Quando al minuto 86 di Torino-Juventus Manuel Locatelli ha ricevuto da Chiesa riuscendo, dopo un controllo non facile, a battere Milinkovic-Savic con un tiro a giro che ha toccato il palo prima di entrare, gli juventini più ottimisti hanno automaticamente pensato alla stagione 2015/16. Quella volta era stato Cuadrado a risolvere il derby, con il cronometro ancora più vicino alla fine, ben oltre il 90esimo, e in maniera molto più rocambolesca. Al colombiano era bastato cadere sopra il pallone con la coscia per trascinarlo oltre la riga di porta e cambiare la stagione in modo così repentino e irreversibile da essere difficilmente spiegabile. Fino a quel Juventus-Torino, arrivato all’undicesima giornata, i bianconeri avevano accumulato 4 sconfitte, 3 pareggi e 3 vittorie che li piazzavano al 12esimo posto in classifica, lontana 9 punti dalla Roma capolista (ma il distacco dalla vetta era arrivato anche a -11). Dopo arriverà una striscia di 14 vittorie consecutive (seconda migliore nella storia della Serie A), che porterà la Juventus in testa alla classifica dopo la vittoria contro il Napoli alla 25esima giornata, grazie a un gol di Zaza nei minuti finali, e poi a vincere il quinto titolo consecutivo, al termine di una rimonta storicamente improbabile.
Per i più nostalgici, a 0:10 c’è un tacco di Pogba da sentirsi male.
Insomma non è la stessa cosa, ma le similitudini tra questa e quella Juventus non si limitano a una generica partenza stentata, comunque atipica per i colori bianconeri. Anche in quel caso, è facile ricordarlo, in panchina c’era Massimiliano Allegri e anche in quella stagione la Juventus aveva ottenuto, nel suo momento peggiore, una grande vittoria contro una temibile rivale inglese in Champions League - il Manchester City quella volta, il Chelsea quest’anno. C’è poi una continuità nella rosa non scontata, essendo passati ben sei anni, che a un tifoso bianconero saranno sembrati molti di più. Da Chiellini a Bonucci, a Dybala e Morata, passando per Cuadrado e Alex Sandro, il cuore della squadra è lo stesso. Ma se - secondo alcuni - la storia si ripete sempre due volte prima come tragedia poi come farsa, lo stesso si può dire per il calcio? Come ci era arrivata la Juventus a quel derby avendo perso 9 punti in 10 giornate dalla testa (oggi i punti di distacco sono addirittura 10 in 7 giornate)? Cosa aveva frenato quella squadra, nell’unico momento di vera crisi di un periodo lungo 9 anni, prima di un allungo trionfale?
La prima vera Juventus di Allegri
Tutto era iniziato alcuni mesi prima a Berlino, dove la Juventus aveva perso contro il Barcellona nella finale di Champions League. Dopo quella partita quattro dei giocatori cardine di quella squadra erano partiti: Tevez aveva sentito il richiamo di casa, chiedendo di tornare al Boca Juniors; Pirlo aveva scelto di trasferire i suoi talenti a New York, in un contesto meno competitivo; Fernando Llorente era stato lasciato libero, mentre Arturo Vidal era stato ceduto al Bayern Monaco, non si è mai capito se per sua scelta o della società.
Per sostituirli erano arrivati Paulo Dybala, giovane gioiello del Palermo; Mario Mandzukic, “un cattivo del gol” (da definizione di Allegri al momento del suo arrivo) e Khedira a parametro zero dal Real Madrid. Se la stagione precedente era stata letta come anno di transizione tra Conte e Allegri, che aveva mantenuto lo storico 3-5-2 per buona parte delle partite e che quindi - in qualche modo - doveva dividersi i meriti col vecchio allenatore, adesso avrebbe dovuto far vedere quale sarebbe stata la “Juventus di Allegri”, con interpreti e idee nuove.
Il tema tattico principale della stagione era quindi il passaggio o il non passaggio in pianta stabile alla difesa a 4, un salto nel vuoto dopo i grandi successi ottenuti schierando Barzagli, Bonucci e Chiellini davanti a Buffon. Un cambio di modulo che avrebbe dovuto certificare una Juventus più “internazionale” e meno legata a un certo italianismo di cui veniva accusata durante la gestione Conte (in una facile dicotomia difesa a 3 = difensivismo, difesa a 4 = attacco). Anche la scelta di affidare la maglia numero 10 a Paul Pogba poteva essere considerato un passo in questa direzione: giovane, fortissimo e soprattutto stiloso, il francese non rappresentava proprio l’ideale di leader bianconero, ma aveva dalla sua una freschezza perfetta per rendere l’appeal della Juventus più estroverso e meno istituzionale.
