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Kappa Icons: Gianluca Vialli 1989/90
21 feb 2024
Il racconto della storia d'amore tra Gianluca Vialli e la Sampdoria.
(articolo)
17 min
(copertina)
Foto Imago / Buzzi / Elaborazione grafica UU
(copertina) Foto Imago / Buzzi / Elaborazione grafica UU
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‘Kappa Icons’ è una rubrica di Ultimo Uomo realizzata in collaborazione con Kappa. Lo storico brand di Torino ci ha aperto le porte del proprio archivio, chiamato Basic Gallery, e ci ha permesso di tirare fuori le maglie e di portarle per le strade. Abbiamo raccolto le maglie di 4 giocatori iconici che hanno indossato Kappa. Le abbiamo portate a Milano, Torino, Genova e Roma. Le abbiamo fatte toccare e indossare a chi quelle maglie ha dato un significato: i tifosi.

Abbiamo parlato con loro, facendoci raccontare le storie e le memorie che nascono da queste maglie, e dai giocatori che le hanno indossate, concentrandoci su una stagione in particolare.

Nella prima puntata siamo andati a Genova, per tornare sui luoghi di Gianluca Vialli: i suoi ristoranti, i suoi bar, le sue strade, la sua gradinata. Abbiamo parlato col popolo che lo ha amato di più, quello della Sampdoria. Abbiamo cercato di raccontare il biennio 1988-1990, e la stagione 1989/90 in particolare. Tutte le fotografie sono di Giuseppe Romano.

«Erano i giorni in cui quando andava male vincevamo», dice Alice Castellani, 80 anni, con lo sguardo di chi sembra cercare e poi anche vedere qualcosa dove non c’è niente, come se stessero all’improvviso proiettando il passato direttamente sul muro. Parla dalla pancia dello stadio, dentro la sede del Federclubs della Sampdoria, mentre distribuisce bandiere, biglietti, saluti, zaini, buffetti, rimbrotti e pacche a tifosi blucerchiati di ogni età che di lì a poco assisteranno a una brutta sconfitta con il Parma in una fredda serata di Serie B.

I giorni di cui parla la signora Alice erano quelli felici, spensierati, genovesi, ma soprattutto sampdoriani, di Gianluca Vialli. Uno per cui, nella metà blucerchiata della città, vale una variante della regola per cui si piange due volte, quando arrivi e quando te ne vai. Per Vialli, in Gradinata Sud, cuore del tifo doriano, si è pianto anche di più: quando c’era - perché mai si sarebbe pensato di gioire (e vincere) così tanto -, quando se n’è andato alla Juve e quando - poco più di un anno fa - se n’è andato per sempre. Ma basta nominarlo, evocarlo e si piange ancora oggi per Luca, figlio prediletto di una città di cui lui - cremonese di nascita - non era nemmeno figlio. A dimostrazione che spesso le famiglie si scelgono, ti scelgono. E quando parlano di te, ti spogliano del cognome e di un pezzo di nome perché è casa. E a casa nessuno ti chiama per cognome.

Alice stringe tra le mani la maglia Kappa della stagione 1988/89 indossata da Vialli e le trema la voce mentre dice: «Quella del record di reti». Ed è proprio così: 33 gol in 52 partite, un’enormità nel calcio anni Ottanta, con ben 13 gol (in 14 gare) nella Coppa Italia formato extralarge dell’epoca, che fanno di Vialli il miglior marcatore stagionale della storia della competizione (dietro di lui Giuseppe Savoldi, 12 reti con il Napoli nel 1977-78, e un vecchio centravanti laziale che oggi sembra un refuso, Humberto Tozzi: 11 reti nel 1958).

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Le incredibili maglie della Sampdoria tra 1988 e 1990. Foto di Giuseppe Romano.

