‘Kappa Icons’ è una rubrica di Ultimo Uomo realizzata in collaborazione con Kappa. Lo storico brand di Torino ci ha aperto le porte del proprio archivio, chiamato Basic Gallery, e ci ha permesso di tirare fuori le maglie e di portarle per le strade. Abbiamo raccolto le maglie di 4 giocatori iconici che hanno indossato Kappa. Le abbiamo portate a Milano, Torino, Genova e Roma. Le abbiamo fatte toccare e indossare a chi quelle maglie ha dato un significato: i tifosi.
Abbiamo parlato con loro, facendoci raccontare le storie e le memorie che nascono da queste maglie, e dai giocatori che le hanno indossate, concentrandoci su una stagione in particolare.
Nelle prime due puntate siamo stati a Genova e Milano, nei luoghi di Gianluca Vialli e Marco van Basten. Stavolta andiamo a Torino per incontrare la parte bianconera della città e parlare di Alessandro Del Piero, icona e bandiera, e della sua stagione 1997/98, quando era all’apice della forza e della popolarità. Tutte le fotografie sono di Giuseppe Romano.
Come la nebbia in alcune mattine d’inverno, Alessandro Del Piero sembra avvolgere Torino. La sua presenza non è fisica, eppure c’è. Lo trovi nei lunghi viali alberati del centro, nei caffè di inizio novecento, nei parchi cittadini, nelle piazze squadrate. È una presenza discreta che vive nei camerieri che si definiscono delpieristi, in maglie appese come quadri o conservate come reliquie, nelle parole emozionate dei più giovani, dei loro padri, delle loro nonne.
Con loro ho parlato girando per la città, cercando Del Piero sui muri, nei ristoranti, nei taxi e negli uffici, e trovandolo invece nei ricordi, negli occhi che brillano, nel rispetto che va oltre il calciatore. Insieme abbiamo ricostruito la sua storia intorno a un tavolo, passandoci le sue maglie Kappa di fine anni ‘90 tra un piatto di agnolotti e un bicchiere di vino, o davanti a un caffè o una birra, soprattutto davanti a un calciatore che per generazioni di tifosi bianconeri ha rappresentato un’icona immacolata. Niente meglio di una maglia, dei suoi colori, delle sue trame, aiuta a ricordare, a fare del tifo una memoria collettiva.
Ogni tifoso ha il suo Del Piero, ma tutti insieme creano un’unica immagine: Del Piero che «stava zitto e faceva gol», gol «sempre decisivi». Del Piero che «ogni volta che doveva fare gol, lo ha sempre fatto», che era «capace di fare mai gol banali quando contava». Sono frammenti, come di un discorso amoroso. Arrivano da Enrico, che Del Piero l’ha visto tutto, dall’esordio nel 1993 all’addio del 2012. Vuol dire 705 partite sempre insieme. Dal figlio Guido, che invece ha visto appena la coda della sua carriera («il mio primo ricordo è una doppietta al Siena, i gol 300 e 301»), ma è bastato («era il mio idolo»). Da Alfonso, che un giorno - erano gli anni ‘80 - si è presentato agli allenamenti della Juventus con una leonessa al guinzaglio: «I giocatori hanno fatto i 100 metri in 6 secondi, ma lei voleva solo giocare coi palloni». Da Diego, che quando Del Piero lo ha incontrato è quasi svenuto; da Marialaura, per cui «c'è Del Piero e poi tutto il resto»; da Giorgio che mette le mani avanti («Sicuramente quando si parla di Del Piero non sono obiettivo»).