Questa investitura aveva scatenato una doppia morale tra i tifosi: da una parte rasserenava all’incirca una sua possibile partenza - in quei giorni d’agosto era al centro di voci di mercato sempre più pressanti - dall’altra aveva preannunciato che nella stagione a venire le molte responsabilità sarebbero ricadute sulle spalle di un ragazzo di 22 anni che cambiava taglio di capelli con la stessa frequenza con cui altri cambiano le magliette. Lo stesso Allegri aveva in parte confermato quelle sensazioni, commentando così la 10 sulle spalle di Pogba: «Una scelta che indica anche il suo senso di responsabilità: vestirla non è semplice, visto che l’hanno indossata i grandi della Juve».
La prima partita stagionale era stata la Supercoppa contro la Lazio a Pechino. In un clima torrido e su un campo di patate, la Juventus aveva vinto 2-0 con gol dei nuovi arrivati Mandzukic e Dybala, ma viste le condizioni in cui si era giocato non era sembrato un test affidabile per la stagione che sarebbe iniziata due settimane più tardi allo Stadium, avversaria l’Udinese. All’esordio in campionato la Juventus arrivava con sensazioni agrodolci. Un po’ c’era la certezza di essere una delle squadre migliori d’Europa, dopo la finale di Berlino, dall’altra la forte paura che il mercato fosse stato monco fino a quel momento, senza l’arrivo di un vero trequartista che raccogliesse, almeno in parte, l’eredità di Pirlo-Vidal-Tevez, che insieme la stagione precedente avevano portato in dote 42 gol e 19 assist. Anche perché dietro la Roma non era rimasta a guardare: in estate erano arrivati Dzeko dal City e Salah dal Chelsea (dopo una mezza stagione fenomenale alla Fiorentina) preannunciando battaglia.
Insomma senza trequartista e con Marchisio e Khedira fuori per infortunio la Juventus si era presentata alla prima con Padoin davanti alla difesa (lì dove c’era Pirlo) e Coman in attacco (che sarebbe partito per Monaco pochi giorni dopo). In un clima plumbeo da fine estate, una spenta supremazia territoriale era stata punita da Théréau, lesto ad approfittare di una dormita difensiva di Lichtsteiner. Generosa ma caciarona, la Juventus non era riuscita a recuperare il gol di svantaggio, finendo per far capitolare il fortino Stadium. Certificata la caduta, tutte le attenzioni si erano concentrate sulla gara di Pogba, svogliato e impreciso, tanto da aver fatto segnare 26 al numero di palle perse.
Allegri, in anticipo sui tempi, se l’era presa coi giovani. «Coman e Dybala devono crescere» era stata parte della sua analisi (a cui aveva risposto Zamparini dicendo che era Allegri a dover crescere, non Dybala), confidando però che - anche se giovani e ingenui - la Juventus era ancora da Scudetto e si sarebbe fatta trovare pronta alla sfida successiva, con la Roma.
Conservatori in campo, europeisti fuori
Come alla prima giornata, anche contro la Roma Allegri si era rifugiato nel 3-5-2. Davanti alla difesa era toccato di nuovo a Padoin sostituire il fantasma di Pirlo, un ruolo per cui nessuno gli aveva dato il libretto d’istruzioni. Fin dal fischio d’inizio i bianconeri avevano lasciato il pallone alla Roma, scegliendo di difendere bassi e ripartire. Un atteggiamento che diventerà una delle armi nel bagaglio della Juventus di Allegri, ma che - come oggi - sembra accentuarsi nei momenti di difficoltà. In quella partita, però, ci si era accorti che rifugiarsi in un calcio passivo, anche avendo la miglior difesa, era un rischio contro squadre intraprendenti. La certificazione della superiorità della Roma era arrivata in maniera particolarmente simbolica nel secondo gol, con Dzeko a svettare di testa tra Bonucci e Chiellini inermi, come a dire che un nuovo tempo stava arrivando. Anticipando dibattiti futuri, Garcia aveva chiamato la vittoria della sua Roma La vittoria del bel gioco, in antitesi all’ostruzionismo juventino.