Sul bancone c’è invece la maglia Kappa della stagione 1989/90, quella in cui Vialli, con sette reti (capocanonniere) trascinò la Sampdoria alla vittoria della Coppa delle Coppe; l’anno dopo sarà il miglior marcatore del campionato, 19 gol che portano in dote lo Scudetto. E tra i tifosi è tutto un rimpallo tra “quel gol a San Siro” (contro l’Inter, nello scontro diretto vinto 2-0 che lanciò definitivamente la Samp) e “quell’altro con il Lecce” (il 3-0 nella vittoria-festa a Marassi). Ma è la doppietta di Göteborg, nella finale con l’Anderlecht, il ritornello che si ascolta più spesso.

C’è però un altro gol dall’aura mitica che è una specie di trailer di Vialli e di quelle stagioni. Fu segnato il 24 gennaio 1988, non al Bernabeu in una vittoria contro il Real Madrid, ma al Castellani di Empoli, in una partita peraltro finita 2-2, quasi una delusione per la Sampdoria di quegli anni, eppure…

Quel giorno al Castellani venivano registrati 10.782 spettatori, ma - a sentire parlare oggi i sampdoriani - c’erano tutti: grandi e piccini, moribondi e nascituri, single e sposati, stakanovisti e disoccupati, stipati chissaddove, come a quei concerti mitici degli anni Ottanta (Bob Marley e Bruce Springsteen a San Siro, i Rolling Stones a Torino nella notte di Italia-Germania, i Pink Floyd a Venezia...) a cui tutta una generazione sembra aver trovato posto, o almeno così le piace far credere, mentendo persino a se stessa.

Quel gol di Vialli è una roba da lacrime agli occhi, se sei sampdoriano. Infatti si commuove, mentre lo racconta, Nando Maccanti, ristoratore, figlio di Aldo “il Toscano”, titolare di una delle trattorie simbolo della città. Nel magazzino adiacente al ristorante, mentre Nando parla, se ti guardi intorno è tutto un collage di adesivi vecchi e nuovi, formazioni indimenticabili e dimenticabili, sfottò ai genoani e l’onnipresente Baciccia (il pescatore con la pipa, simbolo della squadra) in formato gigante: «Quel giorno ero con mio papà. Faceva un freddo. Eravamo sotto 2-0, poi su un corner da destra, Vialli va in cielo, facendo la rovesciata più bella che io abbia mai visto. E lui ne ha fatte tante eh. Qualche minuto dopo pareggia sempre lui. C’era lo sciopero della Rai quel giorno, quindi quel gol per un po’ restò solo nostro, di chi era allo stadio».

Quando il padre entra nel magazzino, Nando ha gli occhi lucidi e parla del «carisma unico di Vialli. Detto da un manciniano doc come me poi...». Aldo chiede che succede e anche a lui viene chiesto di ricordare “il suo gol” di Vialli. Non ci pensa un attimo: “La rovesciata di Empoli”. No, non si erano messi d’accordo. Scoppiano entrambi a piangere, padre e figlio, uno con l’accento toscano (perché è da lì che arriva Aldo) e l’altro ligure, uniti dal sangue, dalla Sampdoria e da una rovesciata di Vialli.

Padre e figlio sono anche Carmine e Marco Vaccaro. Carmine è un nome che ti dice inevitabilmente qualcosa se hai vissuto gli anni di quella Sampdoria, perché alla “Da Carmine” era il porto sicuro di Vialli e Mancini, il ristorante dove si riunivano i cosiddetti Sette Nani (il gruppo ristretto di amici, che comprendeva anche il difensore Mannini, in cui il centravanti era Pisolo e il numero 10 Cucciolo) e un po’ tutta la squadra. Anche qui, giù lacrime quando Carmine ricorda l’ultima cena: «Era il 27 novembre del 2022, si festeggiava il compleanno di Mancini e l’uscita de La Bella Stagione (il documentario che racconta la cavalcata dello Scudetto, ndr). Alle dieci di sera bisognava ancora tagliare la torta, ma Luca non resistette e se ne andò. Era stanco. Si capiva benissimo che era venuto a salutarci per un’ultima volta». «Era un uomo straordinario» prosegue Carmine «Nell’anno dello Scudetto si era infortunato con la Nazionale. Ma si vedeva che era l’anno in cui doveva e voleva vincere qualcosa di importante. Ogni giovedì veniva tutto il gruppo, quello dei Sette nani. Io quell’anno avevo un sovraccarico di elettricità e verso le dieci di sera saltava puntualmente la luce così andavo dove c’era il quadro a riaccenderla. Poi risolsi il problema e la corrente non saltava più. La squadra, che volava, in quel periodo iniziò a incepparsi. Perse in casa col Torino e poi a Lecce, pareggiò con la Lazio. Un giorno Luca mi chiese come mai non saltava più la luce. Andò a finire che mi mandava lo stesso di là a spegnerla e poi a riaccenderla anche se funzionava tutto. La squadra ricominciò a vincere».

