Pubblichiamo la trascrizione del dialogo con Jury Chechi, che si è tenuto il 24 marzo al Centro d’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, nel contesto della mostra di Aleksandra Mir, intitolata Triumph. È il secondo di tre incontri a cui siamo stati invitati (il primo era dedicato a Paolo Rossi). Nelle prossime settimane al Centro Pecci parlerà Christian Giagnoni.
Jury Chechi rappresenta qualcosa che va al di là dello sport. Una figura che unisce, trasversalmente, un profilo su cui si è tutti d'accordo. Me ne vengono in mente pochi altri, così. Forse non è azzardato fare un paragone sul piano sportivo col concetto sociologico della religione civile, con quegli elementi condivisi da una comunità che formano un senso di sacralità del vivere insieme.
Jury Chechi è nato a Prato, l'11 ottobre 1969. A Prato ha iniziato con lo sport, nella mitica Società Ginnastica Etruria, dove si allenava sua sorella e dove Jury decise di allenarsi anche lui, a sette anni. Era il 1976, la ginnastica era ancora considerata uno sport femminile, nonostante i successi di Franco Menichelli (oro alle Olimpiadi di Tokio 1964). I genitori rispettarono il suo desiderio e lo iscrissero. Da lì iniziò un percorso che lo portò a imporsi come leggenda della ginnastica e dello sport italiano, con una medaglia d'oro alle Olimpiadi di Atlanta 1996 e un bronzo forse ancora più significativo a quelle di Atene del 2004.
A Prato abbiamo chiacchierato in pubblico della sua storia, nella cornice del prestigioso Centro per l'Arte contemporanea Luigi Pecci, per il ciclo di incontri My triumph. Vittorie, sconfitte e altre storie.
Abbiamo appena visto un video della tua finale olimpica del 1996, l'oro di Atlanta agli anelli. Ecco, ti capita di rivedere quelle immagini ogni tanto? E ti ricordi cos'hai provato la prima volta che hai visto la gara dal di qua?
Le rivedo pochissime volte, magari in occasioni pubbliche. Ogni volta che le vedo, provo in tutti i modi a ricordarmi qualcosa di quel minuto ma non mi ricordo niente. Niente. E va bene così, meno male: perché per arrivare a quel minuto la mia vita sportiva è stata molto intensa. Non dico difficile, sono altre le cose difficili. La cosa importante che ho capito, è che è fondamentale quello che fai prima del minuto più importante della tua vita.
Per quel minuto mi sono allenato per quattro anni, ogni giorno, ogni settimana, ogni mese. E ogni giorno ho fatto quello che è necessario fare, per arrivare lì e cogliere i frutti di quel lavoro. Non voglio fare la vittima né l'eroe, sono una persona normale. Ma avevo un programma, e non c'è stato un giorno che... Per dire: dovevo fare cinque esercizi? Ne facevo cinque. Non quattro e mezzo, che dicevo: «Vabbè, lo faccio domani». No: finivo tutto il programma.
Quello che mi ricordo è il momento prima di iniziare l'esercizio della finale. Me la facevo addosso, una paura folle, paura di sbagliare. Ma è stato straordinario, a un certo punto, poter scegliere di non aver paura. Io lì hoscelto, è stata un'emozione davvero forte. Mi sono detto: non c'è un motivo oggi per cui io debba sbagliare. Ho fatto tutto quello che dovevo fare, sono pronto. Questa convinzione mi ha fatto passare dalla paura alla massima tranquillità. E mi sono appeso agli anelli.
È incredibile che tutto si risolva in minuto. Che tutto quell'allenamento, quegli anni, vengano decisi da sessanta secondi.
Sì, è incredibile però fa parte di questo sport. Ti alleni per quel minuto. L'allenamento, la preparazione, il lavoro, contano più del talento. Se uno che ha un gran talento pensa di raggiungere l'obiettivo attraverso il talento, ha un'impostazione sbagliata.
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Vorrei chiederti qualcosa sul sistema dei punti. Cosa significa affidarsi a un giudizio che non è incontrovertibile, che è così legato alla soggettività e all'interpretazione?
Eh... anche questo fa parte del nostro sport e devi riuscire ad accettarlo. Posso raccontare che prima di riuscire ad andare in gara e ottenere quello che meritavo dai giudici, ne ho passate tante. Nella metà degli anni Ottanta, prima della caduta del Muro di Berlino, c'era ancora il blocco dell'Unione Sovietica, della DDR, del fortissimo gruppo Ungheria-Romania-Bulgaria. Quando noi occidentali andavamo, anche se eravamo bravi, loro si mettevano insieme e non ci davano il risultato che meritavamo. Non vincevo mai. Mai. Però ogni volta dimostravo di essere il migliore: anche se loro non me lo riconoscevano, io lo facevo vedere. E penso che magari ci metti un po' di più, ma prima o poi il merito viene premiato, anche quando c'è un giudizio oggettivo e soggettivo come nella ginnastica. Capisco che è difficile ma purtroppo non c'è altra soluzione.