Alla Juventus non capitava di perdere le prime due partite del campionato da oltre cent’anni, ma più che i singoli risultati a preoccupare era stata l’improvvisa perdita di certezze. Una squadra granitica che prendeva gol banali, una società sempre decisa che stentava sul mercato. Per il tanto richiesto (da Allegri) trequartista era fallita all’ultimo la pista Draxler (che aveva preferito il ben più banale Wolfsburg), con l’arrivo in fretta e furia di Hernanes, ai margini dall’Inter. Anche gli altri acquisti arrivati negli ultimi giorni non erano sembrati proprio da “grande squadra”. Dalla Premier era arrivato in prestito uno scarto del Chelsea, Cuadrado; mentre dal Porto un terzino brasiliano molto promettente, Alex Sandro, ma in una zona di campo occupata da Evra.
Marotta aveva però frenato subito possibili alibi. «Non conosciamo anni di transizione, vincere subito» era stata la sua risposta - non diretta, ma neanche troppo nascosta - a una dichiarazione di Bonucci che era sembrata una mini-resa. Perché se in campo la Juventus stava stentando, a livello gestionale era lanciatissima. La vera transizione di quella stagione per la società bianconera non sarà tanto nel modulo, ma quanto soprattutto nella volontà di costruirsi una reputazione più solida, da club storico e ingessato a club vivace e lanciato verso il futuro, in un tentativo di riposizionarsi tra le grandi di Europa in pianta stabile dopo il capitombolo di Calciopoli.
Nel giro di pochi giorni si erano accavallati due eventi solo apparentemente distanti tra loro. Approfittando della pausa per le Nazionali, Allegri - ancora giovane allenatore rampante - aveva lanciato un'applicazione per smartphone e tablet dal nome MrAllegri tactics dove era possibile studiare le sue metodologie di allenamento; mentre Andrea Agnelli entrava trionfante nel Comitato Esecutivo della UEFA, primo passo verso la testa dell’ECA che arriverà meno di due anni dopo. Una Juventus quindi progressista e istituzionale, così distante da quella di oggi dove Allegri rappresenta il prototipo dell’allenatore che ripudia tattiche e tecnologie e dove Agnelli è il cuore della ribellione giacobina alla UEFA. Ancora più importante è forse l’aspetto economico: proprio in quei giorni, la Juventus tornava a segnare un utile nel bilancio dopo sei anni, con ricavi record (mentre il bilancio del 2021 ha fatto segnare un record storico negativo).
Ambiente diverso da quello di oggi, quindi, quanto meno (apparentemente) più stimolante, ma risultati simili. Contro il Chievo arriva un pareggio per 1-1, al gol del vantaggio clivense dopo appena cinque minuti risponde nel finale un rigore procurato da Cuadrado e trasformato da Dybala. Mentre Allegri assicura tutti che la Juventus a marzo lotterà per i primi tre posti (con quello che diventerà un classico della poetica allegriana), arriva una doppietta di vittorie sinistramente simile a quella del 2021/22 contro Chelsea e Toro. Prima viene regolato il Manchester City con una prova di grande carattere e determinazione (culminata con l’esultanza scivolata dei ragazzi terribili), poi il Genoa al Ferraris per la prima vittoria in campionato, in una partita che sembra il ritorno di una Juventus mai eccezionale ma sempre cinica («Siamo partiti anche noi» dirà Chiellini al fischio finale).
Eppure tre giorni dopo arriva la partita forse meno da Juventus di questo millennio. In casa contro un bistrattato Frosinone, neopromossa in difficoltà ancora a zero punti, arriva solo un pareggio. E arriva nella maniera peggiore, almeno se indossi i colori bianconeri: dopo 36 tiri totali e un solo gol, era stato Blanchard a freddare un intero stadio con un colpo di testa da calcio d’angolo al minuto 92 per l’1-1 finale.
«Più che arrabbiato sono dispiaciuto», erano state le prime parole di Allegri, che non poteva credere di aver preso gol dal Frosinone nel recupero dopo aver regalato un calcio d’angolo. Sconcertato da una stagione che va esattamente al contrario delle aspettative, l’allenatore appare sempre più confuso, si rifugia nella mistica: «Il calcio nella sua generale logica prevede anche di dovere o potere essere talora parzialmente illogico. Il più debole può battere il più forte, cosa che raramente succede negli altri sport, negli altri giochi. Le annate non sono tutte uguali. Ci sono tante variabili da capire».