Tutti hanno ricordi vividi del calciatore, del gol alla Fiorentina - chi c’era e chi se l’è fatto raccontare - di quelli segnati calciando a giro, dell’assist in rovesciata a Trezeguet, della standing ovation al Bernabeu dopo una doppietta o dell’ultimo pomeriggio allo Stadium («Penso di non aver mai pianto così tanto in vita mia»), ma nessuno dimentica l’uomo: «la persona», «che poi si trasmette al calciatore e alla squadra»; «un ragazzo così, che era impossibile non innamorarsene», «Del Piero che unisce tutti», «uno sempre al suo posto, mai una parola fuori posto, educato, sportivo», «però quando c’era da tirare fuori gli artigli…». Nei loro racconti Del Piero è un figlio o un fratello, per cui a contare non sono tanto le vittorie quanto la vicinanza, lo stare insieme anche nei momenti più intimi - la morte del padre, le difficoltà dopo l’infortunio, le panchine con Capello, le critiche in Nazionale e il riscatto in Germania. Soprattutto, però, ricordano «l’amore incondizionato e reciproco», tutte le volte in cui Del Piero ha messo la Juventus davanti al suo ego.
Tutti poi, anche chi non c’era, ricordano la storia che sto per raccontare.
L’anno è il 1997, che poi diventerà il 1998, la stagione in cui Del Piero troverà la sua definitiva consacrazione, affermandosi come stella mondiale di un calcio sempre più globale, ma soprattutto come guida tecnica ed emotiva di quella Juventus e di quelle che verranno. Oggi lo ricordiamo come un passaggio di consegne scontato, ma - a 23 anni - non lo era per nulla, avere la forza, in campo e fuori, per diventare il leader della “prima Juventus di Lippi”, rimasta mitica nella mente dei tifosi non solo per le vittorie, ma per il carisma dei suoi giocatori, «perfettamente integrati con la città, rappresentando di fatto l’unione tra Torino, la Fiat e gli Agnelli», come mi racconta Enrico a tavola Da Angelino, ristorante sulla riva destra del Po’ che a quei tempi gloriosi era rifugio non troppo segreto dei calciatori bianconeri (come si può vedere dalle foto ancora appese, un album di famiglia allargato). «All’epoca era molto più normale incontrarli in città, loro uscivano, andavano in giro, Torino era molto piccola allora. Del Piero invece è sempre stato molto più riservato, molto meno caciarone».
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Delpierismo e Del Piero stesso vestito da cuoco al ristorante Da Angelino. Foto di Giuseppe Romano.
La sobrietà è un altro elemento ricorrente: se tutti hanno storie, apparizioni, incontri e leggende sui vari calciatori di quegli anni, Del Piero scompare dietro la sua riservatezza, rispettato dalla città che non lo insegue (l’unico aneddoto che ho raccolto è quello di un tassista, che mi racconta di averlo visto «due o tre volte la sera mentre prendeva il pollo arrosto in Piazza Santa Rita, col suo Ferrari nero», una scena che però sembra uscire più da un film di Sorrentino che non dalla vita di Del Piero). Quando l’Avvocato lo chiamò Pinturicchio, ha raccontato, «sono dovuto andare in liberia, di nascosto, a sfogliare dei libri di storia dell’arte».
Pur non essendo un figlio della città, Del Piero, ancora oggi, rappresenta bene il carattere schivo di Torino e ancora di più la forma ideale che la Juventus insegue: una forza riservata ed elegante, che parla poco e combina molto. Parla, ad esempio, il primo giorno di ritiro dell’estate 1997 e dice: «Questo è il mio anno. Devo dare di più, devo segnare di più, devo fare un altro salto di qualità». Lo farà. La stagione precedente si è chiusa con una delusione in finale di Champions League contro il Borussia Dortmund. Lui era entrato a partita in corso, un po’ per via di un infortunio, un po’ perché quella squadra in mano a Zidane, Vieri e Boksic funzionava a meraviglia. Con la Juventus sotto 2 a 0, l’aveva riaperta segnando un meraviglioso gol di tacco, ma non era bastato.