Al bancone del ristorante c’è il figlio Marco, 34 anni, che il Vialli sul campo non ha fatto in tempo a vederlo, eppure ha ricordi per cui un sampdoriano baratterebbe vecchi abbonamenti e chissà cos’altro: «Ero in sala, avrò avuto 5-6 anni, non di più. Luca mi metteva uno stuzzicadenti sotto un tovagliolo e poi mi diceva ‘spezzalo’. Io lo spezzavo e lui, con una magia delle sue, come faceva evidentemente sia in campo che fuori, mi diceva ‘tira su il tovagliolo’. Quando guardavo, ritrovavo lo stuzzicante intero. Ancora devo capire come facesse. Lo so, è un piccolo aneddoto, ma che pochi possono avere. E me lo tengo stretto».

Dalla terrazza del ristorante si vede il molo di Quinto, dove oggi campeggia un murale dedicato a Vialli a cui i tifosi, non solo sampdoriani, vanno a rendere omaggio, lasciando sciarpe, poesie, braccialetti e bandiere con sopra vecchi cori da stadio («Luca Vialli alé alé, noi ti amiamo e ti adoriamo, tu sei meglio di Pelé...»).

Il molo di Quinto. Foto di Giuseppe Romano.

Un altro luogo del ricordo si trova sotto la Gradinata Sud, dove dalla morte di Vialli, nel gennaio di un anno fa, si è formato un memoriale spontaneo, fatto anche questo di ricordi personali, ninnoli blucerchiati e - soprattutto - sciarpe, che molti tifosi annodano al collo come se l’annodassero all’anima. È il caso di Giuseppe Pretta, uno dei tanti sampdoriani che andò è tornò da Wembley per assistere alla sciagurata notte del gol di Ronald Koeman che consegnò la Coppa Campioni al Barcellona: l’ultima partita di Vialli in blucerchiato. Giuseppe quella notte indossava una sciarpa - la stessa dei trionfi degli anni precedenti - che, racconta la figlia Lucrezia, «pensavo un giorno potesse diventare la mia. La puntavo da sempre, perché sono quelle cose che passano di generazione in generazione, di padre in figlia». Lucrezia e papà Giuseppe si sorridono complici: «La sciarpa l’ho lasciata lì, dove doveva stare, nella Sud». «E mi dispiace - aggiunge lei -, ma quel gesto lo capisco. Anzi, non lo capisco. Ma papà c’era e io no. E se ci fossi stata so che capirei».

Per Pina Calandra, titolare dell’attività commerciale più vicina alla Sud, un autolavaggio all’angolo con i distinti, «Luca Vialli è l’amore mio». Dietro di lei, nell’ufficio che somiglia in tutto e per tutto a un botteghino dello stadio, una serie di santini blucerchiati, dove Vialli è - ovviamente - il più presente e venerato. E lei, in tema con il quadretto, tocca le due maglie del numero 9 come fossero reliquie. Poco più in là, all’angolo tra il torrente Bisagno e via Monticelli, a due vie e quattro case di distanza dallo stadio, c’è un portone dove sta entrando un casco blucerchiato. Sotto a quel casco c’è Andrea Erriu, 20 anni: troppo giovane per averlo visto giocare, l’amore per Vialli è arrivato per osmosi, assorbito dai racconti del padre Roberto, 51 anni, che quell’epopea l’ha vissuta in pieno e se la porta anche tatuata sul braccio. Andrea chiama papà che scende praticamente in pigiama a raccontare del perché vivono in quel palazzo («facile, tra quelli in vendita era il più vicino allo stadio») e di quando Luca segnava sempre, in Italia e in Europa.

