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Kareem Abdul-Jabbar, più di un atleta
16 lug 2020
La vita del sei volte MVP fuori dal basket è un antidoto agli stereotipi sul mondo dello sport.
(articolo)
19 min
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Che l’epopea degli anni Ottanta rappresenti il Big Bang della NBA per come la conosciamo oggi è opinione comune tra appassionati e addetti ai lavori, tanto da far spesso passare in secondo piano tutto ciò che era accaduto sui parquet della lega nei quattro decenni precedenti. Se Bill Russell e Jerry West sono figure storiche idealizzate in bianco e nero, distanti e quasi appartenenti ad un’altra dimensione cestistica, a Magic Johnson e Larry Bird viene universalmente riconosciuto il ruolo di padri fondatori della pallacanestro contemporanea. Quelli sono anche gli anni di “Doctor J” Julius Erving e di un giovane Michael Jordan, che di lì a non molto si sarebbe preso la NBA sulle spalle trasportandola verso il ventunesimo secolo, ma sono soprattutto gli anni della rivalità tra Lakers e Celtics.

La polarizzazione, anche su questa sponda dell’oceano, non lascia scampo: o si sta con i biancoverdi di Boston o con i gialloviola di Los Angeles. I protagonisti principali della rivalità sono sempre loro, Magic e Bird, Bird e Magic, ma le due squadre vantano cast di supporto eccelsi. Le battaglie durante le Finals propongono di volta in volta interpreti diversi, giocatori dal talento straordinario che affascinano il pubblico, sempre più avvinto dalle mille diramazioni di una saga che somiglia quasi a un romanzo cavalleresco. Tra questi personaggi così affascinanti, però, ce n’è uno che sembra essere fuori luogo in quella situazione: non ha il glamour di Magic o l’eleganza di Worthy, ma nemmeno la furia agonistica di Bird o la duttilità di McHale. Quel tizio dalla strana postura con la canotta numero 33 dei Lakers, che in campo indossa gli occhiali e ha un nome bizzarro, si muove a un ritmo diverso, spesso più compassato rispetto a quello di compagni e avversari, senza scomporsi o esultare, come se si trovasse lì per costrizione o per caso, trasportato da un’altra dimensione cestistica.

Notare l’esultanza sfrenata nel momento in cui diventa il miglior marcatore della storia NBA.

In un certo senso, Kareem Abdul Jabbar arriva davvero da un’altra dimensione cestistica. Perché quando Lakers e Celtics battagliano per il titolo lui si trova già dalla parte sbagliata dei 30 anni e ne concede in media dieci di vantaggio ai ragazzi su cui si misura. Jabbar, forse, appartiene all’epoca di Russell e West più che alla NBA che David Stern sta trasformando in una macchina da soldi e successo. Non è un caso che dopo una delle sue ultime prestazioni eroiche, gara-2 delle Finals 1985, Kareem risponda così a chi lo aveva bollato come un giocatore finito: «It’s good to know that you’re not dead», è bello sapere di non essere morti.

La separazione temporale non è comunque sufficiente a giustificarne l’estraneità alle circostanze. È difficile, per chi osserva da fuori, immedesimarsi con il centro dei Lakers, avvolto com’è da un'aura che lo rende un oggetto misterioso. Quella sensazione di isolamento dalla realtà che lo circonda, come se una coltre di incomprensione reciproca lo dividesse dal resto del genere umano, non è però nuova per Kareem Abdul-Jabbar; anzi, è la costante che lo accompagna, e lo accompagnerà, per tutta la sua esistenza.

Sono vasto, contengo moltitudini

Fin dall’inizio, la vita di Jabbar sembra una sceneggiatura adattata all’esigenza di confutare stereotipi e luoghi comuni. Kareem nasce con il nome di Ferdinand Lewis Alcindor Jr. nell’aprile del 1947 a New York. Inwood, porzione di Upper Manhattan che ospita i Dyckman Street Projects in cui muove i primi passi e vive la sua adolescenza. È quanto di più lontano dallo stereotipo di public housing che così spesso diventa l’ambientazione, anche un po’ enfatizzata, di molte storie con protagonisti atleti afroamericani. Tanto per cominciare il quartiere è a forte maggioranza irlandese, il tasso di criminalità è ampiamente nella norma e poi Inwood vanta una concentrazione di librerie con pochi eguali nella metropoli.

