Per capire al meglio il 2019 di Kawhi Leonard bisogna prima fare un passo indietro e tornare a come si parlava di lui prima della stagione 2017-18, di gran lunga la peggiore della sua carriera.
In quella annata in cui ha giocato solamente nove partite Kawhi Leonard aveva finito — volontariamente oppure no — per incrinare quella che sembrava un’immagine inscalfibile. Prima di quella stagione non c’era davvero nulla che gli si potesse rimproverare: giocava sempre al massimo dell’impegno sui due lati del campo; non aveva avuto neanche una controversia al di fuori; la sua crescita esponenziale da specialista difensivo a candidato MVP era una storia da celebrare; il titolo di MVP delle Finals conquistato nel 2014 lo metteva al riparo da tutti quei discorsi da “Sì è forte, ma è uno che ti fa vincere?” che spesso fastidiosamente accompagnano le carriere delle giovani stelle.
Giocare per i San Antonio Spurs, poi, di sicuro aiutava la percezione di questa aura, costruendo attorno a lui una narrazione pre-confezionata da “erede designato di Tim Duncan” e “discepolo di Gregg Popovich” che aveva il gusto del comfort food: so quello che mi aspetto da un certo cibo e, anche se lo conosco già e non mi sorprende più di tanto, mi ci rifugio quando gli altri non mi soddisfano a pieno.
In un mondo nero-argento ideale Leonard sarebbe rimasto per tutta la carriera a San Antonio senza mai fiatare, continuando a proteggersi grazie alla comunicazione pravdiana degli Spurs e a dominare in campo a piacimento. Poi però è arrivato l’infortunio in gara-1 delle finali di conference contro i Golden State Warriors, uno dei più grandi what if di questa decade, e tutto è cambiato: che sia stato davvero per quel piede di Zaza Pachulia finito sotto il suo oppure no, qualcosa in quel momento si è rotto non solo nel fisico di Leonard (che non è più stato realmente e totalmente sano dopo quella distorsione, più per gli scompensi che gli ha creato che per il danno in sé), ma anche nel rapporto tra lui e l’intera franchigia.
Sembra passata una vita, ma la stagione 2017-18 è stata davvero sfiancante per tutte le parti in causa. Anche solo a seguirla da fuori si faceva fatica a comprendere il reale motivo per cui Leonard aveva disputato così poche partite, complice una comunicazione tutt’altro che chiara da entrambe le parti. Ritrovare la scatola nera di quello che è successo è operazione complicata: di certo alla franchigia non è piaciuto che Leonard abbia deciso di curarsi da solo e di non farlo con lo staff medico interno, così come al giocatore non sono andate a genio certe dichiarazioni da parte di Tony Parker (che aveva detto «Ho avuto stesso tipo di infortunio di Leonard, con la differenza che il mio era cento volte più grave eppure sono in campo») e la generale sensazione che non si fidassero più di lui e del suo ristretto circolo di persone.
Lo stesso zio di Kawhi, il famigerato “Uncle Dennis”, in una delle sue poche interviste pubbliche aveva indicato proprio in questa «mancanza di fiducia» il motivo che ha portato a chiedere lo scambio lontano da San Antonio, rompendo quell’immagine immacolata di cui Leonard aveva approfittato, ma che — alla luce di quanto successo dopo — non aveva mai realmente voluto per sé. Con quella decisione Kawhi ha detto — ovviamente in maniera tacita — di non voler essere come Tim Duncan, Manu Ginobili o Tony Parker, ma che voleva essere padrone del suo destino. Un messaggio che ha ribadito con ancora più forza nel 2019, facendo vedere un lato manipolatorio del suo carattere (o di quello dello zio, vai a sapere) degno del miglior LeBron James.
Controlla quello che puoi controllare
Il 18 luglio 2018 Kawhi Leonard è stato ceduto dai San Antonio Spurs ai Toronto Raptors. Decisamente non la prospettiva che aveva immaginato per il suo futuro, ma quella con cui si è ritrovato a fare i conti senza poterci fare poi molto, visto che il coltello non sarebbe stato nelle sue mani per almeno un anno. Leonard ha capito molto in fretta su cosa aveva controllo e su cosa no, scegliendo in maniera certosina quali battaglie poteva vincere: non avrebbe potuto costringere i Raptors a cederlo, visto quanto avevano sacrificato in termini di asset e karma cedendo DeMar DeRozan per andare a prenderlo, e per questo si è rapidamente messo in riga a recitare la parte del buon professionista.
Nonostante tutto a Toronto è ricordato come un salvatore, mentre a San Antonio è stato tagliato via dagli album di famiglia.