Già, in quel periodo di grazia, i numeri di Vialli nelle Coppe europee sono una dimostrazione plastica del fatto che i gol si contano, per carità, ma soprattutto si pesano: suo quello del 2-0 che scaccia i fantasmi al ritorno del primo turno con gli svedesi del Norkköping (dopo una sconfitta per 2-1 all’andata); suo il rigore a dieci minuti dalla fine che evita una sconfitta nell’andata degli ottavi contro i tedeschi dell’est del Carl Zeiss Jena e suo il terzo gol che chiude i giochi al ritorno (finirà 3-1); ancora suo, nei quarti di finale, il contestato pareggio al 90’ a Bucarest contro la Dinamo, gol decisivo visto che al ritorno - senza Vialli squalificato - finirà 0-0; suo il gol che in semifinale dà ossigeno a una Samp boccheggiante, e sotto 2-0, in casa dei campioni in carica del Malines, aprendo la strada alla rimonta per 3-0 al Ferraris; l’unica squadra a cui non segnerà, e a posteriori suona come una maledizione, è il Barcellona nella finale di Berna.

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La storia del tifo è una storia di legami genitori e figli. Li abbiamo fotografati. Foto di Giuseppe Romano.

Vialli si rifarà esattamente 365 giorni dopo con la doppietta nella finale contro l’Anderlecht in una rincorsa durata due edizioni più i supplementari all’ultimo atto. D’altronde, come dice la signora Alice, in quegli anni quando andava male si vinceva: la Coppa Italia nel 1988, un’altra Coppa Italia nel 1989, la Coppa Coppe nel ’90, lo Scudetto nel ’91. Non c’era stagione in cui si restava a mani vuote.

Il “momento Vialli” di Silvia Bruzzone, all’epoca poco più che una bambina, non erano i gol, ma le esultanze: «Ricordo le serate di coppa sul divano, le uniche in cui potevi abbuffarti di calcio in tv in un’epoca in cui la Serie A la vedevi allo stadio oppure a pezzetti a 90esimo Minuto e alla Domenica Sportiva. Avevo un debole per la voce di Bruno Pizzul in telecronaca, soprattutto quando segnava Luca, come diceva Vialli lui non lo diceva nessuno. Mi esaltavo poi per le corse a perdifiato verso la gradinata, un’immagine che più viallesca di così non si poteva: la mano con il polsino bianco da tennista che si agitava per caricare i tifosi, i pantaloncini tirati un po’ su, i calzettoni tirati completamente giù. Pura gioia, sua e nostra. Oggi quando segnano sembrano tutti incazzati».

Matteo Basso, uno di quelli che non mancava mai, a Marassi e in trasferta, ricorda invece una rete all’Ascoli: «Luca fece partire un tiro dal limite dell’area talmente forte e dritto che mi sembrava di guardare Holly&Benji. La palla scomparve dalla nostra vista e la ritrovammo in porta. Ho rivisto quel gol nei filmati dell’epoca e resta sempre la stessa sensazione, perfino il portiere sta lì impalato. A volte mi viene il dubbio che debba ancora accorgersene».