Ieri ho parlato con un atleta, Marco Lodadio, un bravo anellista. Era triste perché nell'ultima gara era arrivato quarto e secondo lui meritava il terzo posto. Probabilmente ha ragione ma non puoi fare polemica, arrabbiarti, non puoi sentirti frustrato perché non te l'hanno riconosciuto loro. Devi continuare, e prima o poi il merito verrà premiato.
Io ho vinto la mia prima medaglia importante nel 1990 e ci stavo provando dal 1987. Per tre anni non ho vinto nulla, e molte volte meritavo.
A 9 anni in un tema scrivi che da grande vuoi vincere alle Olimpiadi. Ci sei riuscito già a 27 anni. A quel punto come hai gestito psicologicamente l'appagamento, come hai trovato le energie per immaginarti un orizzonte?
Quella del tema è vera. Ero un bambino con dei problemi evidenti [ride] ma almeno avevo le idee chiare. Capire quello che si vuole nella vita, non è secondario. Ora, non c'è bisogno di capirlo a 9 anni, anzi, ma credo che prima o poi sia importante farsi un'idea chiara. E dipende da noi: cercare, avere la curiosità, avere la forza di rendersi conto di quello che veramente si vuole diventare.
Al mio obiettivo, sì, ci sono arrivato dopo un po' di traversie nel 1996 con quell'oro. Per rispondere alla tua domanda: quando ci arrivi, è talmente appagante, talmente bello, che ci vuoi rimanere in quella sensazione.
Noi nello sport abbiamo un tempo limitato, per un discorso pratico, fisico. Ma io almeno per i quattro anni successivi volevo mantenere questa sensazione, confermare l'oro a Sidney nelle Olimpiadi del 2000. E ho fatto una cosa molto importante e difficile: nonostante fossi arrivato lassù, ho trovato le motivazioni per fare esattamente le cose fatte fin lì. Non un po' meno, anche se verrebbe da farlo: «Cinque esercizi? Ma ne faccio quattro!». È l'errore strategico peggiore che si possa fare, perché gli altri non aspettano altro e lavorano di più (e come dicevo, il lavoro paga).
Secondo te nello sport, al livello giovanile, ci si prepara abbastanza alla sconfitta? E nella società del presente ti sembra che l'ossessione per la vittoria, il disprezzo per il fallimento, sono cresciuti rispetto a quando ti sei avvicinato allo sport?
Devo dire la verità: quella frase attribuita a De Coubertin, «L'importante è partecipare»... ecco io non sono molto d'accordo. Io gareggio per vincere. Però a una condizione fondamentale: che sia nel rispetto delle regole. Non potrei mai accettare di vincere senza il rispetto delle mie regole e delle regole del gioco. Meglio una sconfitta pulita che una vittoria sporca, questo nella vita oltre che nello sport.
Io ho perso, diverse volte. E non solo nello sport: anche nelle sfide che ho affrontato dopo la carriera nello sport. E so esattamente perché ho perso. Se perdi non è sfortuna, è perché hai sbagliato qualcosa. Io ho rotto [sic] un tendine una settimana prima delle Olimpiadi di Barcellona del 1992, avrei potuto dire: «Che sfiga», ma no: il tendine si è rotto perché ho sbagliato qualcosa. E bisogna capire dove si sbaglia, e non farlo più: perché se lo capisci, vinci.
La sconfitta viene presa certe volte come una grande debolezza. No: la sconfitta è necessaria, per poi vincere. Ognuno di noi, prima o poi perde. Chiunque, anche quelli che pensano di essere imbattibili. E se perdi devi capire che è il modo per individuare l'errore. Non disilluderti, non sentirti giù, no: valutiamo perché ho perso. Per me è stato così. Non è facile come concetto, ma quando sono riuscito a metterlo in pratica non ho più perso.
Arriviamo agli infortuni...
A proposito, mi sono levato il gesso una settimana fa, mi sono rotto un'altra volta un tendine del braccio. E vorrei tanto dire che è stato mentre facevo un esercizio straordinario agli anelli, ma no: m'è caduto un peso sul braccio.
Nel 1992 sei tra i favoriti per la gara agli anelli delle Olimpiadi di Barcellona, ma ti infortuni e ti ritrovi a commentare gli esercizi alla televisione. Per un altro infortunio, nel 2000 non partecipi alle Olimpiadi di Sidney. Come hai trovato le energie, in due momenti molto diversi della tua vita, per reggere l'urto?