Ora però non c’è più Vieri e non c’è neanche Boksic, ceduti come prima di loro Baggio, Vialli e Ravanelli. Soprattutto la scelta di preferirlo a Baggio aveva lasciato più di qualche dubbio in città, dubbi che però Del Piero è riuscito a trasformare in vanto: «È stato un disegno: quando la società si è accorta che era in grado di prendersi la Juventus, anche dal punto di vista dell’immagine, ha investito su di lui». All’inizio sembrava un investimento a perdere - Del Piero era chiamato Talentino, sembrava avere la tecnica per pareggiare gli altri campioni della Juventus ma non la consistenza, il carisma, la forza - ma è proprio tra il ‘97 e il ‘98 che queste ombre scompaiono: «A posteriori capisci che all’interno, chi sceglie, non è un incapace», continua Enrico.
Al loro posto come spalla arriva Filippo Inzaghi, che l’anno prima è stato capocannoniere della Serie A con l’Atalanta. È piccolo, elettrico, sembra vivere su un perenne orlo di una crisi di nervi. Secondo la stampa insieme con Del Piero sono troppo leggeri per funzionare. Nato come trequartista, adattato da Lippi a esterno d’attacco, spostato poi più al centro, non è ancora chiaro quale sia il ruolo del nuovo numero 10 della Juventus. Se Zidane è il cervello, quello attraverso cui passa il gioco, e Inzaghi lo stoccatore finale, Del Piero che cos’è?
Foto di Giuseppe Romano.
Lippi in quella stagione opta per un 4-3-1-2 (che nel corso della stagione diventa un 3-4-1-2 molto offensivo) con il francese a legare i reparti alle spalle di Del Piero e Inzaghi. Scaricato dai compiti di copertura che aveva da trequartista sinistro o da ala, Del Piero è finalmente libero di attaccare come meglio crede. Sarebbe una seconda punta, nominalmente, ma è molto di più: svaria, si allarga, crea per i compagni e, soprattutto, per sé stesso. «Del Piero era un 10 totale», mi dice Fabrizio, «puliva molti palloni a centrocampo, era forte fisicamente, saltava sempre l’uomo. Soprattutto faceva dei gol pazzeschi».
I gol sono il tema di quella stagione. Inizia praticamente subito: ne segna due al Feyenoord, uno al Brescia, ma è il gol segnato il primo ottobre al Manchester United dopo appena 21 secondi a mettergli gli occhi di tutti addosso. Su un filtrante che non era destinato a lui, Del Piero taglia con una corsa la difesa inglese e poi con una sterzata beffarda manda al bar Berg e Schmeichel, prima di appoggiare il pallone in una porta vuota. Il giorno dopo la sua foto abbronzato, con i capelli corti e il cerottino sul naso mentre esulta fa il giro delle tv e le televisioni di tutto il mondo: segnare nel tempio dell’Old Trafford è un battesimo di talento e per Del Piero è la seconda volta in pochi mesi.
A inizio novembre è già in doppia cifra e si avvicina al suo record di gol in una stagione, che è 15. Segna alla Fiorentina con un pregevole tocco sotto su assist di tacco di Inzaghi, al Bari, al Lecce, all’Udinese. Col Parma segna dopo aver controllato di petto un cross sbilenco, calciando al volo di mezzo esterno per anticipare Buffon. Contro la Lazio arriva una doppietta, decisiva per affossare le speranze della squadra di Sven-Göran Eriksson. Se finora Del Piero era l’uomo dai gol che sembravano disegnati, da quelli a giro a quello metafisico contro la Fiorentina, ora segna in tutti i modi: di destro, di sinistro; di fioretto e di potenza.
C’è qualcosa in questi gol che prima non c’era. Se Del Piero nasce come un Baggio 2.0, ora sta diventando qualcos’altro. È senza dubbio più potente, più esplosivo, più cattivo sotto porta. È soprattutto più funzionale alle idee tattiche del tempo, dove i trequartisti stanno sparendo e l’atletismo è sempre più importante. «Era un calciatore super intelligente, per cui non aveva bisogno di una collocazione, occupava lo spazio da destra a sinistra per fare quello che voleva» mi ricorda Giorgio. Questo Del Piero non ha più orpelli, tutto tende verso il gol e la vittoria, anche il ricamo non è mai fine a sé stesso. Quando gli chiedono di questo suo nuovo rapporto con il gol, Del Piero risponde solo: «È tutto. Non a caso i francesi lo chiamano but, che vuol dire scopo, obiettivo».