In quegli anni, all’estremo nord di Manhattan, cresce anche Jim Carroll, poeta e scrittore che proprio a Inwood ambienterà il suo lavoro più celebre, Basketball Diaries, memoir letterario con al centro la palla a spicchi. E i libri, ben prima del basket, sono la passione del giovane Lew, che legge molto e matura una spiccata familiarità con la solitudine. Alcindor Jr. è figlio unico, circostanza alquanto rara per l’epoca, non solo nella comunità afroamericana, e socializzare con i compagni di classe e i ragazzi del quartiere non è impresa semplice.

Ci sono due problemi: il primo, ovviamente, è rappresentato dal colore della pelle, l’altro è la statura. Già dalle elementari il futuro campione NBA svetta sui compagni e fatica persino a trovare spazio per le gambe sotto ai banchi di scuola. Cora Lillan, la madre, lavora in un grande magazzino mentre Alcindor Sr. fa parte delle forze dell’ordine cittadine. I turni sono impegnativi per entrambi e il tempo da trascorrere in famiglia non è molto, ma a Lew gli stimoli non mancano. Il padre in particolare trasmette al figlio l’amore per il jazz, altra passione che non lo abbandonerà mai. In realtà quella di Alcindor Sr. è più di una passione, perché il padre del futuro Hall of Famer vive quasi una doppia vita: è poliziotto e allo stesso tempo musicista, clarinettista in diversi ensemble che scorrazzano per i locali di New York.

Quello di non essere una cosa sola, di contenere moltitudini, come scriveva Walt Whitman, poeta molto amato dallo stesso Jabbar, è un’altra delle lezioni, forse la più importante, che il giovane Lew porterà con sé dal suo periodo formativo. Certo, poi ci sarebbe anche il basket, sport che Alcindor Jr comincia a giocare quasi perché costretto dall’altezza inusuale, e che lo porterà a diventare il miglior marcatore nella storia della NBA, ma quella è una storia già raccontata in numerose altre occasioni.

Bizzarre amicizie

La prima tappa nel percorso tra l’adolescenza e l’età adulta di Alcindor Jr. è alla Power Memorial, liceo cittadino di matrice cattolica, e rappresenta un microcosmo delle esperienze future che lo attendono. Lew, che quando varca per la prima volta la soglia della sua nuova scuola supera già i due metri d’altezza, domina sul parquet e diventa il liceale più chiacchierato d’America, predestinato a una carriera di successi. Al periodo trascorso tra le mura della Power Memorial risalgono però anche le prime esperienze con la scrittura, un saggio pubblicato da un giornale indipendente sugli Harlem Riots che nel 1964 sconvolgono l’epicentro black di New York, e quella con i contorti meccanismi della discriminazione razziale, qui materializzata nelle parole del coach e mentore Jack Donohue.

Il passo successivo pone Lew di fronte alla prima vera scelta della sua vita. Se quello alla Power Memorial era stato un approdo quasi naturale, al momento del diploma Alcindor Jr ha già ricevuto offerte da parte di tutte le migliori università del paese. La corsa per portarsi a casa quella che è stata ribattezzata “The tower from Power” la vince UCLA e nel 1966 Alcindor vola verso la California. A far pendere l’ago della bilancia in favore dell’ateneo di Westwood non sono tanto le mille luci di Los Angeles, città con cui Alcindor nutrirà a lungo un sentimento di amore/odio, quanto la presenza di John Wooden sulla panchina dei Bruins.

Wooden all’epoca è già considerato un santone che ha guidato i Bruins a due titoli NCAA consecutivi, e Lew mira a essere illuminato dalla sua sapienza cestistica. Contro ogni pronostico o immaginazione, tra i due nasce e si sviluppa un sentimento di profonda e autentica amicizia che durerà quasi mezzo secolo. A separare Wooden e Alcindor c’è prima di tutto l’anagrafe, ma il teorico divario tra i due è ben più ampio dei 37 anni di differenza. Il coach è quello che si definirebbe un esemplare modello della vecchia America bianca e tradizionalista, arriva da un paesino nell’Indiana, è profondamente religioso e ancorato a quelli che sono i valori di un uomo cresciuto tra le due guerre mondiali e la Grande Depressione. Insomma, i punti di contatto con un giovane newyorkese tutto jazz e beat generation non dovrebbero essere molti. Il rapporto con Wooden, magnificamente raccontato in Coach Wooden & Me, è il primo indizio che suggerisce come la vita di Lew Alcindor sia destinata a svilupparsi attraverso vie inconsuete e spesso misteriose.

