Prima di ieri sera le carriere da allenatori di Zidane e Guardiola si erano incontrate in una sola occasione, in quel celebre Real Madrid-Bayern Monaco valido per le semifinali di Champions League della stagione 2013/14. Da quel momento le loro strade hanno preso direzioni opposte: per Zidane quella partita ha significato l’innesco della sua scalata nell’Olimpo della Casa Blanca, prima con la vittoria della Decima come secondo di Carlo Ancelotti, poi con l’incredibile ciclo delle tre Champions League consecutive vinte da primo allenatore. Per Guardiola, invece, Real Madrid-Bayern Monaco ha significato l’inizio della sua “maledizione” nella massima competizione europea: dopo quella clamorosa eliminazione, arrivata a seguito di un netto 0-4 all’Allianz Arena, il tecnico catalano è stato eliminato in Champions League rispettivamente da Barcellona, Atletico Madrid (da allenatore del Bayern Monaco), Monaco e Tottenham (da allenatore del Manchester City), sempre dopo partite per ragioni diverse fuori dall’ordinario.
Da quel 29 aprile del 2014 Guardiola e Zidane, pur non avendo nessun tipo di rivalità personale o professionale (anzi, entrambi sembrano stimarsi profondamente a vicenda), si sono affermati come allenatori all’opposto dello spettro tattico. Guardiola come maestro dell’organizzazione del gioco collettivo per esaltare il talento dei singoli, del calcio come dominio del possesso e dell’organizzazione razionale dello spazio in campo, del gioco come strumento quasi pedagogico attraverso cui forgiare i migliori giovani in circolazione. Zidane, invece, come allenatore dalla mano invisibile, del calcio dell’egemonia del talento dei più grandi campioni sull’organizzazione tattica, della capacità quasi magica di far girare dalla propria parte tutti i momenti decisivi di una partita. Il primo ha forgiato il concetto di identitàdi gioco degli allenatori nel calcio contemporaneo, il secondo sembra poter introdurre il calcio nell’era in cui sono i giocatori a prendere decisioni strategiche in campo. Guardiola ci ha fatto credere che un allenatore fosse indispensabile, Zidane che ad essere indispensabili fossero i calciatori.
A questo proposito è interessante ricostruire il contesto intorno a quella partita, che oggi viene ricordata esclusivamente come il più grande fallimento di Guardiola in Champions League. Il Bayern Monaco aveva perso 1-0 l’andata al Bernabeu dopo una partita di dominio del possesso e la frustrazione generata da quella sconfitta aveva portato Franz Beckenbauer ad attaccare Guardiola, esplicitando i timori più profondi legati alla sua esperienza in Germania, e cioè che il suo stile di gioco fosse fondamentalmente alieno alla tradizione della squadra bavarese: «Il possesso non significa niente se il tuo avversario ha tutte le occasioni per segnare». Al ritorno Guardiola decise di cedere alla pressione e optare per una partita più diretta, solo per finire triturato dagli strappi con il pallone di Cristiano Ronaldo e Gareth Bale. Secondo Marti Perarnau, giornalista catalano che ha seguito da vicinissimo l’esperienza di Guardiola al Bayern Monaco per la scrittura del libro Herr Pep, Guardiola ha definito quella partita come «la più grande stronzata della sua vita da allenatore».
Alla luce di queste premesse, c’era quindi grande attesa intorno alle scelte di Guardiola per questa partita contro il Real Madrid, una squadra che per lui significa moltissimo, e in uno dei momenti più critici della sua vita da allenatore, con il campionato ormai perso e la possibilità all’orizzonte di non poter giocare la Champions League per i prossimi due anni. In un pezzo di pochi giorni fa, ad esempio, il The Athletic cercava di fare chiarezza su una delle critiche più grandi che viene fatta a Guardiola in Champions League, e cioè di cambiare troppo nelle partite decisive. Cosa avrebbe fatto il tecnico catalano in un momento di pressione così grande? Avrebbe continuato a cambiare la sua squadra alla ricerca della configurazione migliore per sfruttare le debolezze del suo avversario o sarebbe andato per la strada più sicura mantenendo la squadra intatta?