Nella stagione 1989/90, Matteo, studente con qualche soldo in tasca, riusciva ad organizzare anche trasferte impegnative: «Quell’estate anno andammo a Bergen in macchina a vedere il primo turno con il Brann. Il risultato lo sbloccò Luca con un tiro in mezzo alle gambe del portiere. Il viaggio di andata fu un’Odissea, ma ne valeva sempre la pena, per quel che succedeva in giro e quel che faceva la squadra in campo. Quando tornammo dalla Norvegia facemmo rotta su Udine anziché su Genova perché la Samp domenica giocava in campionato», prosegue Matteo. «Maledicemmo noi stessi quando a metà primo tempo ci trovammo sotto 3-0, poi risalimmo fino al 3-3, anche grazie a Vialli».

Quell’anno il numero 9 segnò anche contro il Verona: spalle alla porta, sul lato sinistro del campo, aggirò l’avversario, entrò in area e poi col destro infilò il palo lontano con una precisione da giocatore di biliardo. A impressionare, di quella rete, è come sia la giocata a specchio del gol che segnò a Euro ‘88 contro la Spagna: identico in tutto e per tutto, solo che quello a Verona fece col sinistro, in Nazionale lo fece col destro.

Dopo il gol alla Brann, Vialli realizzò due doppiette fondamentali per il percorso in Coppa Coppe, contro Borussia Dortumund (ottavi) e Monaco (in semifinale). In entrambe le gare segnò su rigore, ma non tutti ricordano come: facendo il cucchiaio alla Totti e alla Pirlo “before it was cool”. E farlo una volta va bene, ma rifarlo - tale e quale - quando sei sotto di un gol a pochi minuti dalla fine di una gara che vale una finale, ci vuole coraggio.

Quando poi sbaglierà, in modo tragicomico, com’è inevitabile che sia in quei casi, calciando addosso a Marchegiani del Torino rimasto fermo in mezzo alla porta, arriveranno le critiche. Ma lui se la cavava sempre con un sorriso: ne sbagliò uno (poi ininfluente) anche con la Fiorentina, colpendo il palo. E quando l’intervistatore compiacente a fine partita gli riferì che molti lo assolvevano dando la colpa al campo per l’errore, Vialli sorrise e ribatté: «No, no, colpa del piede».

Non si tirava mai indietro quando si trattava di prendersi responsabilità e colpe. Lo faceva da giocatore, l’ha fatto anche dopo, quando non era richiesto, come racconta Erica Romeo, 23 anni e un’idea di Vialli che dovrebbe essere annacquata dal tempo, dagli anni alla Juventus, in Inghilterra e poi negli studi di Sky. E invece no: «Quando è morto Vialli ci è caduto il mondo addosso, anche perché è successo durante una stagione che era iniziata male e stava proseguendo peggio. Sembrava non la “bella”, ma la “brutta stagione”. È il momento in cui abbiamo avuto paura anche del fallimento, perché il pensiero di tutti era, ‘finché c’è Vialli non ci succederà niente, lui non permetterà mai alla Samp di sparire’. Io sono giovane e Vialli non l’ho mai visto giocare, ma sapere che c’era ci infondeva sicurezza. Eravamo commossi per la sua morte, ma ci siamo commossi anche per la vicinanza di tutte le altre tifoserie».

La morte di Vialli, come poi quella di Riva, ha saputo fare da collante, eliminando dissapori e rivalità. Ma, cosa ancor più incredibile, è stato un lutto identificato con la Samp come quello per Riva è stato orgogliosamente sardo e cagliaritano, con la differenza che Riva aveva giocato solo lì, mentre Vialli no.

«La comunanza con i nostri valori era totale. Li incarnava perfettamente, come il presidente Mantovani» - dice Sabina Minelli di Federlcubs. «Vialli era passione, attaccamento alla maglia, ma anche leggerezza. Io negli anni d’oro della Samp ero una ragazzina, e me lo ricordo bene Vialli passeggiare per le vie del centro, fermarsi con tutti, firmare autografi, sorridere, sentirsi parte di qualcosa e goderselo. Io Mancini lo adoro, ma lui mica me lo fece l’autografo, e la ragazzina di 14 anni che è in me è ancora arrabbiata con lui. Con Vialli era impossibile arrabbiarsi, anche quando se ne andò. Per lui la nostra maglia è rimasta sempre una seconda pelle».