La fine della dittatura
Ma il peggio deve ancora arrivare: quattro giorni dopo la Juventus è di scena al San Paolo, dove affronta il nuovo Napoli di Sarri, nella prima di una serie di sfide che diventeranno più ideologiche che pratiche. L’allenatore azzurro ha appena abiurato al rombo per schierare la squadra col 4-3-3 con Insigne, Higuain e Callejon davanti; Allegri invece ha respinto chi voleva il ritorno del 3-5-2 per confermare l’amato 4-3-1-2. A causa di assenze piuttosto fastidiose si trova a inventarsi Padoin terzino destro e Hernanes davanti alla difesa. Ma più che una questione di moduli o uomini la partita sembra il confronto tra una squadra confusa e una convinta. I bianconeri recuperano solo 2 palloni nella metà campo avversaria, contro i 14 del Napoli. Il conto dei contrasti vinti è 29 a 8 per il Napoli. Non stupisce quindi che a vincere sia la squadra di Sarri, grazie anche a un Higuain in stato di grazia, autore di un assist e un gol eccezionali nel 2-1 finale.
Higuain che scappa a Padoin, brucia Bonucci e fulmina Buffon era sembrato il punto di rottura della dittatura bianconera, l’ingresso dei rivoluzionari nei corridoi del palazzo d’inverno. Davanti alla matematica era difficile non essere pessimisti: in quei giorni era tutto un salutare il possibile quindi titolo consecutivo, una continua analisi della sconfitta: come era possibile che una squadra imbattibile fosse diventata nel giro di pochi mesi un colabrodo? Le risposte avevano la barba ispida di Pirlo, la faccia martoriata di Tevez e la cresta acuminata di Vidal, ma - lo sappiamo - nel calcio non si può piangere nel vento. Sul banco d’accusa era finito l’allenatore, incapace di trovare una formazione titolare, né un modulo stabile che fosse uno. Ad Allegri si imputa la voglia di fare un po’ il fenomeno, mettendo Hernanes davanti alla difesa (suoi i due palloni persi nei due gol del Napoli) e Cuadrado dietro le punte, facendo spesso scelte cervellotiche (anche la gestione di Dybala e il suo ruolo è un tema ricorrente. In quello il tempo passa, ma sembra rimanere tutto uguale). Accanto a lui l’altro colpevole è Pogba, “pretenzioso, involuto, un giocoliere pieno di sé e non più quella potenza che sembrava dover diventare” secondo le parole di Maurizio Crosetti per Repubblica.
Le reazioni in casa bianconera sono diverse. Allegri non molla, nonostante il distacco dalla vetta: «Quando tutti pensano di farmi il funerale poi si ricredono» dice con una capacità di predizione che in quel momento sembra follia; più realista del Re, invece, Buffon: «Il distacco dalla vetta è talmente tanto e noi non abbiamo ancora una fisionomia certa che non è il caso di perderci in voli pindarici». Martin Caceres si va a schiantare in centro con la sua Ferrari, vedendosi la patente ritirata per avere un tasso di alcol nel sangue superiore ai limiti di legge e la sospensione da parte della società. Tutto sembra andare storto.
Le statistiche avanzate, però, evidenziano come la Juventus stia underperformando in maniera evidente: i tiri fatti sono il doppio di quelli subiti (119 a 59) e soprattutto sono anche più pericolosi. Gli xG creati sono 10.1 (da cui sono arrivati 3 gol, visto che gli altri 3 sono stati due rigori e un autogol), mentre quelli subiti sono 4.2, da cui sono arrivati 7 gol. Ed, effettivamente, la Juventus si rialza: contro il Siviglia - nel porto sicuro che è la Champions - i bianconeri vincono 2-0, con la miglior prestazione stagionale sia in difesa che in attacco. L’effetto positivo si vede anche in campionato: la vittoria per 3-1 sul Bologna con gli stessi undici di Siviglia - dove è entrato finalmente Khedira al rientro da un infortunio - sembra scacciare i fantasmi, ma certo non basta per parlare di resurrezione.
Anche perché sette giorni dopo contro l’Inter capolista arriva un pareggio 0-0 che sembra confermare lo stato di squadra in ripresa, ma di certo non abbastanza da lanciarsi con ambizioni bellicose. Cito Alfredo Giacobbe dall’analisi di quella partita, per farsi un’idea di come i problemi di quella squadra erano più di confusione che tecnici: «Quello bianconero è però un cantiere aperto e Allegri è stato finora piuttosto abile a trovare alcune soluzioni ai suoi problemi. In questo momento Cuadrado è imprescindibile e ritagliargli un posto nello schema di predilezione, il 4-3-1-2, era impossibile. Il sistema ibrido, 3-5-2 in fase di possesso e 4-4-2 in fase difensiva, permette all’allenatore di ricavare il meglio dal repertorio del colombiano e di assicurarsi equilibrio e copertura grazie alle prestazioni solide di Barzagli».