Presto ci si accorge che Del Piero è «il miglior giocatore della miglior squadra d’Europa» (con parole più o meno simili, questo me lo dicono tutti) e che il suo rivale più grande è Ronaldo il fenomeno, praticamente una cosa a parte, un alieno. In realtà la loro rivalità era iniziata qualche mese prima, al Tournoi de France (quello della punizione di Roberto Carlos e della foto con Maldini e Cannavaro lanciati in scivolata proprio su Ronaldo). Italia-Brasile finisce 3 e 3 e i due rubano la scena. Sembra quasi un uno contro uno a distanza, con entrambi che vanno in gol (2 volte Del Piero, una Ronaldo), ma che soprattutto vogliono continuamente stupire, alzare l’asticella della sfida: è un’anticipazione di quanto accadrà poi durante tutta la stagione.
Del Piero e la sua grande stagione sono raccontate anche in una puntata di Icone, sempre in collaborazione con Kappa.
L’incrocio tra i due è anche un incrocio di stili e modi di essere fenomeno. Il brasiliano ha avuto un impatto travolgente sul calcio, anticipando un futuro di atleti veloci e irresistibili che spostano miliardi e sono veri e propri marchi. Ronaldo è la stella del Brasile che si prepara a Francia ‘98, quello a cui è affidato l’ultima giocata nel famoso spot in aeroporto, che Pirelli piazza su quasi ogni cartellone del paese. E Del Piero allora? Meno immediato come personaggio e calciatore, «diventa la risposta italiana al Fenomeno» (Fabrizio) o «il Ronaldo italiano» (La Gazzetta dello Sport), anche a livello commerciale. La timidezza rimane un ostacolo, ma non può nascondersi. Mentre in campo continua a stupire, fuori cerca il suo stile: si fa crescere di nuovo i capelli, porta, come scrive Paolo Sollier, «basette impossibili che sembrano casuali e sono invece curatissime: come le sue traiettorie, figlie del piede e dell'allenamento».
In un documentario dal titolo Io Alex Del Piero (lui che odia essere chiamato “Alex”) si fa riprendere mentre gira di notte in motoscafo per Venezia indossando un completo nero e gli occhiali da sole o mentre palleggia sul tetto del Lingotto mentre un elicottero lo riprende dall’alto. È ospite speciale ai Telegatti, nuovo volto di Cepu, è al centro delle tantissime pubblicità che lanciano il mondiale di Francia ‘98. Addirittura Disney lo sceglie come protagonista di un telefilm a metà tra cartone e realtà in cui degli alieni scendono sulla terra per imparare a giocare a calcio in vista dei Mondiali e chiedono a Del Piero di insegnargli come si fa. È, scrive la Gazzetta dello Sport, "il figlio che tutte le mamme italiane vorrebbero avere", il prodotto ideale della provincia italiana che lavora sodo e non ha grilli per la testa.
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Enrico e Guido, juventini. Foto di Giuseppe Romano.
Ma la rivalità tra i due è soprattutto in campo. Il 23 dicembre 1997 Ronaldo vince il Pallone d’Oro, Del Piero è solo diciannovesimo. In Italia si grida allo scandalo, ma lui non fa una piega e segna una tripletta all’Empoli, superando il suo precedente record di gol stagionali, quando la stagione è appena a metà. Ma è il 15 febbraio che la sfida si accende. Ronaldo segna tre gol al Lecce il pomeriggio, Del Piero risponde la sera con una prestazione contro la Sampdoria da strabuzzare gli occhi. Dopo cinque minuti segna l’uno a zero, lasciando indietro tutta la difesa solo con il suo scatto; altri cinque e avvia l’azione del due a zero, poi si lascia andare a una partita di pura onnipotenza, chiudendo con un meraviglioso assist per Fonseca. È il Del Piero migliore di sempre, quello in cui potenza e tecnica hanno trovato lo zenit per restituire un calciatore universale, la cui tensione verticale è ipnotica.