Nel suo intero anno in Canada Leonard è sempre stato molto attento a quello che diceva, sia perché in generale parla molto poco e sempre dicendo le cose nella maniera più letterale possibile (i beat writer dei Raptors come Eric Koreen hanno raccontato che con lui non ha senso fare domande con delle metafore, tanto non le capisce o non le vuole capire). Kawhi non ha mai detto che avrebbe rifirmato ma ha sempre sostenuto che avrebbe fatto tutto il possibile per vincere a Toronto; Kawhi ha fagocitato buona parte dei palloni ogni volta che si trovata in campo, ma non ha mai dato l’impressione di voler prendere possesso della squadra anche nello spogliatoio; Kawhi ha trovato il modo — volontariamente oppure no — di addolcire alcuni lati della sua personalità, ad esempio con la gag della risata satanica diventata virale o acconsentendo a utilizzare la frase “Board Man Gets Paid” per le sue campagne, ma non è mai neanche uscito dal suo personaggio.
Kawhi Leonard è stato straordinario anche nel far andare a genio una situazione potenzialmente esplosiva come quella delle sue assenze programmate, concordando fin da subito con lo staff medico dei Raptors che la cosa migliore per il suo delicato fisico fosse saltare tutti i back-to-back e disputare molte meno delle 82 partite previste sul calendario. In altri spogliatoi questo trattamento privilegiato da parte della franchigia avrebbe creato malumori e dissensi, ma i suoi compagni hanno sempre dato l’impressione di accettare che lui fosse diverso dagli altri — un po’ perché si erano resi conti anche loro che giocatori del genere di solito non passano da Toronto, e un po’ con il tacito accordo di vederlo dare tutto una volta arrivato ai playoff. Leonard dal canto suo ha sempre messo bene in chiaro che l’obiettivo numero uno della sua stagione fosse quello di finirla in salute, e pur non essendoci proprio del tutto — visto che nella scorsa estate non si è praticamente mai potuto allenare per via dei mille acciacchi —, ai playoff ha ripagato i Raptors giocando in condizioni decisamente non ottimali quantomeno nelle serie contro Milwaukee e Golden State.
Peraltro il fatto che Toronto abbia poi vinto anche il titolo con Leonard miglior giocatore dei playoff ha dato la falsa idea che quello che andava bene per lui dovesse essere replicato anche per tutte le altre superstar della NBA — come se giocare 60 partite invece di 82 ti permettesse automaticamente di avere quattro rimbalzi fortunati all’ultimo tiro di una gara-7. In realtà la gestione del suo sforzo, diventata ormai celebre con il nome di load management, è una soluzione che va bene principalmente per Kawhi e che la NBA ha deciso di concedere a lui e a ben pochi altri giocatori con infortuni definiti come cronici, ma non è il Sacro Graal per vincere l’anello a fine anno — altrimenti lo farebbero tutti, cosa che invece non necessariamente succede.
Kawhi Leonard: il grande manipolatore
In ogni caso, quello del load management è uno dei tanti modi in cui Leonard ha finito per influenzare pesantemente il 2019, almeno quanto le sue prestazioni in campo durante i playoff. Nelle quattro serie affrontate tra aprile e giugno Leonard ha giocato a un livello di pallacanestro a cui in pochi sono riusciti ad ascendere, trascinando di peso un’intera franchigia che senza di lui non avrebbe neanche immaginato di raggiungere certi traguardi e/o si sarebbe squagliata prima di potersela giocare per davvero, come avvenuto in passato. Leonard ha rappresentato la roccia a cui i Raptors si sono aggrappati nei momenti più difficili e sono stati ripagati come nemmeno loro si sarebbero potuti aspettare, con Kawhi che ha disseminato gli interi playoff di perle memorabili.
Al netto di quel tiro contro Philadelphia in gara-7, ce n’è uno di poco meno importante in gara-4 senza il quale nulla di tutto il resto sarebbe stato possibile, così come la schiacciata sopra Giannis Antetokounmpo in gara-6 contro Milwaukee (con una satanica “culata” di Kyle Lowry per togliere il tempo della schiacciata a Giannis) è uno dei momenti più iconici della storia di Toronto, forse quello in cui hanno potuto dire “Noi andiamo alle Finals perché noi abbiamo Kawhi Leonard”. Lui ha rappresentato proprio quello: la differenza tra vincere e perdere il titolo, e anche se gli infortuni ci hanno privato di una finale leggendaria contro Kevin Durant, i risultati in campo ci hanno detto che Kawhi Leonard è stato il miglior giocatore visto in campo nel 2019, nonché probabilmente il più forte del mondo in assoluto in questo momento. E non era scontato che lo diventasse dopo tutti i problemi del 2018.
