000-01 culminata con il secondo titolo consecutivo dei suoi Los Angeles Lakers - a conferma di una direzione chiara che la NBA ha imboccato in questo millennio.
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Possiamo osservare questa grafica come una roccia stratificata sulla quale leggere il susseguirsi delle ere geologiche.
La curva evolutiva intrapresa ha portato i giocatori a perfezionarsi sempre più, inseguendo un rapporto aureo tra efficienza e numero dei possessi. Alle nuove superstar infatti non basta essere incredibilmente produttivi in una sola casella del tabellino, ma influenzare l’intera efficacia della squadra in ogni singolo minuto passato in campo. Una gravità così accentuata che non può appartenere a giocatori che non hanno il pallone in mano per la gran parte del tempo, una caratteristica che non era richiesta a chi solitamente viveva accampato nel pitturato.
Per tornare a essere il centro tolemaico delle proprie squadre, i lunghi hanno quindi dovuto trasformarsi e dimostrare di poter sostenere un sistema costruito sulle loro qualità tanto in attacco quanto in difesa. In una lega che non fa più distinzioni in base al ruolo ma allo skillset di ciascun atleta, non conta più l’altezza, il peso o la provenienza: conta se il tuo modo di giocare porta a delle vittorie o no. E sia Nikola Jokic che Joel Embiid in questo primo quarto di stagione stanno rispondendo affermativamente.
Se negli anni abbiamo solcato l’epoca degli unicorni e siamo stati spettatori di lunghi capaci di uscire dai blocchi alla Reggie Miller come Karl-Anthony Towns, o di trasformarsi in trabucchi medioevali come Kristaps Porzingis, nessuno ha avuto l’abilità di imporsi come la prima consistente opzione offensiva di una squadra di alto livello. Lo stesso Anthony Davis ha dovuto associarsi con il più dominante creatore di gioco di questa generazione per sbloccare un ulteriore livello del suo talento.
Jokic e Embiid, per quanto dividano ogni sera il campo con altre superstar in odore di All-Star Game, invece sono indiscutibilmente i leader tecnici ed emotivi delle rispettive squadre, che girano intorno a loro come sistemi solari perfettamente funzionanti. Hanno affinato a tal punto le loro qualità e il loro corpo da affermarsi come credibili prime opzioni in una lega che impone uno standard altissimo. E, non so se sia casuale o meno, entrambi sono arrivati dall’altra parte del mondo per indicare una nuova dimensione al ruolo del lungo.
Nikola Centro boa
Fin da quando Jokic ha messo piede in NBA arrivando dal serbatoio inesauribile del Mega Leks (ora Mega Soccerbet, recentemente Mega Bemax, in ogni caso sempre Mega) è stato etichettato come un lungo passatore, ma ha rapidamente trasceso questa definizione affermandosi non come il migliore per il suo ruolo, ma in uno dei più abili indipendentemente dalla posizione nominalmente ricoperta nel quintetto.
Non esiste passaggio che il centro serbo non riesca a eseguire. Anzi: molte delle assistenze che offre ai suoi compagni di squadra possono arrivare solo da un gigante di oltre 2 e 11 per 130 chili in grado di piegare la geometria del campo a suo vantaggio. Outlet pass che fischiano per l’intera lunghezza del campo fino a trovare il proprio destinatario sotto il canestro avversario; finte da pallanuotista tenendo la palla con una mano sola prima di scaricarla sul tiratore libero come se fosse la cosa più semplice del mondo; letture sofisticate sui raddoppi sia in ricezione statica che in movimento in grado di demolire il piano difensivo disegnato per ingabbiarlo (citofonare Los Angeles versante Clippers).
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Ormai siamo talmente abituati alla genialità con il pallone di Jokic da non accorgerci quanto migliori ogni stagione che passa. In questa, ad esempio, Jokic sta viaggiando una tacca sotto la doppia cifra in assist per partita (9.3), in terza posizione dietro Harden e Doncic dopo aver guidato la classifica per settimane, e potrebbe diventare il primo lungo a viaggiare in tripla doppia di media. La sua percentuale di assistenze è arrivata al 40%, ben cinque punti in più rispetto allo scorso anno, così come quella che definisce il suo utilizzo in campo (31.8% dei possessi) testimonia come sia ulteriormente salita la sua influenza sui Nuggets. Prendete una qualsiasi statistica avanzata che cumuli l’impatto di un giocatore e in cima comparirà il sorriso sornione di Jokic: Value over replacement? Primo. Win Shares? Primo. Box plus Minus? Primo. Plus Minus stimato? Primo. Raptor WAR? Primo. Solo in Player Efficency Rating, la statistica creata da John Hollinger per ESPN, è al secondo posto di una incollatura... dietro a Joel Embiid.
La sensibilità soprannaturale per il passaggio di Jokic sta definitivamente sbloccando la componente realizzativa del suo gioco, rendendolo ancora più immarcabile quando decide di aggredire la partita invece che aspettarla pigramente come troppe volte ha fatto in passato. Le sue medie punti si sono impennate in queste prime partite stagionali, passando dai 20 della scorsa ai 25 dell’attuale, a dimostrazione di come Jokic sia consapevole del suo ruolo da leader di questi Denver Nuggets e delle maggiori responsabilità che deve prendersi.
Qualche azione di Nikola Jokic con l'acqua alla vita.
