Le dimissioni del CdA della Juventus sono arrivate tra il gol (non gol) di Cristiano Ronaldo e l’ingresso in campo di Luis Suarez. Solo un caso, certo, ma significativo: due nomi che - per i tifosi e la presidenza di Andrea Agnelli - hanno avuto un peso quasi opposto. Il primo, il portoghese, è stato l’apice della sbornia, il momento dell’invincibilità. Era il 10 luglio 2018 e la felicità sembrava un concetto infinitamente esteso. Il secondo, l’uruguaiano, è stato invece la prima incrinatura evidente della gestione appena conclusa. Era settembre 2020 e il suo esame d’italiano a Perugia è stato un momento imbarazzante che - al di là delle responsabilità penali, la Juventus è stata prosciolta - ha lasciato un senso di amarezza, l’idea che la dirigenza della Juventus non aveva poi tutto sotto controllo. In mezzo una pandemia che, se saranno confermate le notizie che escono dalla procura, ha scombussolato in maniera irreversibile una situazione finanziaria e sportiva che si era spinta troppo oltre, alla ricerca di qualcosa che non c’è. Dove voleva arrivare Andrea Agnelli?
Per provare a rispondere, bisogna partire dall’inizio. La sua presidenza inizia formalmente il 19 maggio 2010, ma è più giusto dire che stava lì da sempre, in attesa. Il nonno Edoardo, lo zio Gianni e il padre Umberto erano stati tutti presidenti della Juventus, lui era stato seduto accanto a loro - ancora giovane e vestito casual - sulle tribune degli stadi, aveva studiato e lavorato per occupare quella posizione. Se la Juventus è degli Agnelli da sempre, un presidente con quel cognome mancava da 48 anni.
La concomitanza tra il suo arrivo e il ritorno delle vittorie era stata troppo immediata per non essere riconosciuta. Il modo in cui aveva ribaltato una società ancora in crisi dopo Calciopoli era stato a suo modo spettacolare, un Veni, vidi, vici che aveva fatto gridare al miracolo, lo aveva reso dall’oggi al domani un punto di riferimento nel mondo del calcio e non solo. Azzeccare tutto e subito è un’impresa quasi impossibile, anche se hai il potere della Juventus, eppure la Juventus aveva azzeccato tutto e subito. Nel giro di un anno, con Agnelli, la Juventus era passata dall’Olimpico allo Juventus Stadium, da Luigi Delneri ad Antonio Conte, da Angelo Secco a Giuseppe Marotta, da Felipe Melo ad Andrea Pirlo, dal settimo posto al primo.
Quali erano i meriti del Presidente? Certo, non era stato lui a proporre alla Juventus un giovane Paul Pogba smanioso di giocare tra i professionisti, non era stato lui a capire che Buffon, Barzagli, Bonucci e Chiellini dovevano comporre la base di un 3-5-2 inviolabile e non era stato neanche lui a progettare il nuovo stadio. Eppure Agnelli aveva funzionato come l’ultimo pezzo del puzzle, quello capace di dare un senso a tutto. Appena arrivato aveva messo i soldi, un aumento di capitale da 120 milioni che si rivelerà decisivo; si era circondato delle persone giuste, parlava di futuro in un momento in cui, nel calcio italiano, era già difficile guardare al presente. Le sue prime parole da presidente della Juventus erano state quasi perfette, in relazione a quello che sarebbe accaduto: «Sarà un percorso complicato, la nostra situazione attuale è evidente. Ho accettato questa sfida perché ritengo di poter dare un contributo alla mia squadra del cuore. Oggi siamo qui per pensare esclusivamente al domani».
In una perfetta connessione tra campo e uffici, la Juventus non ha più smesso di vincere e crescere. Nel 2010/11 il fatturato era di 156 milioni, nel 2016/17, sei scudetti, tre coppe Italia e tre supercoppe dopo, era diventato di 422 milioni di euro; il risultato netto passato da - 95 a + 43. Quante società italiane, senza limitarci allo sport, potevano dire di aver fatto lo stesso, in un periodo finanziariamente critico?
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I primi anni della sua presidenza erano stati come un sogno. E, come in un sogno, era impossibile prevedere quello che sarebbe accaduto dopo. Una domanda che spesso si fanno i tifosi è quando le cose hanno iniziato a precipitare. È stato quando si è lasciato andare via Antonio Conte? La cessione di Pogba? I 90 milioni per Higuain? Berlino? Cardiff? La suggestione Cristiano Ronaldo? L’aver mandato via Marotta? Il mancato arrivo di Guardiola? O, piuttosto, l’aver illuso tutti (i tifosi) che questa squadra poteva arrivare a Guardiola? Sarri stesso o il suo esonero? La pandemia? Il ritorno di Allegri o, chissà, proprio la scelta di prenderlo la prima volta? E, tutte queste decisioni, chi le ha prese?