Dopo quella partita arriva la benedizione di Lippi: «Del Piero», dice, «ha raggiunto la piena convinzione di essere un elemento decisivo, fondamentale e trainante nell'ambito della squadra. È questa consapevolezza a dargli tanta forza». Su La Stampa, il quotidiano degli Agnelli, scrivono “Non lo chiameranno più genio incompreso, campione alterno e soprattutto Talentino. Del Piero è Del Piero”. In un sondaggio i tifosi invocano di cambiargli il soprannome da Pinturicchio a Michelangelo. Lui si schernisce, dice «Sono calmo e tranquillo ma dentro di me c’è il fuoco». E il fuoco arriva.
Il 14 marzo, al Napoli, segna quello che secondo Fabrizio è il suo più bel gol della stagione. Del Piero riceve spalle alla porta poco oltre il centrocampo, con un tocco elude la pressione del difensore alle spalle e poi esplode come una molla: fermarlo è impossibile, anche se ci provano in quattro. Il 18 la Juventus va a Kiev, per affrontare la Dinamo nel ritorno degli ottavi della Champions League. Dopo l’1 a 1 dell’andata deve vincere: sarà un trionfo. Se la scena la ruba Inzaghi (tripletta), Del Piero prima fa assist, poi segna il gol della staffa, con un sinistro incrociato di controbalzo da fuori area, appena meno bello dell’assurdo lancio con cui lo imbecca Zidane, al volo con l’esterno del sinistro. Il 28 contro il Milan segna due volte per riportare la Juventus un punto sopra l’Inter in classifica, il secondo gol è una punizione che sembra finta, col pallone che gira sopra la mano protesa di Rossi e si infila all’incrocio.
Nel giro di due settimane, nel momento decisivo della stagione, Del Piero, se possibile, è diventato ancora più decisivo. «Era qualcosa di incredibile in quelle settimane, sapevi che avrebbe fatto almeno uno, due o tre gol». E i tre gol arrivano: il primo marzo al Delle Alpi c’è il Monaco dei ragazzi terribili Henry e Trezeguet per decidere chi andrà in finale di Champions League. Del Piero, che dei due è solo leggermente più grande, non ha nessuna intenzione di fare strada. Dopo circa mezz’ora segna di nuovo su punizione, una parabola che gli esce dal piede come una poesia. Barthez, che si era mosso anche prima, può solo sfiorare. Come sfiorerà i successivi due gol di Del Piero in quella partita. Dopo il terzo la telecamera lo inquadra mentre allarga le braccia sconsolato. Dal suo labiale si può chiaramente leggere la frase «Ce n'est pas possible». Non è possibile.
Del Piero intanto è scappato ad esultare sotto la curva, le braccia larghe, i capelli mossi dal vento, la maglia che si gonfia nella corsa. L’anno in cui Del Piero si prende la Juventus coincide con quello in cui Kappa, che veste il club dal 1978, decide di rivoluzionare quello che è il monolite della sua riconoscibilità: le strisce bianche e nere, e di farlo proprio nell’anno del centenario (a cui dedicherà una speciale maglia rosa). Via quelle classiche e strette da 5 centimetri, dentro «grandi striscioni». Lo sponsor Sony è stampato e ci ricorda che nel mondo sono sbarcati i minidisc (spoiler: non sarà un successo). Lo stile è ampio e vaporoso, come andava di moda allora per le maglie da calcio, accentuato ancora di più dalla rete traspirante ai lati che lascia entrare l’aria mentre corrono e che li fa sembrare dei “gobbi”, come il celebre e non tanto benevolo soprannome.