Tra ripresa e tracollo
Problemi di collocazione, non di uomini. Il 20 ottobre Allegri viene candidato in una short list per il premio di Coach of the Year, nello stesso giorno in cui Pogba diventa l’unico giocatore della Serie A presente nei 23 candidati al Pallone d’Oro. Eppure il francese continua a essere il bersaglio di feroci critiche. Il numero 10 sulle spalle sembra avergli dato alla testa, tanto da aver smarrito tutta l’efficacia del suo gioco per lasciare solo i barocchismi. Lo chiamano con un pizzico di ironia “Mister 100 milioni” (lo diventerà davvero qualche mese dopo), si interrogano se il talento possa sopperire l’assenza di leadership. Anche Allegri lo stuzzica: «Paul si deve semplicemente ritrovare, è un giocatore importante, deve ricominciare a fare la cose semplici». Il calcio è semplice, insomma. Lui si inventa un assist incredibile nel gol di Lichtsteiner contro il Borussia Monchengladbach, ma arriva un’altra prestazione di squadra scialba culminata in un pareggio che rimette in ballo la qualificazione. La risposta di Agnelli è aggressiva: «Non solo Allegri: dal presidente al magazziniere, tutti devono sapere che il 14° posto è inaccettabile».
Nella successiva partita con l’Atalanta, Pogba si presenta con un +5 scritto piccolo a pennarello accanto al 10. La Juventus vince d’autorità, soprattutto con una grande prova di Dybala, altro oggetto misterioso di questa prima decina di partite, ma il gesto del francese sembra evidenziare una qualche problematica. Le interpretazioni si sprecano, da chi lo motiva con un tentativo di scappare alle pressioni del numero 10, chi ci vede un 75 (invece che +5), un modo di fare gli auguri al suo idolo Pelè, chi un ritorno al precedente 6 (1+0+5=6). Poi si scopre che non voleva dire nulla: «Non c'è alcun significato in particolare, era semplicemente una cazzata» dirà Pogba in un’intervista (ma lo stesso +5 tornerà anche nella partita contro il Torino).
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La Juve quindi schiava e esaltata dall’estro dei suoi giovani, con Pogba, Dybala e Morata che per una volta sembrano scavalcare il quartetto difensivo nell’influenza sul respiro della squadra. Quindi giornate brillanti in cui si crea un gioco esteticamente gradevole e giornate abuliche, nell’eterno tira e molla della gioventù. E abulica è la notte di Sassuolo: alla splendida punizione di Sansone, arrivata dopo 20 minuti, la Juventus risponde con l’ingenua espulsione di Chiellini a fine primo tempo (uno che è tutto tranne che ingenuo) e con un secondo tempo voglioso, ma inconcludente. Finora silente, appena dopo la doccia a parlare è il capitano Buffon. Il portiere si presenta ai microfoni di Sky per un discorso di una durezza impressionante.
«Aver fatto 45 minuti senza intensità emotiva, senza mordente, fa capire che dobbiamo migliorare assolutamente nel senso di responsabilità. Perché se negli altri anni ce lo potevamo anche permettere [...] quest’anno se non sei sul pezzo, concentrato, non le vinciamo. Dobbiamo tornare un po’ più umili nel modo di pensare». Non si rivolge a nessuno in particolare, ma è evidente come l’attacco sia rivolto alla componente “giovane” della squadra, chiamata per la prima volta a metterci la faccia: «Sinceramente a 38 anni non ho voglia di fare figure da pellegrini. Insieme a me non ne hanno voglia in tanti, ma dobbiamo dimostrarlo in campo».
Non sarà la prima e l'ultima volta in cui Buffon si rivolgerà in maniera perentoria ai compagni, ma quelle parole lasciano intendere un malessere peggiore del solito. Anni dopo Sami Khedira raccontò cosa fece invece quella sera nello spogliatoio: «Buffon dopo il Sassuolo? Mai visto niente di simile. Volavano cose ovunque, dovevi stare attento a non essere colpito. Gigi odia perdere. In quel momento, tutta la squadra ha capito che doveva lavorare di più». Forse è mistica da spogliatoio, ma quel discorso viene considerato l'inizio della rimonta, una specie di Discorso di Gettysburg per la stagione. Anche perché, a pochi minuti dalle parole di Buffon, Allegri chiamò il ritiro in vista del derby: «Rimarremo appassionatamente insieme fino a sabato [...]La situazione è difficile, dobbiamo stare tutti assieme».
