Nessuno in questa stagione aveva ancora vinto a Salt Lake City. Tra le montagne dello Utah erano già caduti gli L.A. Clippers, i Philadelphia 76ers e i Milwaukee Bucks, e quando i Minnesota Timberwolves si sono presentati in città la storyline della partita era piuttosto evidente: il lungo più forte della lega con la palla in mano, Karl-Anthony Towns, contro il due volte difensore dell’anno Rudy Gobert. Col francese KAT ha un enorme conto in sospeso: non esser stato incluso in alcun quintetto All-NBA (Gobert è stato votato per il 3°) gli è costato circa 32 milioni di dollari al momento del rinnovo contrattuale, non avendo soddisfatto i requisiti necessari per la “Derrick Rose Rule”.
Dopo aver costretto Gobert a uscire dall’amato pitturato per tutta la partita, aprendo spazi per sé e per i compagni, Towns ha segnato la settima tripla di serata da un paio di metri oltre l’arco. È rimasto lì per un paio di secondi, con lo sguardo passivo-aggressivo, fissando la retina che ancora si stava muovendo. Minnesota stava per vincere la partita.
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Tutto passa dalle mani di Towns
Tante cose sono cambiate a Minneapolis da quando Jimmy Butler se n’è andato sbattendo la porta. In estate Gersson Rosas, uno dei giovani dirigenti più in vista della lega, è diventato il primo latino-americano a capo di un front office NBA. Una delle sue prime mosse è stata quella di confermare Ryan Saunders in panchina - che lo abbia voluto o che gli sia stato imposto non è dato sapersi -, facendolo diventare ufficialmente il più giovane head coach della lega e cominciando a ripercorrere le orme di suo padre Flip. Rosas ha però messo profondamente mano al coaching staff, strappando David Vanterpool ai Portland Trail Blazers per rimodellare il sistema difensivo e mettendo quella offensiva nelle mani di Pablo Prigioni.
Nell’anno zero post-Thibodeau, Karl-Anthony Towns si è ritrovato a dover ricordare a tutti perché nell’autunno 2016 circa la metà dei General Manager avrebbe voluto lui - prima di LeBron James, prima di Giannis Antetokounmpo, prima di Anthony Davis - come giocatore sul quale ricostruire una franchigia. Towns è al quinto anno in NBA, ha rinnovato al massimo salariale coi T’Wolves (l’unico nella Draft class 2015 assieme a Devin Booker ad averlo fatto con la stessa squadra che li scelse) ed è stato nuovamente rimesso al centro del villaggio. Attorno a lui, Robert Covington è rinato dopo l’infortunio, il rookie Jarrett Culver da Texas Tech ha mostrato qualche flash incoraggiante fino a conquistarsi un posto in quintetto, Graham, Layman e Napier sono state acquisizioni sottovalutate. Persino Andrew Wiggins sembra aver fatto quei progressi che ormai si davano per persi. «Continuate a non occuparvi di noi», ha detto Towns sfidando il resto della lega. Sottotitolo: stupiremo tutti.
Un assaggio di cosa significhi giocare contro KAT. Willie Cauley-Stein, suo ex compagno a Kentucky, abbocca alla finta. Alto sulle ginocchia, diventa facilmente bucabile dall’esplosività da guardia di Towns, che sbaglia il floater ma spazza via tutti a rimbalzo offensivo e va vicino al gioco da 3 punti.
È quasi doloroso mettere una di fianco all’altra le shot chart degli ultimi quattro debutti stagionali di Karl-Anthony Towns. Se nella stagione da sophomore è diventato il primo giocatore dopo Kareem-Abdul Jabbar nel 1971 e Shaquille O’Neal nel 1994 a chiudere una delle prime due stagioni in NBA a 25+12 di media tirando con almeno il 57% reale dal campo, il biennio abbondante con Thibodeau lo ha costretto a una preoccupante paralisi. Minutaggi altissimi, spaziature intasate dai pretoriani della difesa e l’obbligo di condividere il frontcourt con un altro lungo (Towns ha trascorso quasi il 90% dei suoi minuti nella stagione 2017-18 in campo con Gibson o Dieng): tra le tante cose, il bisogno di un coach di più larghe vedute ha portato al licenziamento di Thibodeau e alla promozione a capo allenatore di Ryan Saunders.