Nel pezzo, tra gli altri, viene intervistato Domenec Torrent, suo storico collaboratore ai tempi del Barcellona B, che ha ricordato il momento in cui Guardiola decise di provare Messi falso nove per la prima volta, prima dello storico Clasico del 2009 che finì 2-6 al Bernabeu. «Mi ricordo che gli dissi “Cazzo, fallo in un’altra partita, stiamo giocando contro il Real Madrid” e tutte cose del genere. E lui ha risposto no, era così convinto. E non è stato tanto il 6-2 [a convincermi che aveva ragione, nda]. È stato il modo in cui abbiamo vinto. È stato spettacolare. Lo dico di nuovo: lui cambia qualcosa in ogni partita. Non cambia affinché le persone dicano: “Guarda, guarda, ha cambiato”. No, cambia per sfruttare i problemi degli avversari e per giocare meglio, sempre. Non è per imitare Cruyff o nessun altro». «Cruyff era un allenatore speciale», ha continuato Torrent «ma quando c’era da giocare contro il Real Madrid era più difensivo che mai. Pep è il contrario: contro il Real Madrid è più offensivo e coraggioso che mai».
L’antitesi Guardiola-Zidane
Ieri Pep Guardiola ha reso onore al suo nome e, come in tutte le partite decisive di Champions League tranne quel doloroso Bayern Monaco-Real Madrid di sei anni fa, ha fatto all-in, stravolgendo la squadra. Ha schierato un modulo che non aveva quasi mai utilizzato prima (il 4-4-2), con due attaccanti che non avevano quasi mai giocato da punta in vita loro (De Bruyne e Bernardo Silva), mettendo alcuni dei suoi migliori giocatori in panchina (Agüero, Sterling, David Silva). Una scelta sulla carta talmente improvvisata da aver stupito gli stessi giocatori del City, come ha ammesso De Bruyne nel post-partita, e che sembrava ancora più azzardata proprio perché si giocava contro una squadra di Zidane. E cioè una squadra talmente fluida da arrivare quasi a non averla un’identità, che si ordina esclusivamente attraverso il talento dei suoi giocatori migliori, a cui è lasciata la libertà totale di scelta in campo.
Una squadra, cioè, talmente illeggibile da non aver né punti di forza né punti di debolezza apparenti, se non per la somma delle qualità tecniche dei propri giocatori. Ieri il Real Madrid si schierava teoricamente con un 4-3-3 in cui Isco e Vinicius avrebbero dovuto fare le ali, Modric e Valverde le mezzali, e Mendy e Carvajal i terzini, ma non erano infrequenti i momenti in cui la squadra di Zidane era in realtà disposta in campo in questo modo.
Insomma: esiste un modo per difendersi e attaccare in maniera organizzata contro una squadra in cui il confine tra la fluidità e il disordine è così sottile? È giusto o anche solo possibile pensare in questo contesto a delle contromisure che abbiano a che fare con dei movimenti studiati prima della partita?
Semplificando e banalizzando si potrebbe dire che l’idea di Guardiola era di mettere un doppio falso nove. Consapevole che il Real Madrid avrebbe provato a pressare alto il possesso del Manchester City, cosa che è effettivamente successa almeno nei primi 20 minuti di partita, il tecnico catalano ha voluto mettere due giocatori in grado di ricevere tra le linee al centro della trequarti, negli spazi laterali accanto a Casemiro, per attirare i centrali avversari (Sergio Ramos e Varane), sempre estremamente aggressivi nel tentare l’anticipo, e aprire così la difesa avversaria al centro, dove si sarebbero buttati Mahrez ma soprattutto Gabriel Jesus, ieri schierato eccezionalmente da ala sinistra (o forse sarebbe meglio dire falsa ala?).