Ogni volta che parlava, Agnelli lo faceva al plurale, megafono di una società che descriveva come una famiglia. Ogni decisione sembrava più la continuazione di un destino manifesto che non la scelta delle poche persone in cima. Agnelli, Nedved, Paratici prima, Arrivabene poi, sono loro ad aver disegnato la squadra attuale, aver preso decisioni spesso, almeno a sentire gli spifferi, accavallandosi a vicenda. Chi ha scelto allenatori, giocatori, strategia aziendale? Chi ha puntato sugli stipendi sempre più alti, sulle plusvalenze come soluzione per tutti i bilanci, chi ha deciso di spalmare gli stipendi per provare a contenere le perdite dovute al Covid? Oggi si fanno tutti da parte, come se l'unico problema attuale della Juventus sia quello economico e non ce ne sia uno più grande, in come le cose sono state gestite negli ultimi anni.
La Juventus di Andrea Agnelli è stata quella dei 17 trofei che oggi giustamente rivendica, così come la creazione della squadra femminile, anche questa vincente, o tutti gli accordi commerciali di successo, la crescita sui social e nell’appeal internazionale. Ma non è stata solo questo. La sua presidenza ha coinciso con anni piene di battaglie, contro ex allenatori, presidenti, dirigenti, amministratori. Addirittura Agnelli è andato contro il calcio stesso. Logorandosi, ha dovuto puntare sempre più in alto, fino a voler creare un calcio parallelo, una Superlega che rispondesse alla sua ambizione. Per cosa verrà ricordata la sua presidenza? Per i nove scudetti consecutivi, un record che anche solo immaginare di poter superare è impensabile, o per la Superlega? Qual è il vero Agnelli? Quello della gestione virtuosa dei primi anni o di quella disastrosa degli ultimi?
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È impossibile scindere tra le due figure, trovare il punto di rottura, capire cosa è andato storto. Nell’ultima uscita da presidente, Agnelli è intervenuto a una tavola rotonda in cui si parlava delle “seconde squadre". La sua Juventus è l’unica società italiana ad averne una e ora ne sta raccogliendo i suoi frutti, con l’ingresso in prima squadra di Fagioli, Miretti e Iling-Junior. Una scelta, quindi, che sembra particolarmente azzeccata. Allo stesso modo Agnelli ha sempre messo un senso d’urgenza rivolto ai risultati e al presente che oggi pesa come un macigno. Che lo ha spinto a gonfiare il monte ingaggi a spendere sempre di più, a puntare su progetti stantii per avere tutto e subito. Anche le due serie tv, prodotte con Netflix e Amazon Prime, che dovevano essere due progetti ambiziosi e innovativi hanno finito per mostrare una Juventus più impegnata a raccontare sé stessa e il suo status quo che non a preparare il futuro.
Nella sua lettera di saluto ai tifosi, Agnelli ha chiuso con una citazione di Nietzsche: «e coloro che furono visti danzare furono creduti pazzi da coloro che non potevano sentire la musica», ma forse gli avrebbe fatto più comodo un’altra abusatissima citazione del filosofo: «Bisogna avere un caos dentro di sé, per generare una stella danzante». Agnelli ha cercato di generare una stella danzante nel caos, ma non ci è riuscito, o meglio il caos dentro di sé gli è sfuggito di mano. Paradossalmente la sua colpa è stata quella di essere troppo tifoso. Un presidente che, per vincere la Champions League, mi sembra chiaro che questa sia stata la sua ossessione negli ultimi anni, forse la vera causa scatenante, ha continuato a spingere sull’acceleratore mentre il muro si avvicinava. Le plusvalenze, le scritture private, gli stipendi spalmati sono stati il mezzo per cercare di rimanere aggrappati a una grandezza che stava sfuggendo di mano. Ma Agnelli non ha capito che quella stessa grandezza era stata raggiunta in una maniera totalmente diversa. Le migliori Juventus sono spesso state partorite da scelte innovative, da momenti di rottura. Lo era la sua, ma anche quella nata a metà degli anni '90.
Ora bisognerà vedere cosa deciderà la giustizia sportiva, quanto sono gravi le colpe della dirigenza e quanto le pagherà la Juventus. Fare previsioni è impossibile, se dovranno arrivare cessioni dolorose, retrocessioni forzate oppure basterà una multa e qualche bacchettata sulle mani, come al momento sembra. In ogni caso Andrea Agnelli lascia una squadra dal livello tecnico incredibilmente più alto di quella che ha trovato, qualcosa che bisogna riconoscergli. Una squadra che però è anche piena di problemi, che è strutturata male e gestita peggio. Chi sta arrivando dovrà provare aggiustare. Ma non è l'aspetto peggiore: la Juventus oggi sembra soprattutto una società ancora di più arroccata su sé stessa e poco in linea con quello che oggi è una grande squadra di calcio. Per qualche motivo, quella che era partita come una gestione innovativa ed efficiente è finita per essere pesante e polverosa. Non è la prima volta che succede con la Juventus, ma questa volta, per le premesse e per i successi, per i tifosi è stato particolarmente doloroso.