A Los Angeles Lew coltiva anche un’altra amicizia particolare, quella con Wilt Chamberlain. In questo caso i punti di contatto, almeno in apparenza, sarebbero molti di più, e poi i due si frequentano già da quando Alcindor era un promettente liceale e Chamberlain giocava a Philadelphia ma bazzicava con frequenza la vita notturna di Manhattan e dintorni. Wilt, modello originale di party animal NBA di fronte alle cui scorribande persino Dennis Rodman esce ridimensionato, fa da vero e proprio chaperon e introduce il timido e riservato Alcindor alla vita notturna losangelina. Quello tra Lew e Wilt è un altro rapporto improbabile, che però, a differenza dell’amicizia con Wooden, non reggerà alla prova del tempo e alla rivalità sui parquet della lega che farà da amplificatore alla visione assai diversa della vita dentro e fuori dal campo.

1968

Oltre ad amicizie bizzarre, il periodo trascorso al campus di UCLA regala a Lew le prime sperimentazioni con le droghe, passaggio pressoché obbligato considerando il contesto storico e quello ambientale. Il fascino dello sballo, però, non fa breccia nel giovane Alcindor, che invece accresce e radicalizza il suo interesse verso il movimento di protesta per i diritti civili e in particolare verso la figura di Malcom X.

La partecipazione sempre più attiva nella discussione e nelle dimostrazioni a sostegno del movimento raggiungono il culmine nel 1968. La chiamata al numero uno del Draft NBA dista ancora un anno, ma Alcindor gode già di una popolarità enorme, che travalica i confini del basket in tutti gli Stati Uniti, e che usa per mandare un messaggio chiaro, inequivocabile. Sulle orme del suo idolo Muhammad Ali, Lew decide di non partecipare alla Olimpiadi di Città del Messico, quelle che diverranno celebri per la protesta sul podio di Tommy Smith e John Carlos. La scelta gli attira furenti critiche, ma sorprende solo chi ha seguito con distrazione le sue mosse precedenti. Un anno prima, infatti, Alcindor era stato tra i pochi ammessi a quello che sarebbe passato alla storia come il Cleveland Summit, pietra miliare nella presa di coscienza da parte degli atleti afroamericani del proprio ruolo politico e sociale. L’attivismo di Alcindor, soprattutto dopo il ritiro dal basket giocato, si sarebbe caratterizzato per un approccio più cerebrale, quasi accademico rispetto a quello dei suoi compagni di viaggio, fattore che lo avrebbe reso col tempo una delle voci più autorevoli e ascoltate in materia di conflitti sociali e discriminazione razziale.

Ma il 1968 è un anno fondamentale nella vita di Alcindor anche perché segna la sua conversione all’Islam e l’adozione di un nuovo nome, Kareem Abdul-Jabbar, che verrà utilizzato pubblicamente solo tre anni più tardi. Anche il rapporto con la religione non sarà affatto monotono e passerà dal rifiuto dell’ortodossia predicata dalla Nation Of Islam e attraverso avvenimenti tragici come quello del gennaio 1973. L’estate seguente Jabbar trascorrerà un lungo periodo in Arabia Saudita per studiare l’arabo e approfondire la comprensione delle sacre scritture, nel tentativo di elaborare un approccio personale e ancora una volta fuori dagli schemi alla fede musulmana.

Passione storica

Mentre scrive la storia del basket, sia di quello collegiale che poi dell'NBA, Kareem studia e si innamora di quella con la esse maiuscola, di Storia. La laurea ottenuta a UCLA è solo l’inizio di un interesse che comprende la ricerca storica e più in generale la saggistica. Durante i vent’anni di carriera tra i professionisti, però, il tempo da dedicare alla curiosità intellettuale è scarso e l’unico testo firmato Jabbar è l’autobiografia Giant Steps del 1983. Una volta appese le scarpette al chiodo, invece, il tempo abbonda.

