“Da quando ho otto anni, sento le persone sussurrarsi: È il figlio di Peter Schmeichel”.
“The Great Dane”, uno dei più grandi portieri della Storia, è nato a Gladsaxe, dieci chilometri a nord di Copenhagen. Il suo secondo nome, Bolesław, è polacco come suo padre. Peter ha ottenuto la cittadinanza danese solo nel 1970, a sette anni. E ne ha ventuno quando si mette in luce nell'Hvidovre, che all'epoca è una squadra di vertice in Danimarca, e nel 1982 era stata eliminata dalla Juventus nei sedicesimi di Coppa Campioni. Alla fine del 1986, lui firma col Brøndby e a Copenhaghen nasce Kasper Peter, il suo primo figlio.
“Ha percorso una strada molto lunga, più di quanto sarebbe dovuta essere. Ma è solo la natura dell'esser figlio di qualcun altro” dirà quasi trent'anni dopo di Kasper. E riconoscerà qualcosa di molto importante: “Ha inventato il suo personale stile di gioco”.
Quattro stagioni al Brøndby: quattro campionati vinti. Otto stagioni allo United: cinque Premier League, una Champions, altre coppe. Due stagioni allo Sporting Lisbona: un altro campionato vinto. In Nazionale, ha raggiunto i quarti dei Mondiali '98 (massimo risultato danese nella competizione) e ha vinto l'unico trofeo nella storia della Danimarca: l'Europeo del 1992. L'anno in cui nasce Cecilie, la sorella di Kasper, che oggi vive in Danimarca.
Per il decennale di quel trionfo si organizza una partita celebrativa a Nyköping, con i campioni danesi di allora. Kasper deve fare sedici anni e osserva suo padre dalla panchina. Nel secondo tempo Peter vuole lasciare la porta, l'allenatore di quella selezione vede che il secondo portiere non si è alzato, così va da Kasper e gli chiede: “Hai i guantoni con te?”.
Il quindicenne si ritrova tra i pali dove un momento prima stava suo padre. Dietro al capitano di quei campioni d'Europa, Lars Olsen, che in quel momento allena la migliore squadra del Paese, il Brøndby. Nella squadra che ha reso il padre un eroe della loro terra.
Tutto rendeva preferibile, per suo figlio, scegliere un altro mestiere. Se ne accorge lui per primo, oggi: “Avere un padre del genere non ha aiutato la mia carriera, anzi forse è il contrario”.
Insieme sul pullman del Manchester United dopo la conquista della FA Cup.
Quando il padre difende i pali dei Leões, Kasper è trasferito in Portogallo anche lui e inizia a giocare sul serio a calcio. Ha quattordici anni, gioca in attacco come il suo idolo, Cantona. Che era un compagno di squadra del padre. Dopo pochi mesi comunque sceglie il ruolo di portiere. Sempre in bilico tra frustrazione e sovreccitazione, come lo definiva ai tempi del Notts County.
L'ultima maglia di Peter è quella del Manchester City, nel 2002/03: il passaggio del confine cittadino, il tradimento dei Red Devils per i cugini fragili, neopromossi in Premier, lontani dai sogni dello sceicco. Riceverà il gelo di Phil Neville, farà sgranare gli occhi ancora e ancora. Nell'estate che segue, “The Great Dane” si ritira.
L'estate che segue è quella in cui i Citizens tesserano il figlio: Kasper diventa un professionista nel momento in cui Peter smette di giocare. Una staffetta un po' troppo lineare per essere verosimile. In effetti l'atteggiamento del club verso il “figlio di Schmeichel” è screziato dallo scetticismo. Lo manda a giocare. O forse è meglio dire: non ci punta. Questo dicono i prestiti a cinque squadre britanniche in tre stagioni: Kasper corre dalla Scozia al Galles, a tre diverse contee in Inghilterra. Questo dice la cessione definitiva al Notts County, quando Kasper ha quasi ventitré anni. Il club professionistico più antico del mondo è stato stravolto dagli investimenti del fondo Munto Finance, che però si ritira pochi mesi dopo. Kasper racconterà poi: “Un giorno viaggiavamo in aereo, quello dopo faticavamo a permetterci un pullman. È stata una stagione folle, ma l'ho amata”. La squadra viene promossa in League One, lui se ne va.
Firma col Leeds, e ancora se ne va l'estate successiva. A quel punto deve compiere venticinque anni, ha giocato una sola gara di Premier League, gira la Gran Bretagna senza pace. Sembra impossibile possa sottrarsi al marchio di “figlio di Schmeichel”.
L'accordo con il Leicester City, nel 2011, non lascia intendere nulla di diverso. Lo ha voluto il tecnico, Sven-Göran Eriksson, che l'aveva avuto a Manchester. La squadra è placidamente ormeggiata in Championship. Quasi cinque anni dopo, le Foxes guidano la massima serie inglese e non c'è più un solo “Schmeichel” nel calcio.
Peter ha smesso di giocare a quarant'anni, nel 2003. Da allora si è messo a fare cose in televisione, dal commentatore sportivo al conduttore di quiz.