Qui, per esempio, Ramos fa per alzarsi per andare a prendere De Bruyne e alle sue spalle scatta subito Mahrez, che verrà fermato solo da una grande parata di Courtois.
Come ha detto Guardiola dopo la partita: «Il Real Madrid è molto aggressivo al centro, attraverso l’intensità di Ramos, Varane e Casemiro, e quando questo succede devi allargare il più possibile il campo».
Cosa significa allargare il campo? Questo: Bernardo Silva scende quasi fino alla mediana per dare una linea di passaggio diagonale a Rodri, mentre il Real deve difendere con tre uomini quasi tutta la larghezza del campo, occupata da una parte da Gabriel Jesus e dall’altra da Mahrez.
In questo modo il Manchester City isolava Gabriel Jesus e Mahrez con Carvajal e Mendy, puntando sulle difficoltà a difendere all’indietro del primo e le debolezze nell’uno contro uno del secondo, che si ritrovavano costantemente in uno contro uno con un giocatore molto abile nei movimenti senza palla e in conduzione da una parte, e con uno dei migliori dribblatori del calcio europeo dall’altra.
L’attenzione di Guardiola verso le caratteristiche tecniche dei propri giocatori e di quelle dei propri avversari dovrebbe metterci in guardia quando viene descritto come un allenatore astratto e puramente teorico. E nel caso specifico ci suggerisce come la sua più grande intuizione nella partita di ieri non sia tanto l’idea del doppio falso nove, quanto la scelta dei giocatori che lo hanno composto. E in particolare quella di far girare il Manchester City intorno al sole di Kevin De Bruyne.
La centralità di De Bruyne
Prima di ieri sera De Bruyne non aveva mai giocato da prima punta in vita sua, se si escludono due partite del Wolfsburg nella stagione 2012/2013, entrambe contro il Borussia Dortmund ed entrambe perse (quella d’andata per 2-1, quella di ritorno per 5-0). Insomma, non c’erano prove nel suo passato che potesse essere un esperimento che avrebbe funzionato, ma se c’è una cosa che contraddistingue i grandi allenatori è proprio quella di vedere aspetti dei propri giocatori che nemmeno loro stessi pensavano di conoscere. Ieri De Bruyne non si abbassava semplicemente tra le linee del Real Madrid, ma sapeva esattamente quando e come farlo. Sapeva quando stoppare il pallone e proteggerlo con il corpo, e quando invece tornare indietro di prima da Rodri. Sapeva quando abbassarsi fino alla mediana per aiutare la propria squadra a far risalire il pallone e quando invece rimanere alto tra Ramos e Varane per tenere bassa la difesa del Real Madrid.
In questo senso, per definire la sua prestazione aiuta il confronto con Bernardo Silva, l’altro falso nove, un giocatore forse più bravo di lui in spazi stretti, più intenso, ma con meno talento – una parola forse indefinibile e che utilizziamo spesso a sproposito ma che rivela il proprio significato quando si vedono prestazioni come quella del belga ieri sera.
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La differenza tra una ricezione tra le linee di Bernardo Silva e una di De Bruyne: il portoghese chiama il passaggio a Rodri quando ancora non è nelle posizione migliore per riceverlo e alla fine si fa anticipare da Sergio Ramos (alla fine il Real arriverà al tiro con Varane); il belga, invece, arriva un attimo prima di Ramos (sempre su suggerimento di Rodri) e scarica indietro di prima su Gundogan.
Bernardo Silva ieri è spesso sceso tra le linee, o fino alla mediana, ma lo ha fatto in maniera meno precisa, meno puntuale, del belga, e a volte si è fatto anche anticipare da Sergio Ramos generando transizioni pericolose per il Real Madrid. Il talento di De Bruyne, invece, è stato necessario in tutte le occasioni in cui il Manchester City si è reso pericoloso.