Faccio una piccola premessa. Nel 1984, a quindici anni, mi trasferisco da Prato per andare a Varese, in un centro di preparazione olimpica. Allontanarmi dalla mia famiglia e dalla mia città è stata la scelta più difficile che ho affrontato. Ma io volevo vincere le Olimpiadi, ero disposto a tutto. Arrivo a Varese e mi fanno un programma di otto anni. In questo programma ci sono le Olimpiadi di Seoul del 1988, dove partecipo e vado bene. Quindi le tappe intermedie erano chiaramente conquistate [sic], perché il programma era giusto. A una settimana dalle Olimpiadi di Barcellona, dopo otto anni di lavoro, mi rompo il tendine d'Achille e non vado alle Olimpiadi.
Quando ti capitano queste cose, secondo me hai due scelte: la prima è rinunciare, ma non potevo, allora ho scelto l'altra. Nel momento di grande difficoltà, devi trovare il modo di trasformare la criticità in opportunità.
Il mio sogno era vincere il concorso generale, con specialità come il volteggio e il corpo libero dove le gambe sono molto importanti. Era impossibile, perché il tendine riattaccato non era così performante. Allora mi sono specializzato negli anelli, cosa che non volevo fare all'inizio. È paradossale ma non volevo. Quindi per quattro anni ho lavorato di più sugli anelli: ho trasformato una criticità in opportunità. Probabilmente, se fossi andato a Barcellona, la medaglia nel concorso generale non l'avrei vinta.
Non dico grazie all'incidente, ma anche per l'incidente ho trovato l'opportunità. Voglio credere che sia questo, altrimenti non vivrei serenamente. È una strategia: ho dovuto trovare una strategia per superare quel momento molto difficile.
E il secondo infortunio, un mese e mezzo prima di andare a Sidney?
È stato molto più complesso, a proposito di quelle due opzioni, rinunciare e creare opportunità. Ho rotto il tendine del bicipite brachiale del braccio, e dopo l'operazione il professor Perugia mi disse: «Jury, guarda, io te l'ho attaccato il tendine, ma è impossibile che tu possa continuare». Non disse: «È difficile», disse: «È impossibile».
Quindi, delle due opzioni quale scelgo? La prima: rinuncio. Questa cosa però non mi faceva star bene. Ci sono gli ultimi versi di una poesia, Invictus [di William Ernest Henley]: «Io sono il padrone del mio destino, io sono il capitano della mia anima». In quel momento io non lo stavo facendo. Essere padrone del tuo destino, della tua anima (che è ancora più importante), di stare bene con te stesso. Allora ho deciso di fare un'ultima gara.
Provo questo percorso, con grande difficoltà arrivo ad Atene, vinco una medaglia di bronzo. La cosa più straordinaria però è la telefonata dopo la gara con il professor Perugia, un uomo già abbastanza anziano, che mi disse: «Grazie. Perché mi hai fatto capire che nella vita le cose che riteniamo impossibili si possono trasformare in possibili. Grazie per questa lezione».
È per questo che il bronzo di Atene forse vale di più, da un punto di vista umano. Tecnicamente ad Atene ho sbagliato, era giusto che perdessi, anche se forse il greco che ha vinto [ride]... Però è giusto: ad Atlanta sono stato perfetto ma ad Atene no, e ho avuto la conferma che se vuoi vincere devi fare tutto quello che è necessario fare per vincere. Quel bronzo vale tanto perché ho fatto dubitare delle certezze un luminare dell'ortopedia. E ho fatto sì che l'asticella di quello che pensavamo io e lui dei miei limiti fosse molto più alta, e l'ho raggiunta, e oggi sono una persona più forte grazie al bronzo di Atene più che all'oro di Atlanta.
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A quelle due Olimpiadi ci sei arrivato in fasi molto diverse della tua vita, con otto anni in mezzo. Com'è stato affrontare le aspettative tue e del mondo, ad Atlanta da favorito e ad Atene un po' contro tutto?
Sono due storie molto simili nelle difficoltà, che ho vissuto con sentimenti molto diversi.
Quando sei favorito, gestirla non è facile. Anche lì, vale quello che dicevo: è fondamentale come ti prepari. Ad Atlanta le qualificazioni erano andate malissimo, perché non ero tranquillo. Poi devo dire grazie a un grande maestro, il mio allenatore Bruno Franceschetti, che tecnicamente non era eccezionale ma era bravo a preparare l'atleta nella sua totalità, la parte dell'uomo e la parte dell'atleta. Mi diede le parole giuste per isolarmi.