Nel 2006 partecipa all'edizione inglese di Ballando con le stelle, mentre Kasper è al suo primo prestito, a Darlington. In quel periodo Peter capisce che il figlio è un portiere vero: succede in una partita contro il Lincoln, quando vede Kasper uscire di pugno e respingere il pallone fuori da un'area superaffollata, che la sua memoria dipinge come “l'ingresso in una terra di giganti”.
Nel 2008 il padre inizia a condurre la versione europea del programma tv americano Dirty Jobs: mentre il figlio gioca e non gioca al Coventry City, lui si addentra nelle fogne di Parigi e nelle miniere polacche.
Peter, le sue divise, i suoi voli.
Di solito un calciatore fino ai diciott'anni fa la vita di una persona normale, lui no. Così dice Kasper.
A quattro anni ha lasciato la Danimarca per andare a vivere a Manchester con la sua famiglia. In un periodo della sua infanzia, tra i sette e i nove anni, il calcio diventa un problema serio, perché è troppo presente: “A causa di mio padre, ogni cosa era calcio” ricorda.
Verosimilmente è un po' più grande quando, dopo scuola, gioca in strada con il suo amico Alex Bruce, che oggi è in Championship con l'Hull City. Peter Schmeichel ricorda che all'ora di cena dovevano trascinarli via da lì. Alex, a propria volta, è figlio di una leggenda: Steve Bruce è stato difensore e capitano dei Red Devils negli anni di Peter. I figli d'arte si sarebbero poi ritrovati compagni di squadra nel Leeds.
Nel 2007, mentre Kasper erra per la Gran Bretagna, il padre spiega di non avere ambizioni personali a carico del figlio: “Non sarebbe sano aggiungere pressione, da parte mia. È già abbastanza difficile per lui portare quel nome”.
Padre e figlio.
È evidente che lo stesso padre odia l'ombra che getta su Kasper. Si impegna il più possibile a fare scudo. Di recente erano fuori a cena insieme, un ragazzo si è avvicinato a Peter, gli ha detto: “Sei una leggenda. Anche tuo figlio sta facendo bene, ma non sarà mai come te”. Il padre ha risposto: “Just go”.
Quando in allenamento Kasper ha segnato su rovesciata, non ci si è limitati ad apprezzare il gesto: subito i giornali hanno dovuto ricordare un altro gol in rovesciata, quello (annullato per fuorigioco) contro il Wimbledon in FA Cup di suo padre. Lo scorso febbraio un importante sito danese ha sottoposto un sondaggio ai lettori: “Pensi che Kasper Schmeichel raggiungerà mai i livelli di suo padre?”.
Kasper oggi è il portiere della Nazionale danese e della squadra in testa alla Premier League. Eppure non solo continuano a chiedergli di suo padre, ma lo fanno più di prima. Ha quasi trent'anni, una moglie, due figli. Eppure, si sfoga lo scorso dicembre: “Mi vedono ancora come un figlio”.
Naturalmente, del lavoro che hanno in comune parlano il meno possibile: “Non l'abbiamo mai fatto” ha spiegato Kasper, “Dare troppa attenzione al calcio, consuma la tua vita”.
Naturalmente il rapporto del figlio con la figura del calciatore Peter è complesso. Ci sono anche gli aspetti positivi: “Sono stato incredibilmente fortunato a vedere allenarsi ogni giorno i migliori della loro generazione, quando accompagnavo mio padre. Lui, Scholes, Giggs, Beckham e Cantona. Ho visto come lavoravano duro, il perfezionismo, l'applicazione necessaria per raggiungere il top”.
E naturalmente fare i conti col ruolo pubblico del padre non annulla l'obiettivo della vittoria. Commisurato però al suo gioco, alla sua età, al suo club. All'inizio del 2014/15, la prima stagione in Premier fra i pali del Leicester, Kasper dichiara: “Se arrivassi a vincere un decimo di quello che ha vinto mio padre, sarei felice”.
Kasper.
È ingeneroso mettere a paragone Kasper e le sue neanche sessanta presenze in Premier, con una leggenda che ha vinto quasi tutto. Anche se quella leggenda è suo padre. Ingeneroso e sterile.
Nel 2013 il figlio diceva: “Sono contento di come sta andando la mia carriera. Quello che gli altri vogliono farne, riguarda loro”. Il Leicester era ancora in Championship, ma probabilmente non è questo il punto.
Kasper ha un carattere diverso: meno aggressività, meno presenza. È comunque un leader nella sua squadra, un riferimento evidente in campo. Non ha la reattività estrema del padre, la sua mostruosa forza fisica, quelle giocate tra il masochismo, l'esibizionismo e il martirio. Non ha tutto questo ma è un portiere solido, affidabile. Difende bene la porta del club che ha sorpreso l'Europa. Può bastare?
C'è un aneddoto sul padre che Kasper ha raccontato nel 2009: “Quando ho deciso di diventare un calciatore, mi chiese quale ruolo volessi per lui nella mia vita: un allenatore, un mentore o solo un padre? Disse che avrei potuto scegliere uno qualunque di questi. Quindi risposi che lo volevo come padre”.