«Quella maglia lì era la classica maglia larga del calcio di quegli anni. Quando vedi Del Piero con quella maglia: sono gli anni '90». Questo me lo dice Emanuele Ostini, che di Kappa è designer e che per anni ha lavorato sulle maglie della Juventus, a stretto contatto con quei calciatori (parole che userà per descrivere Del Piero: «disponibile, gentile, riservato, concentrato sul calcio»). È una maglia simbolica, che quasi chiude gli anni ‘90 (basta pensare che appena due anni dopo il brand torinese concepirà la maglia “Kombat” quella attillata ed elastica indossata la prima volta dalla Nazionale a Euro 2000 e che li fa sembrare dei supereroi). Eppure, se oggi quella maglia è un'icona di una certa idea di calcio e di stile (e di Del Piero), all’epoca fu considerata «una maglietta di rottura: rigoni, era impossibile». «Non piaceva a nessuno», mi dicono i tifosi con cui parlo, «la Juve aveva le righe strette».
Nel calcio è sempre difficile rompere la tradizione, con una squadra come la Juventus poi è quasi impossibile. Le critiche raccolte furono diverse: «Ai tempi era insultatissima… dicevano che sembrava l'asse di un WC». È sempre Ostini a parlare, riferendosi al retro, dove il lettering del nome dei calciatori circondava il numero come un ovale. Oggi però quella maglia ha un posto speciale nei ricordi dei tifosi («Vista adesso invece mi piace molto» mi conferma Enrico quando la rivede e la tiene in mano) forse anche per come giocava quella Juventus e, soprattutto, per come giocava Del Piero: dopotutto una maglia da calcio non è mai un prodotto neutro, quanto piuttosto una scatola di ricordi, una madeleine delle nostre vite («Ehhh ragazzi mi fate tornare indietro... » mi dirà invece Alfonso, senza nascondere l’emozione mentre la tiene tra le mani).
Quelli segnati a Barthez al Delle Alpi sono i gol 21, 22 e 23 di Del Piero in Champions League che ne fanno, a 23 anni, quello che ne ha segnati di più con la maglia bianconera, superando il suo idolo Platini (che in tribuna dice «ma è un 9, io ero un 10»). La Gazzetta titola La Juventus ha il nuovo Platini. L’attacco dell’articolo è questo: “Affermare che Alessandro Del Piero è un campione è come sostenere che Maria Grazia Cucinotta è uno schianto. Troppo banale, troppo scontato, è sotto gli occhi di tutti”. Lui dice solo: «grazie alla squadra». Non c’è però neanche il tempo di respirare. Del Piero deve darsi da fare anche al ritorno, che sembrava una formalità e invece si è complicato. Prima partendo da sinistra rifinisce con grazia per Amoruso, poi si mette ancora in proprio, segnando con un’acrobatica semirovesciata che spedisce la Juventus in finale. È il decimo gol in nove partite di Champions League, numeri che in Europa non si sono quasi mai visti e che lo renderebbero indubbiamente il miglior calciatore al mondo, se non ci fosse quell’altro.
Il giorno prima Ronaldo aveva danzato nel fango di Mosca, segnando una doppietta contro lo Spartak e portando l’Inter in finale di Coppa Uefa. A questo punto i numeri dicono 30 gol stagionali per Del Piero, 29 per Ronaldo. La Juventus è in finale di Champions, l’Inter in finale di Coppa Uefa; in campionato sono distanziati da un punto (66 a 65). Esce anche la notizia che Sir Alex Ferguson sarebbe disposto a spendere 54 miliardi per portare Del Piero al Manchester United («È l'unico per cui avrei fatto follie», avrebbe detto anni dopo), una cifra che supererebbe i 50 spesi da Moratti per Ronaldo appena un anno prima. I due sono così vicini, in un duello così ravvicinato, che l’incrocio del 26 aprile tra Inter e Juventus non può che caricarsi di un significato straordinario. Non solo le due squadre si sfidano per lo Scudetto in una specie di finale (anche se alla Juventus basterebbe il pareggio per rimanere davanti), ma Del Piero e Ronaldo si giocano la significativa, per quanto simbolica, palma di miglior calciatore al mondo.