Kareem fatica parecchio a trovare il suo posto nel mondo del basket, un po’ per limiti caratteriali e un po’ per i pregiudizi che lo precedono. Le soddisfazioni più intense arrivano allora dall’attività editoriale: dalla metà degli anni Novanta in avanti Jabbar si trasforma in autore prolifico, scrive editoriali per TIME, Esquire, Guardian e altre testate di alto profilo, ricevendo premi e riconoscimenti importanti, ma soprattutto pubblica una serie di libri incentrati sulla storia della comunità afroamericana, dalla Seconda Guerra Mondiale passando per le consuete ossessioni, jazz e pallacanestro.

Si tratta di libri scritti a quattro mani, avvalendosi della collaborazione di professionisti del settore, ma in cui Jabbar ribalta il ruolo che di solito spetta alla celebrità di turno: è lui ad accollarsi la parte più faticosa, quella di ricerca, lettura e analisi dei materiali e dei documenti. Il successo commerciale è più che discreto e Jabbar guadagna una credibilità come opinionista che gli vale numerose apparizioni televisive e inviti a conferenze in tutto il mondo. Anche durante i recenti tumulti seguiti all’omicidio di George Floyd, l’ex Laker non si è sottratto alle molte richieste di interviste e contributi.

Un recente intervento di Jabbar al Tonight Show.

Il punto di vista di Jabbar risulta sempre significativo e prezioso perché frutto di un lungo percorso di studio e approfondimento, di certo quanto di più lontano da posizioni di comodo, e viene espresso tramite una proprietà di linguaggio sbalorditiva per un uomo che per buona parte della propria vita ha giocato in tutt’altro campo. Lo spessore e l’accuratezza delle opinioni di Jabbar stabiliscono standard qualitativi altissimi per chiunque, forse addirittura irraggiungibili per altri atleti che ambissero a seguirne le tracce. Oggi, quando Kareem parla o scrive, il mondo ascolta e legge, come si fa con coloro che, a torto o ragione, vengono definiti opinion leader.

Icona pop

Quello dipinto fin qui è il ritratto di un atleta che ha deciso di essere anche attivista sociale e politico, investigando i temi che più gli stavano a cuore con una testardaggine e una dedizione non comuni. È un ritratto veritiero, ma non sufficiente a rendere l’idea delle moltitudini contenute da Kareem Abdul-Jabbar. L’abbiamo già accennato in precedenza: se ci sono due cose da cui Jabbar si è sempre tenuto alla larga, in modo ostinato e allo stesso tempo spontaneo, sono il conformismo e la banalità.

A fianco agli studi storici e agli approfondimenti riguardanti l’attualità, il sei volte MVP non ha mai fatto mistero di coltivare attrazioni ascrivibili alla cultura pop. Detto dell’amore per la musica e per il jazz in particolare, devozione sottolineata dalle tante amicizie con miti come Quincy Jones e Herbie Hancock e funestata dall’incendio che nel 1983 ha distrutto la sua collezione di vinili, Jabbar è fin da bambino un avido collezionista di francobolli, cimeli sportivi, in particolare riguardanti il baseball, e di fumetti. Non solo: un’altra grande passione del cinque volte campione NBA è la letteratura investigativa a tinte noir, sfociata in una serie di romanzi ispirati alla figura di Mycroft Holmes, fratello maggiore del più celebre Sherlock. Oppure, più recentemente, azzeccate analogie tra il razzismo e la polvere in una stanza (“Sembra invisibile — anche quando ti sta soffocando — fino a quando non lasci che entri il sole: è solo in quel momento che realizzi che è dappertutto”) e feroci accuse nei confronti dei recenti casi di anti-semitismo da parte di celebrità afroamericane di spicco.

La fama guadagnata sui campi della NBA e la contiguità a Hollywood vissuta durante la lunga avventura ai Lakers hanno poi aperto a Jabbar le porte del mondo dello spettacolo, altro ambiente a cui apparentemente sarebbe dovuto risultare del tutto estraneo. I cameo cinematografici e le comparsate televisive sono numerose, ma i momenti davvero indimenticabili, quelli che hanno trasformato Kareem in un’icona pop a tutti gli effetti, sono due.