I cardini dell’attacco dei T’Wolves di questa stagione sono tiro da 3 punti e ritmo alto. Ma attenzione, avverte Saunders: per ritmo non s’intende correre su e giù per il campo senza criterio; per massimizzare le potenzialità di Towns, Minnesota deve curarsi del pace in verticale quanto delle spaziature in orizzontale.
KAT contiene bene la penetrazione di Dwayne Bacon e lo stoppa al ferro; Jeff Teague orchestra il contropiede che porta alla tripla di Treveon Graham. Più importante di correre tanto è correre bene.
Il “James Harden dei lunghi” è 5° in NBA per post-up a partita dopo Embiid, Davis, Aldridge e Love. Spalle a canestro, Towns è un lungo che sa come mettersi al lavoro e lo fa pesare al diretto marcatore, e il modo in cui viene marcato KAT sta alla base dell’attacco read-and-react di Minnesota.
Il footwork è d’élite, la virata è potente, l’esplosività non lascia scampo. I matchup in post sono così favorevoli che aprono tutto l’attacco.
Nella passata stagione era, con LaMarcus Aldridge, il giocatore con più possessi in post, oltre 12 a partita. Quest’anno ci va la metà delle volte, ma è da quella posizione che distribuisce gran parte dei suoi 3.6 assist a partita (massimo in carriera). Il focus di coach Saunders è creare un ecosistema nel quale Towns sia il fulcro dell’attacco: creatività offensiva vuol dire sviluppare al meglio le potenzialità di un giocatore così unico. La palla deve passare dalle mani del miglior giocatore ogni volta che si attacca.
Essere il fulcro dell’azione in punta è un altro dei passatempi preferiti di KAT. Con Wiggins in particolare ha sviluppato un’intesa interessantissima.
Il centro dominicano, che con Thibodeau doveva spaziare il campo per altri e ora trova il campo aperto per dare sfogo al suo talento, in varie interviste ha enfatizzato l’importanza di prendere decisioni veloci in attacco ed eseguire il gioco chiamato con puntualità e precisione. Se in 204 partite allenate da Thibodeau i T’Wolves hanno tentato 38 o più triple solo quattro volte, quest’anno la quota è stata superata in 11 partite su 16. In estate è stato chiesto a Rosas cosa pensasse della shot selection ben poco analytics-friendly nel passato dei T’Wolves: «Dovunque stia andando il gioco, vogliamo essere lì per primi».
L’Hardenizzazione di KAT
Kevin Durant, Moses Malone, Chris Paul, Len Bias, Dwyane Wade e Kevin Garnett: è eterogeneo il gruppo di giocatori ad aver influenzato lo sviluppo del gioco di un giovane Towns. Alto quasi due metri quando non era ancora teenager, KAT si è allenato da sempre a focalizzare il proprio gioco lontano da canestro, creando dal palleggio o tirando da qualunque posizione.
Nonostante Gersson Rosas abbia dichiarato che Minnesota non diventerà “la Houston del nord”, l’Hardenizzazione di Towns è cominciata. In una stessa azione una difesa deve preoccuparsi del suo gioco in post, di come passa la palla spalle a canestro, del suo tiro da tre e della possibilità che sfrutti una finta per andare al ferro. Non dovrebbe essere legale avere un giocatore di quelle dimensioni in grado di fare tutto quello che fa Towns. L’idea è semplice: il semaforo per il tiro è sempre verde, l’area aperta di continuo.
Nella recente partita contro gli Houston Rockets, nel primo quarto KAT ha risposto a una tripla in step-back di James Harden con la stessa medicina.
Eppure la dinamica che KAT predilige - quella in cui è 2° in NBA, dietro solo a un cecchino puro come Eric Gordon - è quella della tripla in catch-and-shoot. Per contestargli il tiro, il lungo avversario deve fare sempre un passo in più di quanto sia comodo.
KAT sta tirando col 44.9% su oltre 9.1 triple a partita. Quanti giocatori nella storia NBA hanno tirato così tanto e così bene per una stagione intera? Solo Steph Curry. Questa è la nuova normalità per Towns, uno che ha già flirtato con una stagione da 50-40-90.