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Le maglie Kappa di quegli anni. Foto di Giuseppe Romano.
La partita che ne esce fuori è una delle più famose della storia del calcio italiano. È la partita del contatto tra Iuliano e Ronaldo, di tutte le polemiche che seguiranno e che a oltre 25 anni di distanza non sono ancora del tutto sopite. Ma è anche una partita di una tensione e di un’importanza esagerata, che Del Piero decide con «un gol assurdo, dal lato sinistro dell’area da dove era difficilissimo segnare». È però anche un gol che «nessuno ricorda», offuscato inevitabilmente da quanto accadrà dopo. Se lo ricordano però bene i tifosi bianconeri di ieri e di oggi, per cui quel gol è l’immagine che pone Del Piero al di sopra di tutto: delle polemiche, del chiacchiericcio, di Ronaldo. Se di tutto si può discutere, di Del Piero non si può discutere. Da quel giorno sarà sempre così, nella buona e nella cattiva sorte: è il Del Piero «che decide le partite che contano», che «quando deve esserci c’è». È lui a portare il venticinquesimo Scudetto a Torino, a mettersi, o provare a mettersi, sullo stesso piano di Ronaldo, che nel 1998 è come cercare di raggiungere il sole.
E forse c’è qualcosa di Icaro nel finale, nella finale. Ad Amsterdam contro il Real Madrid, quello che doveva essere l’incoronamento per Del Piero si trasforma in una abdicazione metaforica. La Juventus parte forte e schiaccia gli spagnoli nella loro area di rigore. Del Piero c’è ma poi all’improvviso scompare dalla partita, stritolato dalla marcatura di Hierro. Il difensore lo segue come un’ombra e quando non ci arriva con le buone lo fa con le cattive. È un altro aspetto di quella stagione: «Mi ricordo che lui sempre, soprattutto in Europa, prendeva una quantità di botte irreale. Lo intimidivano. Lui però non ha mai reagito». Ai difensori in quegli anni è permesso molto di più e Del Piero lo sperimenta sulla sua pelle.
Con lui fuori dalla partita, la Juventus è fuori dalla partita, perché in quel momento la Juventus è Del Piero. È un fantasma rispetto allo stato di grazia degli ultimi mesi, come è possibile? Un indizio arriva nel secondo tempo, quando una telecamera lo riprende fuori dal campo mentre si fa energicamente trattare la coscia dal massaggiatore. Poi torna in campo e assiste inerme al gol vittoria di Mijatović e alla festa degli altri.
Intercettato al ritorno, nella notte di Torino, Del Piero è nero, ma non si nasconde: «Il Real ha meritato. Io? Non ho fatto una gara buona, anzi. E questo mi dà molto fastidio». Non usa giri di parole, o scuse come l’infortunio e il possibile fuorigioco sul gol del Real (le immagini non chiariranno mai). «Quando si è infortunato col Real Madrid», mi racconta Fabrizio, «lì ho capito chi era Del Piero, la sua importanza. Dopo il suo infortunio siamo usciti dal campo, e lì è iniziato il suo calvario».
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Marialaura, Diego e Alfonso, juventini. Foto di Giuseppe Romano.
Il suo calvario. È stata la migliore stagione della sua vita, ma si chiude con il gusto amaro della delusione, che per Del Piero diventerà familiare. C’è infatti un appendice a questa storia, un proseguimento che ogni tifoso conosce e che fa parte della storia di Del Piero. L’infortunio, che si scopre essere uno stiramento all'adduttore, condiziona la preparazione al Mondiale, l’evento che doveva aggiungere una patina epica alla sua stagione. Per Del Piero invece sarà un disastro, non solo per le prestazioni in campo, ma per il dualismo con Baggio, che lo distrugge. C’è molta ironia, o fato, o destino, o malignità in quel Mondiale: Del Piero, che nel 1997/98 si era scrollato definitivamente di dosso Baggio, nel giro di un mese se lo vede piombare di nuovo sulle spalle. A Ronaldo, che in Francia ci andava per mettersi nel discorso con Pelé e Maradona, andrà anche peggio, con l’attacco epilettico prima della finale. A prendersi tutto sarà allora Zidane, che per tutta la stagione era rimasto nascosto.