Il primo è frutto del legame con Bruce Lee, altra amicizia del tutto impronosticabile, con cui Jabbar si è allenato per un lungo periodo perfezionando la sua abilità nelle arti marziali. Se l’amicizia con Lee, vista da fuori, appare quantomeno curiosa, la pratica del Jeet Kun Do, complesso mix di varie discipline orientali ideato da Lee stesso, è quanto di più lontano dal costituire il passatempo ideale per un uomo di 2 metri e 18 centimetri che per professione pratica un altro sport, peraltro parecchio differente per approccio e requisiti fisici. Ad ogni modo Kareem finisce per recitare la parte di Hakim, antagonista di Bruce Lee, in Game Of Death (tradotto in Italia con L’ultimo combattimento di Chen), opera postuma che uscirà dopo la morte del protagonista.

Prova attoriale di Kareem non proprio priva di falle, ma comunque passata alla storia.

Qualche anno più tardi, Jabbar torna sugli schermi interpretando sé stesso in L’aereo più pazzo del mondo, film demenziale divenuto in fretta titolo cult della cinematografia anni Ottanta. I pochi minuti al fianco di Peter Graves rivelano il suo lato ironico, anzi auto-ironico, fin lì sconosciuto e soprattutto regalano a Kareem un palcoscenico che lo avrebbe reso volto noto anche a un pubblico che ignora totalmente il basket e la NBA.

L'aspetto più divertente della scena sta forse nella resa in italiano del dialogo tra Kareem e il piccolo Joy che traduce, tra le altre cose, “tell your old man to drag Walton up and down the court for 48 minutes” con “dì a tuo padre di provare a marcare cristoni grandi e grossi per 48 minuti”.

Seguiranno apparizioni televisive del tutto trascurabili, come quella all’edizione americana di Ballando con le stelle, dettate dalla necessità di bilanciare una difficile situazione finanziaria piuttosto che dalla voglia di mettersi alla prova o, più semplicemente, in mostra.

Persona non gradita

Non è che Jabbar non avesse sempre voluto diventare un giocatore di basket: il suo amore per il gioco è sempre stato genuino e indiscutibile, non si resiste per 20 anni a quei livelli nella NBA senza devozione verso la palla a spicchi. È solo che quel ragazzo cresciuto a Inwood, Manhattan voleva essere anche molto altro. È difficile provare empatia per chi, come lui, è stato dotato da madre natura di un talento unico che lo ha reso stella dello sport mondiale garantendogli fama, successo e ricchezza, e che ciò nonostante ha finito per vivere quasi come se quel dono fosse, se non una maledizione, quantomeno un ostacolo verso la sua piena realizzazione personale.

Di sicuro l’atteggiamento verso il mondo esterno mantenuto nel corso dei decenni non ha giovato alla causa, rendendolo anzi la personificazione dell’incubo peggiore di giornalisti e addetti stampa. Il carattere introverso ha alimentato la fortificazione di una barriera tra Kareem e il resto dell’umanità, un muro fatto di incomprensioni reciproche e reciproca diffidenza, di freddezza e scene mute. Prima da giocatore e poi nella nuova veste di opinionista e scrittore, non si contano gli episodi in cui Jabbar si è guardato bene dal rispettare le regole base di comportamento per un personaggio pubblico, finendo spesso per urtare i sentimenti altrui.

Il decalogo stilato per chi si trova nella scomoda posizione di interlocutore prevede, tra le altre misure precauzionali, il divieto di stringergli la mano o anche semplicemente di sfiorarlo. La sua manifesta scontrosità è diventata caratteristica peculiare, ispirando addirittura canzoni che raccontano di come lui, idolo indiscusso di intere generazioni d’innamorati del basket, abbia reso l’incontro con la leggenda in carne e ossa un’esperienza traumatica.

Molto spesso, quasi sempre a dire il vero, il prossimo è “persona non gradita” a Kareem: la sua unicità sta anche nella mancata propensione a farsi comprendere o assecondare le aspettative altrui, caratteristica che lo rende ancora più rivoluzionario, di sicuro distante anni luce rispetto a molti altri atleti addestrati a compiacere.