E quindi?
Siamo arrivati alla fine di questa lunga ricostruzione. La vittoria contro il Torino, arrivata all'ultimo grazie al gol di Cuadrado, era stata propiziata da due grandi giocate dei singoli - il gol al volo di Pogba e una parata eccezionale di Buffon su Glik. E il talento superiore dei singoli è stato il modo in cui la Juventus si è tolta dal pantano in maniera tanto rapida e incisiva. Se infatti ci mise ancora un po’ a trovare la sua forma definitiva, tatticamente, come una radice che trova sempre una strada verso la luce, la qualità dei singoli esplose in maniera forse mai così evidente. Pogba finirà la stagione con 10 gol e 13 assist e alcuni momenti di dominio mai più visti in Serie A (come la partita col Chievo, definita dallo stesso giocatore la migliore in carriera); Morata farà la sua giocata più riconoscibile contro il Bayern Monaco, con una cavalcata epica, nella partita con forse più rimpianti della storia recente dei bianconeri; Dybala dopo quell’inizio stentato segnò 23 gol, di cui alcuni meravigliosi (e non è forse un caso se nelle cinque successive stagioni in bianconero solo in una ha segnato di più). Non solo talento offensivo: è sempre questa la stagione in cui Buffon ha fatto segnare il record di imbattibilità in campionato, 974 minuti senza subire gol, record che resiste ancora oggi.
Per certi versi, quella Juventus è stata la peggiore e la migliore del suo ciclo durato nove anni. È strano che queste due anime abbiamo convissuto in una squadra che spesso ha fatto della costanza la sua forza. La Juventus ha vinto i suoi titoli facendo della regolarità un mantra e forse per questo quella vittoria è una delle più amate dai tifosi: che c’è di più bello di vincere quando tutti ti davano per spacciati?
Riprendendo il filo con la stagione attuale, più delle similitudini spiccano le differenze. Quella era una Juventus al picco della sua fiducia, che arrivava da quattro stagioni trionfali, che si stava lanciando in una dimensione europea su più livelli, di lotta e di governo. Era sì una squadra in rinnovamento, ma che aveva ormai instaurato una mentalità vincente in maniera così profonda che anche davanti al baratro era rimasta inscalfibile. Oggi questo spirito sembra rimasto più a parole che nei fatti. Allegri non sembra più quell'allenatore volitivo, capace di affidarsi ai giovani senza battere ciglio, ma una sua versione più oscura e dogmatica, sempre in lotta con qualcuno o qualcosa. Inoltre, forse ancora più grave ed evidente, la società non appare solida come in quel momento. La partenza improvvisa di Cristiano Ronaldo, un passivo economico pesante, il fallimento della Superlega: tutti tasselli che hanno reso l’atmosfera intorno alla dirigenza più cupa, in una specie di resa dei conti di un processo di crescita che è andato a scontrarsi contro alcune decisioni sbagliate.
A distanza di sei anni l'elemento di continuità è rappresentato solo da alcuni dei giocatori migliori, ma anche questa non è per forza una buona notizia. È davvero difficile immaginare una rimonta come quella grazie alla difesa di Chiellini, 37 anni, i lanci di Bonucci, i cross di Cuadrado o gli scatti di Morata. La freschezza dei giovani, che allora fu più la causa della rimonta che non del tracollo, era apparsa la forza prorompente di quella squadra. Ma già dall'estate successiva vennero fatte altre scelte. Oggi, in una squadra che si sta ringiovanendo più per necessità biologiche che per volontà, non sembra aleggiare la stessa volontà di abbracciare il rinnovamento. Tuttavia nessuno può credere davvero che la Juventus sia già, all'inizio di ottobre, spacciata. Probabilmente è merito di quella rimonta: se ci sono riusciti una volta, perché dovrebbero non farlo una seconda? Eppure più che una questione di possibilità, sembra che questo lungo dominio bianconero abbia creato un'aura mistica intorno alla squadra e alla sua capacità di ottenere risultati. Come diceva Keyser Soze ne I soliti sospetti, "la più grande beffa che il Diavolo abbia mai fatto al mondo è stata quella di convincere tutti che non esiste".