Ad Atene è stato più difficile di Atlanta dal punto di vista umano. È stato difficile accettare che nessuno, a parte Bruno Franceschetti e mio padre, credesse in quell'avventura, che potessi ancora dire qualcosa, fare qualcosa. Comprendo molto bene i dubbi che c'erano, ma poi la medaglia l'ho meritata fino in fondo.
Hai nominato tuo padre. La famiglia che ruolo ha avuto nel tuo percorso da atleta? E aggiungo: uno sportivo professionista si trova a gestire problemi da adulto a un'età in cui di solito si fanno altre cose. Distanza da casa, pressione, incontri che possono essere pericolosi. Tu come te la sei cavata?
Da figlio devo solo ringraziare la mia famiglia, perché ha fatto una cosa sulla carta facile ma poi mica tanto: darmi la possibilità di coronare il mio sogno, con grande fiducia. È veramente complesso, quando tuo figlio ha quindici anni, dirgli: «Ok, vai». Insomma, ho vissuto per cinque anni in un collegio arcivescovile... Mi ricordo che mia madre pianse per tutto il viaggio, da Prato a Varese. E mio padre faceva il duro, ma si è emozionato. Loro comunque hanno avuto la forza. Mi hanno dato fiducia, mi hanno accompagnato. È quello che sto provando a fare con i miei ragazzi.
Ecco: da genitore come ti approcci al rapporto tra lo sport e i tuoi figli, che hanno 14 e 16 anni?
A loro della ginnastica non gliene frega niente [ride], proprio zero, però fanno sport con passione, con impegno, e in luoghi sani. Sono molto contento. Continuano nell'attività sportiva con questi valori, poi faranno quello che vogliono da grandi.
A proposito di corrispondenze e passioni, tu come hai vissuto il pregiudizio della ginnastica come sport «da femmine» e quanto è stato illuminante in questo senso l'esempio di Franco Menichelli?
Il mio primo sport è stato il ciclismo, mio padre mi costruì una piccola bici, il ciclismo era «da macho». Poi il pugilato, a sette anni facevo pugilato, anche lì mio padre: «Pugilato, da maschio».
Un giorno andai con mia madre all'Etruria, a prendere mia sorella dagli allenamenti. Dissi: «Mamma, io voglio provare a fare questo sport». Lei disse: «Certo».
Mi ricordo benissimo il primo giorno all'Etruria, come fosse adesso. Mi ricordo gli odori, i colori, i tappetti, la gomma. E ho capito che era quello lo sport per me, dal primo giorno. Quando tornai a casa dissi: «Babbo, voglio fare ginnastica artistica», e lui disse: «Ma non è uno sport da donne?». Perché era questa la concezione. Poi è durata poco quella sua idea, mio padre ha avuto un ruolo molto importante in quello che è accaduto.
Comunque problemi zero, perché era la mia passione: sarei andato avanti in qualsiasi modo, potevano dirmi quello che volevano, avevo individuato quello che mi faceva piacere.
Hai annunciato il ritiro una prima volta nel 1997. Poi hai cambiato idea e hai preparato altre due Olimpiadi, prima di smettere davvero. In che modo si capisce che è tempo di fermarsi? Perché tanti sportivi si accaniscono e finiscono per non rendere onore alla loro carriera?
A me quelle sensazioni mancano, mi mancheranno sempre, quindi capisco chi vuole continuare per tanto a provarle. Quando ho smesso la prima volta, ho ricominciato perché ne avevo bisogno. Ma avevo anche la consapevolezza che potevo riuscire a farlo esattamente come volevo io, cioè vincendo. Vincere per me stesso, non tanto per gli altri. E ho avuto ragione, perché quel bronzo finale per me è un oro.
C'è un momento preciso in cui capisci che tutto questo deve finire, la differenza è accettarlo o far finta di niente. Ogni grande atleta lo sente, l'importante è essere molto onesti con sé stessi.
Per me è stato subito dopo la gara di Atene. Tornai al villaggio olimpico di notte, l'antidoping era finito tardi, avevo la medaglia al collo (non me la levavo più) e davanti allo specchio mi dissi: «Cazzarola, Jury, hai fatto una gran cosa, complimenti. E ora?». È stato chiaro, era tutto finito. Potevo andare avanti ancora un po' di tempo, ma evidentemente non avevo più la forza fisica e mentale di fare performance d'alto livello.
Credo di aver deciso la cosa migliore. Rifarei le stesse scelte, sono un uomo senza rimpianti. E credo che questo, alla soglia dei cinquant'anni, non sia una brutta cosa da dire.