La coreografia dedicata a Gianluca Vialli durante Sampdoria-Parma, a circa un anno dalla sua morte.

La maglia della Samp finisce spesso nelle classifiche delle più belle del mondo, ma quando si tratta di scegliere una stagione specifica, molti pensano proprio a quella del 1989/90: «Sarà l’estetica del periodo, il logo Kappa e lo sponsor Erg, la nostalgia di quel tessuto che sui campetti di periferia indossavamo anche noi. O la coccarda cucita sul petto. Sono ricordi condivisi, io e Vialli ad esempio siamo coetanei, nati a una settimana di distanza». A parlare è Marco Porsia, che con un bicchiere di vino in mano aspetta che si avvicini l’orario di Samp-Parma per andare allo stadio. Anche lui mette la finale di Göteborg tra i ricordi più felici: dimostrazione che i gol possono esseri brutti (come il primo di Vialli in quella finale, dove sradica il pallone dalle mani dal portiere, al limite del fallo, e poi segna in modo sporco da pochi centimetri) o banali (come il secondo, un colpo di testa con il marcatore lontano su un cross dal fondo come tanti), ma a contare è dove e quando li segni. «Luca lo ringrazierò sempre per Göteborg e per averci resi orgogliosi del giocatore e dell’uomo». Mentre parla, guarda il figlio Bruno giocare a calcio in piazzetta con addosso la maglia che fu davvero di Vialli, grande quattro volte lui.

Dentro lo stadio, nel giorno in cui la società decide di omaggiare Vialli con un collage di sue foto nei numeri indossati dai calciatori e la Gradinata Nord espone un enorme striscione con il numero 9, ci sono anche Aldo il Toscano e il figlio Nando.

Poche file più in basso c’è un ventenne con un accento che arriva da lontano: “Trieste”, dice. Non è a Genova per lavoro né in vacanza. È a Marassi apposta per la partita: «Da casa mia a qua sono 547 chilometri». È venuto con il padre: sei-sette ore di auto a seconda del traffico e delle pause che fai. «Veniamo 4-5 volte l’anno. Lo faremmo anche più spesso, ma non è facile». Il ragazzo si chiama Luca, “per Vialli” ci tiene a precisare. Quando scopre che il padre potrebbe tenere tra le mani una maglia originale indossata da Vialli, telefona alla madre, che le risponde: «Diglielo quando è seduto che sennò sviene».

Abbiamo raccontato la stagione 1989/90 di Gianluca Vialli in una nuova puntata di Icone, sempre in collaborazione con Kappa.

Papà Alessandro ha 55 anni e ha vissuto l’epopea della Samp di Vialli fin dall’inizio. «Venivo da una famiglia di juventini, ma proprio non mi piaceva mica stare con chi ha più soldi e potere. Ero un bastian contrario, cercavo una squadra antisistema da tifare. M’innamorai della Samp quando era ancora in B, per via della maglia, poi Mantovani comprò Liam Brady, giocatore sublime, e Mancini, ovviamente. Vedevo la squadra crescere ogni anno sempre di più fino a sbocciare. Era bella, simpatica, sfrontata. Vialli fu il tassello fondamentale».

Alessandro si infila la maglia del suo idolo e piange, mentre il figlio Luca lo riprende col cellulare e piange: «Poi lo mando alla mamma, così piange pure lei... Una leggenda di famiglia dice che papà fece scegliere a mia madre fra tre nomi, Gianluca (Vialli), Roberto (Mancini) e Toninho (Cerezo)». Ride. «Lei voleva un nome corto e alla fine il compromesso: Luca». Mentre la Samp sul campo perde, Alessandro e Luca si abbracciano commossi come se i blucerchiati fossero tornati ai tempi di Vialli, a quei gol che valevano coppe, campionati e ricordi da tramandare di padre in figlio.

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