Ancora di più di quanto visto in campo, nei 21 giorni successivi al suo titolo abbiamo imparato a conoscere un lato del suo carattere che non avevamo mai del tutto compreso: quello manipolatorio. Il modo in cui ha fatto aspettare a tutti la sua decisione (ricordate i giorni febbrili del #KawhiWatch? Quei cinque giorni sembravano settimane intere) e, soprattutto, il modo in cui ha forzato il suo passaggio agli L.A. Clippers ha qualcosa di diabolico, perché mai prima di lui si era visto un free agent scegliersi il proprio compagno di viaggio mentre era sotto contratto per due anni con un’altra squadra, costringendo le franchigie a concludere uno scambio con ripercussioni che hanno coinvolto come minimo una mezza dozzina di altre squadre.
2019. L'anno nel quale anche Kawhi Leonard divenne un meme.
È una totale inversione dei ruoli: invece che accettare semplicemente la proposta dei Clippers e lasciare che fossero loro a trovare il modo migliore per mettergli attorno una stella di pari livello (come quasi sempre accade in NBA), Leonard ha messo come condizione stessa per firmare quella che gli mettessero immediatamente al fianco un’altra superstar — una specie di bonus alla firma sotto forma di Paul George, conterraneo ed ex rivale liceale con il quale da anni aveva in mente di giocare. E non solo Leonard ha usato la minaccia di andare da qualche altra parte (addirittura i Lakers, cosa che sarebbe stata insopportabile per i Clippers) per forzare la mano a Steve Ballmer e il resto della franchigia, ma ha anche deciso di firmare solamente un contratto di due anni con opzione a suo favore per il terzo, mettendosi nella condizione di essere di nuovo free agent nel 2021 (stesso anno in cui potrà diventarlo PG13).
Una pagina che pare strappata direttamente dal manuale del “Come mettere pressione alla tua franchigia che non ha mai vinto” scritto da LeBron James ai tempi del ritorno ai Cleveland Cavaliers, quando ha firmato due contratti di un anno e poi un biennale dopo il titolo del 2016 per tenere sempre sulle spine la proprietà e la dirigenza dei Cavs costringendoli a spendere tutto il possibile — sia come rinnovi contrattuali che come scelte al Draft — per farsi mettere attorno la miglior squadra possibile. Perché anche se il ritorno a Los Angeles è stato il motivo principale del suo addio ai Raptors ed è improbabile che se ne vada da quella che a tutti gli effetti è casa sua, Kawhi Leonard non ha intenzione di lasciare che nessun altro decida per lui. Ormai è definitivamente in controllo di quello che accade nella sua carriera esattamente come è in controllo di quello che succede quando è in campo, decidendo di giocare la sua pallacanestro ai suoi ritmi e secondo le sue regole.
Nel momento in cui Kawhi Leonard ha deciso di lasciare i San Antonio Spurs è come se si fosse preso la responsabilità di comportarsi come la superstar che realmente è, cosa che non necessariamente si adatta bene al contesto nero-argento o che gli si addiceva nei primi anni di carriera. Leonard ha capito chi è e cosa vuole, ma soprattutto sa benissimo cosa non vuole: che gli altri decidano per lui, che si parli troppo di ciò che lo circonda, e che soprattutto si parli di lui con i media. A condannare i Lakers in estate pare siano stati soprattutto i vari leaks del suo incontro con Magic Johnson, anche se difficilmente avrebbe accettato di arrivare per ultimo al party già cominciato da LeBron James ed Anthony Davis, specialmente con tutto il carrozzone che inevitabilmente segue i Lakers ovunque si spostino.
Ai Clippers può avere tutto quello che vuole, anche il trattamento privilegiato a livello di gestione del carico che lo ha portato a non giocare l’attesa gara interna con i Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo. Di fatto lo scorso anno Leonard ha trovato la formula che più lo fa sentire a suo agio e che meglio gli permettere di gestire il suo delicato fisico. E dopo aver faticato per una stagione intera a essere sano, non è intenzionato a lasciare che nessuno gli dica che cosa deve o non deve fare.
Esattamente come con LeBron, ora anche con Kawhi si deve assumere un rapporto di partnership e non di controllo: la palla è in mano a lui in ogni momento, poi può decidere se condividerla oppure no. E a vedere come è andato il 2019 in campo e fuori, sa decisamente bene cosa farne.