A Stamford Bridge piove e appena prima del fischio d’inizio Benzema si strofina le mani, parla guardando il cielo e la pioggia. Con chi parla? Siamo disposti a crederlo in connessione privilegiata con la dimensione trascendente che governa i destini terreni. La sua presenza fisica si è asciugata intorno a un’aura spirituale, e ogni dettaglio estetico sembra funzionale alla sua icona sacra: i capelli medievali, la barba da religioso, la fasciatura al polso che sfoggia da anni, forse perché sta rimandando un’operazione, o forse per rendersi ancora più riconoscibile. Emana l’epica del calciatore di un’altra epoca, la cui grandezza si alimentava attraverso gli aneddoti e il passaparola, ma Benzema è il miglior calciatore del mondo in questo momento storico e ci mette circa venti minuti per dimostrarlo ancora una volta.
Vinicius Jr. gli passa il pallone sulla trequarti. La difesa del Chelsea è alta, mentre lui è rimasto in uno spazio ambiguo, staccato da Thiago Silva che dovrebbe controllarlo. Fin dai tempi del Lione, è il migliore in questi piccoli smarcamenti clandestini. Appena riceve, Benzema la tocca di prima in verticale d’esterno, con tempismo e precisione lancia Vinicius alle spalle di Christensen. Il difensore che Tuchel ha schierato quella sera a sorpresa, con l’idea precisa di prevenire quella situazione, di bloccare la fonte creativa più pericolosa del Real Madrid. Vinicius fa così paura, però, che il capitano Thiago Silva si avvicina in raddoppio, commettendo l’errore fatale di sottovalutare Benzema. Mentre getta uno sguardo furtivo alle sue spalle, quello ha già preso posizione. Il cross di prima di Vinicius è preciso perché è sulla corsa di Benzema, ma è difficile da mettere in porta. Il francese però ha la tecnica per colpirlo con un soave colpo di fronte che lo alza sotto la traversa. Benzema apre le braccia, si stacca leggermente da terra, accettando per qualche passo di perdere l’equilibrio, ma non l’eleganza. Sul fermo immagine si nota la distanza notevole tra lui e la porta: negli anni 90, con palloni più pesanti, si riusciva a segnare di testa da quelle distanze, oggi nessuno ci riesce. C’è un ralenti che descrive l’epica del gol meglio di altri: l’inquadratura dal basso che coglie il muro fitto di pioggia, Benzema che per qualche breve secondo pare poter spiccare il volo, Mendy che si tuffa inutilmente e ricade come un ragno precipitato dal soffitto, i corpi dei tifosi spagnoli che si alzano in piedi all’unisono.
Ne Le civette impossibili Brian Phillips descrive così l’arrivo di una tigre: «Prima non c’è niente; poi c’è una tigre». Un’ovvietà che serve a rendere il senso di magica sorpresa tra l’essere e il non essere di questi predatori misteriosi, che non si mostrano fino al momento in cui non decidono di mostrarsi. In India ci sono cartelli con tigri disegnate che recitano «Forse non mi avete visto, ma non siate delusi: io vi ho visti». Mi sembra una buona descrizione del cinismo furtivo ed elegante con cui Benzema ha ormai preso l’abitudine di piegare queste partite di Champions al suo volere. Certo, come dice anche Phillips, drizzando i sensi si possono riconoscere i lievi cambiamenti atmosferici che precedono l’arrivo della tigre. Un velo di tensione drammatica che si sparge nella giungla, «una sorta di brivido che pare attraversare ogni cosa».
Dopo dieci minuti il primo leggerissimo spostamento d’aria che mette in apprensione la difesa del Chelsea. Una delle migliori d’Europa, se non la migliore - 10 clean sheet su 15 partite nella coppa da quando Tuchel si è seduto in panchina. Benzema guida la transizione come un capitano di cavalleria napoleonica, ha addosso due avversari, Rudiger di lato e Azpilicueta che arriva alle spalle. Gli lascia credere di essere inoffensivo, in quella posizione, coi piedi quasi sulla riga laterale, voltato spalle al campo, e in quel momento gioca di tacco verso l’arrivo di Federico Valverde. Forse la difesa del Chelsea avrebbe dovuto capire in quel momento che aria tirava.
Ieri Valverde è stato usato stranamente come esterno destro, per sfruttare al massimo le sue corse, e in effetti pareva coprire il campo con la bici elettrica. Ha aiutato Carvajal nelle transizioni difensive, aggiungeva un uomo a centrocampo, ma poi era sempre puntuale nelle sovrapposizioni. Ha coperto una quantità immensa di campo.
