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Dario Saltari

Kevin Strootman non verrà dimenticato

Il centrocampista olandese è stato protagonista di un momento emozionante.

Per la prima volta lo abbiamo visto senza faccia incarognita, o a muso duro con un avversario. Kevin Strootman si è avvicinato verso la Curva Sud con fare timido, come un ospite che chiede: è permesso? Daniele De Rossi, con cui ha condiviso il centrocampo per cinque anni, lo aveva spinto letteralmente in quella situazione che sembrava non sentisse di meritare. Dopo la partita il centrocampista olandese ha rivelato che l’allenatore giallorosso gli aveva chiesto di unirsi alla Roma per fare il rituale giro di campo in occasione dell’ultima stagionale all’Olimpico, ma che lui aveva rifiutato considerando l’offerta «un po’ esagerata». Quando si è avvicinato alla Sud, e ha sentito alzarsi gli applausi e i cori, i suoi lineamenti del viso però si sono addolciti per la commozione e abbiamo visto un giocatore che non sapevamo di conoscere. L’aspetto incanutito, gli occhi lucidi. Strootman ha messo in mostra una fragilità che è sembrato ammettere per la prima volta persino a se stesso.

 

Strootman è arrivato alle lacrime di ieri sera dopo due anni al Genoa che forse all’inizio della sua carriera non sarebbe mai riuscito a immaginarsi. Dopo una manciata di partite con la maglia del Cagliari nel 2021, ha accettato di scendere in Serie B senza nemmeno la consolazione di essere considerato uno di quei giocatori troppo grandi per la categoria, che accettano di sacrificarsi per riportare la squadra dove merita. «Volevo andare in quasi tutte le squadre di Serie A gratis, ma nessuno mi voleva», ha dichiarato Strootman alla radio della Serie A pochi giorni fa. «In quei momenti ho pensato di smettere. Poi ho scelto di andare in Serie B a Genova, ed è stata la cosa più giusta da fare, anche se difficile da accettare». A quel punto Strootman aveva già dovuto affrontare tre interventi al ginocchio, e dopo l’esperienza senza acuti al Marsiglia e quella un po’ mesta a Cagliari, la sua carriera ad alti livelli sembrava sostanzialmente finita. 

 

La sua, però, non è diventata una storia di rinascita, qualsiasi cosa significhi. Sì, Strootman ha riportato il Genoa in Serie A, e verrà ricordato anche per quello, ma già da quest’anno aveva ricominciato ad avere un ruolo di rincalzo, e pochi giorni fa Gilardino gli ha comunicato che non ha più intenzione di continuare con lui. Ieri Strootman ha giocato da titolare in una partita di Serie A che la Roma ha faticato a vincere e non è sembrato fuori posto. Tra i 22 in campo è stato uno dei migliori eppure, nonostante abbia ancora 34 anni, dopo la partita ha detto di star pensando al ritiro. Quando gli hanno accennato all’incredibile percentuale di 100% di passaggi riusciti in partita, ricordandogli il soprannome che gli diede Rudi Garcia, cioè “la lavatrice”, lui ha risposto dicendo che «negli ultimi anni la lavatrice era un po’ rotta», facendo trapelare un’insofferenza dolorosa per non riuscire più a raggiungere il livello che lui pensa sia il suo. «Ci sono giocatori che possono diventare importanti nello spogliatoio, ma quando giochi meno e il tuo livello si abbassa un po’ le tue parole diventano meno forti. Io sento questo, anche se gli altri dicono di no. Per essere ancora importante devi raggiungere un certo livello». 

 

Forse l’aspetto più paradossale della serata di ieri è che Strootman si batteva il cuore dove c’era lo stemma del Genoa, e che il suo addio abbia messo in ombra quella che poteva essere l’ultima partita di alcuni giocatori della Roma, come Lukaku. La Roma ha pubblicato il video dell’abbraccio con l’Olimpico di un tesserato di un’altra squadra probabilmente alla sua ultima partita con quella maglia. Nei commenti molti tifosi giallorossi hanno scritto che “chi per la maglia ha lottato non verrà mai dimenticato”. È stato un momento che ha emanato un significato così potente da aver bucato tutte le convenzioni che erano previste dal rituale della partita e persino quegli slogan un po’ retorici che di solito suonano vuoti sono sembrati parole magiche che rivelano una verità invisibile, ma più profonda. 