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Questa, per esempio, è la prima occasione capitata sui piedi di Gabriel Jesus ai limiti dell’area piccola, nata da una ricezione e da una sopraffina rifinitura di De Bruyne.
De Bruyne non è stato solo il giocatore che ha contribuito a entrambi i gol della sua squadra, a cui sono riusciti più dribbling (3 su 4) e che ha effettuato più passaggi chiave (4). De Bruyne è stato il fattore decisivo, anche solo trovandosi al posto giusto al momento giusto.
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Come nel caso di questo velo, che lo porta a concludere dai limiti dell’area piccola.
Anzi, riguardando la sua partita non è immediato capire cosa rende speciale il suo talento. De Bruyne ha uno stile minimale, che punta all’efficacia, e che rivela la sua bellezza più evidente nell’aspetto più primordiale di tutti, e cioè quello di toccare il pallone meglio di chiunque altro. Alla sua sensibilità tecnica, e alla sua intelligenza, Guardiola si è affidato completamente, lasciandolo libero di prendere le proprie scelte sul campo, in un modo alla fine non troppo dissimile da quello a cui Zidane ci ha abituato negli ultimi anni con i suoi giocatori migliori. Forse, perché, anche per Guardiola vale quello che Valentino Tola una volta ha scritto su Cruyff, e cioè che: «Il conflitto fra libertà individuale e sistema non si poneva per Cruyff, in quanto il Cruyff fuoriclasse abbinava naturalmente libertà e responsabilità, perché quella libertà non poteva che essere libertà di costruire».
Nell’estrema libertà lasciata ai giocatori più talentuosi (Isco, Modric e Benzema da una parte, De Bruyne, Bernardo Silva e Gabriel Jesus dall’altra), e nell’estrema fluidità che ne è scaturita, Real Madrid e Manchester City ieri hanno finito incredibilmente per assomigliarsi, in una partita dall’equilibrio sottilissimo che nel secondo tempo è finito per spezzarsi in alcuni momenti decisivi e inaspettati che ne hanno deciso l’esito.
E in questo gioco di specchi, alla fine, Zidane e Guardiola hanno finito per scambiarsi i ruoli. Proprio quando il Real Madrid sembrava potesse vincere l’ennesima partita con un gol nato da un episodio nel momento di maggiore controllo del proprio avversario (cioè un errore in appoggio di Rodri), il Manchester City è riuscito a ribaltare l’inerzia grazie all’incredibile talento dei propri giocatori. Prima con il doppio intervento in area di Fernandinho, entrato a sostituire l’infortunato Laporte, sul suggerimento di Carvajal per Benzema e sul tiro a botta sicura di Sergio Ramos. Poi con la genialità di De Bruyne che, spalle alla porta e con gli occhi sulla palla, è riuscito a trovare Gabriel Jesus in area piccola con un cross che ha disegnato un arcobaleno sulla testa di quattro avversari, permettendogli di battere di testa a colpo sicuro e segnare l’1-1.
Il senso per il tempo del fuoriclasse belga ieri si è sublimato al punto da riservare la sua giocata migliore nel momento in cui la sua squadra, e il suo allenatore, più ne aveva bisogno. È un aspetto intangibile del suo talento, ma che meglio di tutti gli altri ne coglie l’essenza. Forse non c’è modo migliore per omaggiarlo che dedicargli un pensiero che una volta Guardiola ha scritto sullo Zidane calciatore, di cui era follemente innamorato. «Zidane controlla il tempo e conosce alla perfezione il ritmo che richiede ogni partita. Sa esattamente cosa fare con la palla quando la riceve. È perfetto e fa tutto ciò che io ammiro nel calcio. Se c’è da dribblare, dribbla; se c’è da tirare, tira; se c’è da passare, passa. Questo, amici miei, è la cosa più difficile: sapere sempre cosa fare».
Forse è proprio questo quello che sa fare meglio De Bruyne. Sapere sempre cosa fare.