La vita sentimentale, tra relazioni di coppia tormentate e un rapporto con i cinque figli altrettanto faticoso, lo ha condotto a vivere da diversi anni a questa parte in completa solitudine nella sua dimora a Los Angeles. Geloso custode della sfera degli affetti personali, Kareem ha anche dovuto affrontare complesse questioni economiche che ne hanno aggravato le scelte post-carriera agonistica. Alla sua situazione finanziaria non ha contribuito l’indifferenza coltivata da Jabbar nei confronti di molti aspetti materiali dell’esistenza, al pari dell’essere stato una stella nella NBA prima del boom degli anni Novanta, una lega in cui i guadagni erano buoni ma nemmeno lontanamente paragonabili a quelli attuali. I tentativi recenti di lanciarsi in attività imprenditoriali, poi, non hanno finora incontrato il successo sperato.

I problemi di salute, infine, lo hanno reso ancora più schivo e giocoforza riluttante al contatto con il prossimo. Battuta la leucemia tra il 2008 e il 2009 e superata una delicata operazione con cui nel 2015 gli è stato impiantato un quadruplo bypass, Kareem soffre ancora oggi di pesanti emicranie quotidiane che cura con l’isolamento, il silenzio, l’oscurità e il ricorso alle proprietà lenitive della cannabis.

More than an Athlete

Superata abbondantemente la soglia dei 70 anni, Kareem Abdul-Jabbar sembra oggi voler avvalorare la profezia lanciata dal vecchio amico John Wooden ai tempi di UCLA: «Temo che non troverà mai pace». In effetti, a dispetto di traguardi personali straordinari raggiunti in tarda età tra cui la Presidential Medal of Freedom messa al suo collo da Barack Obama, Kareem appare tutto fuorché un uomo in pace con se stesso. Il continuo, insopprimibile desiderio di sapere non ha sanato le contraddizioni di una personalità multiforme, alimentandone viceversa la tendenza a mettere in discussione tutto e tutti, senza curarsi di concetti come equilibrio, popolarità o, ancora peggio, convenienza. L’unico punto fermo individuato da Jabbar nel corso della sua ormai lunga esistenza risiede nella sottomissione alla conoscenza come unica via di progresso ed emancipazione, personale e non solo, ben sintetizzata nel motto knowledge is power”.

Analizzato, osservato, a volte persino psicanalizzato, amato e odiato in egual misura, Jabbar rimane unico e inafferrabile, quasi come il suo gancio cielo, tiro che l’ha reso celebre e che nessuno è mai stato in grado di replicare. Chiedete a cento persone diverse “Chi è Kareem Abdul Jabbar?” e avrete cento risposte differenti, perché è quasi impossibile mettere insieme sei titoli NBA e Bruce Lee, Malcom X e L’Aereo più pazzo del mondo, il jazz newyorkese degli anni ‘30 e il fratello di Sherlock Holmes.

Eppure, con la sua parabola, Jabbar ha demolito l’idea secondo cui una persona è destinata a essere solo una cosa nella vita; stella dello sport o intellettuale, uomo d’azione o di cultura. Dopo aver scalato la montagna della NBA, diventando forse il miglior giocatore di sempre, era difficilissimo reinventarsi altrove e affermarsi, anche lì, a livelli altissimi. Ed era impossibile riuscire nell’impresa rimanendo eccezionale nel senso più profondo del termine: eccezione alla regola.

Il regalo che la vita e le opere di Jabbar ci fanno consiste in un formidabile strumento contro gli stereotipi e i preconcetti, ovvero la piattaforma sui cui poggia, tra le altre cose, il fenomeno della discriminazione razziale più che mai attuale. Non solo: l’esempio di Kareem ci spinge anche ad apprezzare e amare chi ci mette a disagio, stimolandoci a uscire dalla nostra comfort zone e ad alzare l’asticella in qualsiasi cosa facciamo - e conta relativamente che si tratti di pallacanestro, scrittura creativa o attivismo politico. Sono tutti elementi distintivi, questi, che di norma non assoceremmo a una stella dello sport, ma la norma è un metro di paragone del tutto inutile quando si tratta del soggetto in questione.

Anche se il marchio l’ha registrato qualcun altro, in un’immaginaria enciclopedia illustrata alla voce More than an Athlete dovremmo trovare proprio l’effigie di Kareem Abdul-Jabbar.

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