Il calcio però, per fortuna o sfortuna, va avanti per stagioni e il riscatto è sempre possibile. Del Piero e Ronaldo si presentano a settembre tirati a lucido: il 1999 sarà il loro anno. La loro sfida e quella tra Inter e Juventus impazza sui giornali e in televisione. Per quanto oggi possa suonare blasfemo è una versione pre-internet di Messi e Ronaldo, Real Madrid e Barcellona. Con grande senso scenico, poi, in estate Moratti ha messo vicino al brasiliano proprio Roberto Baggio.
Non si fa in tempo a iniziare, però, che è già finita. Per inseguire un pallone a Udine, l’8 novembre 1998 Del Piero si frantuma i legamenti crociato anteriore e posteriore del ginocchio. L’immagine di lui a terra che si tiene con una mano il ginocchio e con l’altra chiama l’aiuto di qualcuno mentre urla rimarrà per sempre negli occhi dei tifosi. «In quel momento ero convinto di poter sentire il suo grido di dolore». Un infortunio terribile che lo terrà fuori dal campo a lungo e che ci restituirà un Del Piero senza più certezze.
Un anno dopo a Ronaldo toccherà un destino simile, il ginocchio che salta e ci lascia con i se. Sebbene tutti e due avranno due carriere incredibili e incredibilmente vincenti, quella sensazione di onnipotenza ritornerà solo a sprazzi. Non più Del Piero vs Ronaldo come climax del calcio del 2000, ma Del Piero e Ronaldo come due reduci, la cicatrice sul ginocchio e il dubbio su quello che poteva essere. Soprattutto Del Piero non riuscirà mai più a entrare in una discussione con Ronaldo, che rimane ancora un unicum nel gioco del calcio, o, comunque, a essere inevitabilmente tra i primi due-tre giocatori al mondo.
Quella stagione, però, resta vivida nella memoria dei tifosi, qualcosa da conservare e tramandare. Marialaura mi racconta come lo zio «la catechizzava» sul dualismo tra Ronaldo e Del Piero, sul fatto «che prima dell’infortunio era uno dei calciatori più forti del mondo» e che non c’era differenza tra i due; Giorgio ci tiene a ricordare che quando poi si ritroveranno da avversari - la stagione 2001/02, la semifinale contro il Real Madrid del 2003 - a vincere e decidere sarà sempre Del Piero: «E Ronaldo dov’era lì?»; per Fabrizio il fatto che Del Piero sia riuscito a stare al passo di Ronaldo, di quel Ronaldo, «ti dà comunque la dimensione di un grandissimo campione: una seconda punta che passa per un centravanti a suon di gol».
Si è discusso moltissimo intorno all’ infortunio di Del Piero, se abbia o meno tolto alla Juventus qualcosa che poteva essere ancora più eccezionale e esserlo molto a lungo. I numeri ci dicono di sì: Del Piero non segnerà mai più così tanto. Ma è facile anche andare oltre: non sarà mai più così veloce, così forte, così onnipotente. Altre versioni saranno altrettanto decisive, in quella maniera in cui sanno reinventarsi i fenomeni, ma il dubbio su cosa potesse essere rimane. Tutto questo, però, a chi ha conosciuto, amato, sostenuto e tifato Del Piero non interessa. L’aspetto tecnico è solo una parte della storia, quella meno importante: «l’amore è rimasto lo stesso» mi dicono tutti, ed è questa, mi sembra, la vera grandezza.