Essendo così pericoloso dal perimetro, il prodotto di Kentucky dà costantemente al suo marcatore la sensazione di poter indifferentemente tirare, penetrare o passare. Avere così tante gemme dell’infinito incastonate nel proprio guanto permette a KAT di sedersi al tavolo coi giocatori offensivamente più forti di questa generazione.
In particolare, coach Saunders ha notato che Wiggins può trarre immenso beneficio dall’orbitare attorno a KAT. La lettura che più spesso Towns esegue con lucidità è sul movimento a ricciolo che il canadese gli compie attorno.
Un’altra specialità della casa è lo slip sul pick and roll, ovvero gettarsi verso il canestro prima ancora di aver creato contatto col marcatore sulla palla. Pochissimi giocatori nella storia NBA con quelle leve mettono palla per terra così naturalmente: può darsi che sia un cliché, ma KAT fa sembrare tutto facilissimo in attacco.
Infine, tre finezze offerte da coach Saunders. I T’Wolves hanno uno dei migliori set in situazione di BLOB (BaseLine Out of Bounds) della lega, ma c’è anche tanto materiale per i cultori dei pin down lontano dalla palla.
Sono aumentate a dismisura le situazioni in cui KAT viene sfruttato per quello che è: uno dei migliori tiratori in NBA.
La Motion Strong di Gregg Popovich è l’ispirazione del playbook di Minnesota. Esportata in giro per la lega da Mike Budenholzer, che ha lavorato a San Antonio per quasi un ventennio, è rintracciabile in tanti set in cui i T’Wolves ribaltano il lato, con quattro esterni sul perimetro e un lungo - solitamente KAT - in post. Nella passata stagione coach Kenny Atkinson ha sorpreso tutti facendo giocare ai suoi Nets uno splendido attacco basato sul read and react, principio cardine della Motion Strong: da Atkinson passando per Pablo Prigioni, il mantra è arrivato a Minneapolis. Un set, in particolare, che a Brooklyn chiamavano “Strong - Curl Exit”, è arrivato sul playbook di Saunders. Ed è molto interessante.
In difesa: nascondere la polvere sotto al tappeto
Per arginare i gravi difetti che Towns si porta dietro da tempo, a cominciare dalla scarsa comprensione del gioco e dei tempi dell’azione nella propria metà campo, il nuovo sistema difensivo dei T’Wolves targato coach Vanterpool si basa su una difesa del pick and roll molto conservativa. KAT viene rintanato il più possibile nella propria area, non si cambia praticamente mai e gli esterni devono forzare gli avversari dentro l’arco.
Minnesota non può permettersi di esporre Towns a cambi sistematici sul perimetro, quindi lo schiera in una posizione droppata a pattugliare il pitturato. In generale, più è vicino a canestro, più un difensore con braccia così lunghe risulta efficace. Inoltre, “containing the dribbler” - ossia permettere, grazie ad una posizione intermedia tra portatore di palla e rollante, al difensore sul palleggiatore (il “rearview pursuer”) di tornare sul suo uomo - è un precetto che KAT ha già fatto suo. Il campione statistico è ancora ridotto, ma il nuovo modo in cui Minnesota difende il ferro sembra funzionare: dei 38 giocatori che difendono almeno 5 tiri al ferro a partita, KAT è 6° per percentuale concessa, con un ottimo 47.1%.
Come fece con Jusuf Nurkić a Portland, coach Vanterpool vuole quattro guardie che difendano come matti sul perimetro per negare il tiro da 3. I T’Wolves sono ben contenti di concedere poche triple (anche se ad alta percentuale, punto debole del sistema) e tanti tiri dalla media distanza per sfruttare la percentuale reale più bassa.
Anche questo tipo di difesa, tuttavia, ha mostrato criticità. I migliori tiratori dal palleggio, ad esempio, hanno già imparato a sfruttare lo spazio concesso dalla posizione così in area di KAT dopo aver girato il blocco. In una lega in cui i giocatori decisivi sono sempre più le guardie con tiro dal palleggio, Minnesota ha già concesso 50 punti con 33 tiri a Kyrie Irving e un career-high da 52 punti a D’Angelo Russell. Inoltre, non cambiare mai significa che quando un esterno non è pronto a superare un blocco lontano dalla palla il tiratore stesso si ritrova con tantissimo spazio a disposizione, lasciando il marcatore del bloccante - Towns in questo caso - inerme e inefficace in una posizione intermedia.