Dopo un inizio di stagione balbettante i Nuggets hanno ingranato la marcia che ci si aspettava tenessero risalendo rapidamente le gerarchie della Western Conference. La comoda vittoria di ieri notte in casa dei Miami Heats gli ha issati al quarto posto, grazie soprattutto al terzo attacco per Offensive Rating (115.2) della lega che compensa le croniche mancanze dall’altra parte del campo. Le partenze estive di Jerami Grant e Torrey Craig hanno lasciato un vuoto importante nelle rotazioni in ala e Jokic, per quanto sia migliorato, rimane un lungo da nascondere in difesa. Nonostante il massimo in carriera per quanto riguarda le palle rubate (1.8), i Nuggets concedono oltre sette punti in più su cento possessi con il serbo a pattugliare il pitturato rispetto a quando siede sulle panchine distanziate. Negli ultimi vent’anni solo Steve Nash vinse il premio MVP con statistiche difensive sotto la sufficienza.
Due candidati MVP al centro del gioco
Purtroppo non abbiamo avuto lo scontro diretto tra Joel Embiid e Nikola Jokic in quanto la partita contro i Denver Nuggets è stata una delle quattro partite saltate dal centro camerunense (per capirci: è stata la partita dei 39 punti di Tyrese Maxey) per risolvere in parte il dualismo sostenuto in questo pezzo e per goderci la battaglia tra due giocatori speciali. Ma al netto delle assenze precauzionali, Embiid sta mettendo insieme uno scorcio di stagione da MVP guidando i Sixers in cima alla Eastern Conference con 27.7 punti, 11.5 rimbalzi e 2.7 assist a partita.
Il contributo di Joel Embiid, peraltro, va oltre i semplici numeri del tabellino ed è esemplificato dal record della squadra quando lui scende o non scende in campo: con il numero 21 sul parquet Philadelphia ha perso solamente due delle 15 partite disputate finora, mentre è stata sempre sconfitta quando non ha avuto il suo punto di riferimento nel pitturato. Una dipendenza quasi patologica - come se i Sixers scendessero in campo già battuti quando non possono contare su Embiid, perdendo anche contro Cleveland, Memphis e Detroit - che riflette però le nuove gerarchie volute da Doc Rivers e Daryl Morey che lo hanno messo al centro del progetto tattico.
Una delle due prestazioni dominanti di Embiid contro i Boston Celtics.
I Sixers ora sono a tutti gli effetti la squadra di Embiid, e lo hanno dimostrato anche le voci più che concrete attorno alla trade per Harden: nessuno è indispensabile tranne lui. La ristrutturazione estiva di Morey è stata disegnata proprio per massimizzare le sue potenzialità, garantendogli più spazio nel quale operare senza che la difesa avversaria potesse collassare ogni volta su di lui.
Quando infatti Embiid è lasciato in uno contro uno con il proprio diretto marcatore, non c’è possibilità di fermarlo se non mandandolo in lunetta, cosa che sta succedendo con inedita frequenza. Embiid, un tiratore che sfiora l’80% ai liberi in carriera, induce l’avversario a un contatto falloso nel 22.6% dei suoi tentativi di tiro (era il 19.1% l’anno scorso) garantendosi oltre 10 tentativi a partita. Non è un caso che tali cifre siano decollate in coincidenza con l’arrivo di Morey a Philadelphia - colui che ha trasformato James Harden in una macchina da falli a Houston - e che siano il modo migliore per lucrare sulla superiorità di Embiid sui lunghi avversari.
Per non contare dell’effetto che sentire gli arbitri immettere aria nel fischietto ad ogni possesso provoca sui nervi dei difensori che, come ha recentemente dimostrato Marcus Smart, si sentono vittime di un gigantesco complotto. Nelle due partite consecutive contro i Boston Celtics Embiid ha segnato 80 punti con 34 tiri, una produzione e un’efficienza che non ci saremmo mai aspettati da un lungo, grazie a un continuo pellegrinaggio in lunetta (36 liberi in totale) ed un’estrema precisione al tiro. Embiid è ai massimi in carriera per percentuali sia al ferro, nel midrange e da oltre l’arco, a dimostrazione di come anche un talento strabordante come quello del camerunense ha bisogno di un contesto tagliato dal sarto per rendere al meglio.
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La classica tripla dal palleggio del vostro centro per mettere in ghiaccio la partita.
In questo nuovo ecosistema Embiid è tornato a divertirsi e far divertire gli spettatori virtuali del Wells Fargo Center, e con lui l’intera squadra che sembra aver dimenticato la parentesi negativa dello scorso anno. Il quintetto di Philadelphia viaggia a 20 punti su cento possessi di vantaggio sugli avversari, trascinata dal talento e dalla consistenza del proprio centro che anche contro i Lakers ha imposto la propria fisicità su una frontline di tutto rispetto, uscendone con qualche livido sulla schiena e una sofferta vittoria che ha rilanciato le ambizioni dei Sixers.
Ma le sfide della regular season sono molto diverse da una serie di playoff al meglio delle sette partite, dove gli attacchi a metà campo si muovono impantanati nelle sabbie mobili e dove le terze e quarte opzioni diventano le uniche percorribili. È proprio in quel momento che avere in campo creatori perimetrali in grado di massimizzare ogni possesso e dilatare ogni vantaggio cambia l’efficienza di un attacco. Per ora sia Jokic che Embiid hanno dimostrato di saper reggere sulle loro possenti spalle l’intero peso di una moderna fase d’attacco in NBA: sarà interessante capire se saranno davvero in grado di innescare una rivoluzione.