Tre minuti dopo il gol, Benzema non ha ancora ritoccato il pallone, e quando gli succede lo fa ancora con la testa, e segna ancora un gol. Tutta l’azione del Real Madrid è rapida e ben costruita. Da Casemiro a Modric, che si smarca alle spalle di Jorginho (lo farà per tutto il primo tempo) e lancia Carvajal. Benzema nel frattempo corre centralmente a media velocità, cercando di intuire il momento in cui dovrà farsi trovare pronto in area di rigore. Quando capisce che Carvajal non crosserà, ha un’esitazione, fa qualche passo all’indietro ed è solo quando Modric crossa che fa quel passo decisivo per staccarsi da Thiago Silva e colpire di testa. La palla di Modric è sensazionale, ma il colpo di testa di Benzema forse lo è ancor di più. Colpisce correndo all’indietro e per indirizzarla sul secondo palo esegue un movimento soffice che somiglia più a uno stop che a un tiro, che coglie Mendy in vago controtempo. Sembra più la palla a baciargli la fronte che non lui a colpire la palla. C’è un’estetica morbida e rilassata che descrive bene la presenza di Karim Benzema su un campo da calcio.
Nessuno in questo momento come lui riesce a conciliare carisma e capacità tecniche. I paragoni sensati allora sono solo con le leggende del passato, come Zinedine Zidane, che Benzema definisce “un fratello”. Ha la sua stessa leggerezza fatata nella finalizzazione, e soprattutto una capacità simile di segnare gol decisivi e di proiettare sulle partite i suoi umori, i suoi ritmi, i suoi pensieri. Il suo peso specifico in campo va oltre ciò che è immediatamente percepibile. Il modo in cui fa da regista o si muove lungo l’arco della trequarti offensiva. Ha l’aria, appunto, di uno di quei predatori calmi e spietati, che sanno scegliere il momento dell’esatto allineamento atmosferico per colpire le proprie prede. E non sarà un caso che un giocatore con questa mistica indossi la maglia del Real Madrid, che negli ultimi anni più di tutti ci ha ricordato che le partite a eliminazione della Champions League riflettono tutti gli elementi intangibili che scrivono una partita, oltre tutto ciò che possiamo afferrare con i nostri occhi. Gli elementi intangibili che rendono un club proprio quel club. Nessuna squadra come il Real Madrid riesce a imporre la propria epica nelle partite di calcio, e non è chiaro se è per il proprio DNA storico, che come una nebbiolina sottile si appiccica alle dinamiche di campo, o perché ha più giocatori in grado di alimentare quel DNA. Toni Kroos, Casemiro, Luka Modric, Karim Benzema, vincitori di quattro Champions League, che in questa stagione sembrano credere all’incantesimo di un’ultima danza insieme, nel momento in cui il mondo cercava la grandezza altrove.
Karim Benzema ha segnato trentasei gol stagionali, e a inizio secondo tempo - quando il Chelsea ha provato a riorganizzare le proprie idee, dopo aver accorciato le distanze a fine primo tempo - ha segnato il trentasettesimo, l’undicesimo in Champions, la sua seconda tripletta consecutiva. Lo ha fatto con quella che sta diventando stranamente una sua signature move, ovvero una palla recuperata in pressing sulla costruzione bassa (se volete lamentavi della costruzione bassa potete scrivere a questo indirizzo). Ha approfittato della svagatezza di Mendy e Rudiger, mezzi addormentati mentre lui gli ruba il pallone e tira nella porta vuota. Lo aveva fatto in finale di Champions League contro il Liverpool, gli era riuscito anche contro il PSG. Calcolando anche il secondo tempo di quella partita, Benzema è arrivato a segnare 6 gol in più o meno 90 minuti.
Nella scorsa edizione Chelsea e Real Madrid si erano affrontate in semifinale, e la doppia sfida era stata decisa dall’arte difensiva del Chelsea, portata a una sofisticazione assoluta in pochi mesi da Tuchel. Dopo l’1-1 dell’andata, i Blues avevano massacrato di pressing la squadra di Zidane in uno Stamford Bridge vuoto, vincendo 2-0. Benzema era stato fermato da due enormi parate di Mendy, mentre la partita era stata dominata da calciatori dal talento disciplinato e funzionale all’armonia collettiva del Chelsea - i movimenti in profondità di Werner e Havertz, il loro lavoro in pressing, le corse selvagge di Kanté sulla trequarti. Un anno dopo il mondo sembra essersi rovesciato. Il Chelsea di ieri è sembrato stranamente svagato, privo delle distanze prussiane con cui copriva il campo alla perfezione lo scorso anno. Ha accettato l’inferiorità numerica a centrocampo, ha lasciato Casemiro spesso tranquillamente libero, e che due eterni maestri come Kroos e Modric riuscissero a giocare sempre alle spalle di Jorginho e Kanté. La disciplina dei giocatori del Chelsea è sembrata semplice ordinarietà. È stata la sconfitta Tuchel, che forse ha aggiustato troppo tardi i propri piani. Soprattutto però è stata la vittoria dei giocatori che, attraverso la tecnica e il loro carisma, riescono a sembrare più grandi del calcio stesso.