Non è un caso se i T’Wolves concedono il 38.8% da 3 agli avversari, il peggior dato in NBA esclusa Golden State.
L’intensità mentale per 48 minuti a sera su 82 partite l’anno rimane la maggiore debolezza di KAT: si sono visti degli sprazzi, ma manca ancora la costanza per fare quanto di buono visto sopra con regolarità, sera dopo sera. Sebbene si stia sforzando più dello scorso biennio, troppe volte sembra gli manchi cognizione di causa. Altro problema cronico: Towns non comunica. Ha ricevuto molte critiche per non essere un leader che alza la voce, né in campo né fuori, ma lui ripete che saranno le sue azioni a parlare per lui, che preferisce guidare con l’esempio, e tutti quei cliché che spesso ripetono i giocatori come lui. Ma non solo non comunica: tante volte sembra proprio staccare il cervello in difesa. Come se non bastasse, in aiuto è costantemente in ritardo, il più delle volte un non-fattore.
Sorprende vedere un lungo con quella versatilità e quella velocità di piedi nella metà campo offensiva faticare in quella difensiva. Il lavoro di piedi richiesto non è lo stesso, è vero, ma dev’esserci qualcosa che non si spiega con “non è veloce orizzontalmente”. L’ultimo grande difetto di Towns in difesa, infatti, è quello di essere così ghiotto di rubate e stoppate da dimenticarsi tutto il resto: spesso stacca i piedi da terra prima che il portatore di palla abbia fatto una scelta, lasciando scoperti i T’Wolves a rimbalzo. La più innocua delle finte è sufficiente per mandarlo in tilt.
La sagra degli orrori.
«I’ve barely show s---»
Ciò che intravedeva Flip Saunders quando l’ha scelto al Draft, ovverosia i mezzi fisici clamorosi per spostare in entrambe le metà campo (il padre di Ryan definì KAT uno dei migliori difensori perimetrali in uscita dal college dai tempi di Joakim Noah) - è sotto la luce del sole anche adesso. Ci sono tutti i mezzi per mettere a ferro e fuoco la lega. Quando Karl-Anthony - un ragazzone buonissimo e solare, dallo sguardo sornione, con un amico immaginario di nome Karlito e molti interessi al di fuori della pallacanestro (la scorsa estate è stato sui banchi dell’Università Bocconi, per esempio) - dice di non aver ancora mostrato nulla, che finora «sono stato trattenuto al 40% del mio talento», fa quasi tenerezza.
Le problematicità degli anni passati, tuttavia, hanno quietato la brezza di feel-good story che soffiava a Minneapolis. Un passato che nemmeno KAT ha particolare voglia di rivangare: quando gli chiedono chi o cosa ti ha tenuto al 40% del tuo potenziale, risponde genericamente: «Circostanze». Nel sondaggio realizzato pochi giorni prima dell’inizio di questa stagione, quanti General Manager hanno votato Towns come giocatore franchigia ideale? Nessuno. KAT non vuole sentire critiche in questo senso e rispondendo a domande sul perché il suo appeal in giro per la lega sia calato parla di “noia” dovuta all’essere così forte così a lungo. Anche se probabilmente c’entra più il record all-time del miglior giocatore nella storia della franchigia dopo Kevin Garnett, che recita 151-193 in regular season e 1-4 ai playoff.
In pre-season, Towns ha portato tutti alle Bahamas. Obiettivo team building, passare un po’ di tempo assieme, le solite cose. Una cosa non scontata che ha fatto è stata regalare ai compagni di squadra il suo libro preferito, “Il Profeta” di Khalil Gibran. Si tratta di una raccolta di 26 sermoni che spaziano su temi cari a chiunque: amore, libertà, amicizia, morte, famiglia. L’incipit descrive il momento in cui Almustafa, “l’eletto e l’amato”, dopo 12 anni d’esilio può finalmente tornare a casa. Ma è una partenza più tormentata del previsto: “Chi può lasciare il suo dolore e la sua solitudine senza rimpianto?”.
KAT non ha più voglia di aspettare, né è malinconico verso un passato che lo teneva prigioniero. Ora è semplicemente accecato dalla voglia di prendersi tutto.