 

Nel calcio si parla spesso a sproposito di senso d’appartenenza senza riuscire quasi mai a capire davvero che aspetto abbia. Ieri, dopo aver salvato il Cagliari un’altra volta, Claudio Ranieri ha ricordato di quando l’anno scorso, prima dei playoff di Serie B contro il Bari, ha ricevuto una chiamata da Gigi Riva. «Mi chiamò e disse: “Devi dire ai ragazzi che non ci sono i tifosi ma un’isola dietro che li spingerà”. E io ho ripetuto quelle parole». Riva, che non era nemmeno sardo, e che pure in Sardegna aveva trovato il senso della sua carriera, forse addirittura della sua vita, aveva finito per farsi carico delle istanze di un’intera regione, di una cultura che affonda le sue radici nei secoli. In quanti, nello spogliatoio del Cagliari, hanno percepito il peso delle sue parole? In quanti lo hanno dovuto portare in campo loro malgrado?

 

Lo sport, e il calcio in particolare, nasce come un gioco, ma il significato che le persone ci riversano dentro lo trasforma ciclicamente in una questione di vita o di morte. Una squadra, i colori di una maglia, dovrebbero essere solo il simbolo dell’appartenenza a un Paese, o a una comunità, ma quasi sempre finiscono per trasformarsi nell’appartenenza stessa, nel senso di far parte di quel Paese, o di quella comunità. Nel libro Ping-Pong Diplomacy lo studioso inglese Nicholas Griffin ricorda le parole di Zhuang Zedong ai Mondiali di tennis tavolo del 1961, mentre la Cina stava affrontando gli effetti catastrofici della carestia indotta dalle scelte scellerate del regime comunista. «Se io vinco, l’intero Paese vince; se perdo, è la Cina a perdere». In quanti, in quel momento, hanno percepito il peso delle sue parole? Le persone morivano di fame a migliaia ma, se avesse vinto quel Mondiale, la Cina avrebbe avuto una chance di sopravvivere, almeno nella forma che aveva immaginato Mao Tse Tung.

 

Certo, i giocatori della Nazionale cinese non hanno avuto molta scelta nel caricarsi un intero Paese sulle proprie spalle, ma forse è proprio per questo che il loro esempio ci fa percepire con più nettezza il peso che lo sport può assumere nella vita delle persone, per la sopravvivenza delle comunità. Per fortuna ci sono casi meno violenti, casi in cui questa investitura avviene naturalmente, in cui un giocatore sente un luogo suo anche se non dovrebbe esserlo. Ieri Strootman – nato a Ridderkerk, cittadina di nemmeno 45mila abitanti alle porte di Rotterdam – ha provato ad esprimere a parole quanto fosse stato emozionante l’abbraccio dell’Olimpico «pure per un olandese come me», ma alla fine non ci è riuscito, forse perché davvero è impossibile. «È stata una serata speciale. Daniele è Daniele, non c’è da aggiungere niente». 

 

Strootman a Roma ha trovato il sogno di poter diventare quello che forse da bambino non aveva il coraggio di dire ad alta voce e l’infortunio che ha congelato per sempre la sua carriera in un what if che non si scioglierà mai. Nelle sue lacrime c’era il senso delle cose che potevano essere e che non sono mai state, dell’ingiustizia che rende Roma “capoccia der monno infame”, una grandezza immaginata e perduta che chi cresce in questa città interiorizza senza nemmeno rendersene conto. Chi tifa questa squadra, e lo ha visto battersi il petto con quel senso di gratitudine sofferente in faccia, ieri ha avuto l’impressione di sentire le sue stesse cose. Di percepire il mondo, e le sensazioni che ne derivavano, al suo stesso modo. 

 

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Dario Saltari è uno degli scrittori che curano L'Ultimo Uomo e Fenomeno. Sulla carta, ha scritto di sport per Einaudi e Baldini+Castoldi.