Ricordo bene il momento in cui sono venuto a conoscenza della morte di Kobe Bryant. La sera del 26 gennaio 2020 ero sul divano, da solo. Guardavo distrattamente una partita di serie A1 su RaiSport – Fortitudo Bologna contro Varese –, in attesa che mi raggiungesse la mia compagna, impegnata nell’addormentamento dei bambini cui ci alternavamo. A un certo punto il telecronista Edi Dembinski fece una pausa e disse con tono piatto che la notizia era confermata: Kobe Bryant era morto.
Non so se già in quel momento aggiunse qualche dettaglio riguardo l’elicottero precipitato sulle colline di Calabasas, nella contea di Los Angeles, a bordo del quale c’erano anche la sua secondogenita Gianna Maria Onore, detta Gigi, e altre sette persone, perché nel recepire l’informazione il mio cervello ebbe come un incaglio, un’intermittenza. Ricordo una durata, alla fine della quale cominciai a cercare compulsivamente notizie, conferme, a scrivere messaggi increduli agli amici. Si è tentati di dire che per tutti gli appassionati che l’avevano visto giocare quello sia stato un momento di rottura, uno di quegli eventi che creano un prima e un dopo, ma guardandosi attorno dopo cinque anni, osservando la sua vita con uno sguardo più freddo, ascoltando chi gli è sopravvissuto, la verità sembra un’altra: la morte non ce l’ha affatto portato via. Piuttosto ce l’ha definitivamente consegnato.
L’uomo che perse la vita nel 2020 era molto diverso dal ragazzo che avevamo iniziato a conoscere nel 1996, anno in cui Kobe, appena diciottenne, entrò nella NBA direttamente dalla high school, saltando il college come fino a quel momento avevano fatto soltanto cinque giocatori prima di lui. Nei primi anni ai Lakers veniva descritto come un ragazzo viziato, presuntuoso, anche molto egoista. Uno che non sapeva aspettare e pareva non andare d’accordo con nessuno: allenatori, compagni, erano rivali quasi al pari degli avversari. Da parte sua non si impegnava granché per smentire quelle impressioni, al contrario: dichiarava apertamente di voler diventare il miglior giocatore del mondo, di voler vincere dieci titoli NBA. Diceva queste cose nel pieno dell’epopea dei Chicago Bulls di Phil Jackson. Personalmente era troppo – troppo audace, troppo tutto –, e non lo presi in simpatia. Avevo tre anni meno di lui, ero un adolescente con gli occhi pieni di Michael Jordan, impegnato proprio in quegli anni a edificare il suo secondo three-peat. Esistevano verità che non si potevano violare, santuari dove ci si poteva recare solo in adorazione. La sua mi sembrava una grave mancanza di rispetto.
Scoprii dopo che Kobe aveva vissuto in Italia, dove il padre Joe detto Jellybean era stato chiamato a giocare dopo una carriera NBA al di sotto delle aspettative. Dai 6 ai 13 anni circa Kobe aveva conosciuto un’infanzia nomade e privilegiata in giro per la penisola: Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia, seguendo i cambi di casacca del padre. Chi l’aveva conosciuto parlava di un bambino sveglio e beneducato, che piaceva molto agli adulti e un po’ meno ai compagni di squadra. Quando entrava in campo, già da ragazzino, Kobe sembrava subire una trasformazione: l’espansività diventava introversione, il sorriso cedeva il passo a una forma di concentrazione quasi cupa. Kobe voleva vincere, ogni partita, e se gli altri non condividevano la sua visione, semplicemente venivano esclusi dal gioco. Ecco di nuovo l’egoismo, la conferma delle nostre perplessità! Nella vastissima aneddotica degli anni italiani un episodio in particolare si è affermato come rivelatorio di un destino. Kobe aveva 11 anni, giocava a Reggio Emilia e durante un allenamento si fece male a un ginocchio. Niente di grave, ma in spogliatoio scoppiò a piangere, era letteralmente disperato. Il capitano della squadra provò a consolarlo e Kobe lo mandò a quel paese, urlando che quell’infortunio avrebbe precluso il suo approdo nella NBA. La classica stupidaggine da bambino, se non fosse che una manciata di anni dopo lui ci arrivò sul serio. Già in tenerissima età il basket era per lui questione di vita o di morte. Io, ancora, non sapevo cosa pensare. Rimanevo scettico, molto tiepido.
Scoprimmo presto che la vita di Kobe era davvero un fuoco, e viaggiava più veloce del tempo. L’inizio nella NBA non fu facile, è vero, ma il seguito lo conosciamo bene: Phil Jackson venne chiamato a guidare i Lakers di Kobe e Shaquille O’Neal. Insieme realizzarono a loro volta un three-peat, tre titoli consecutivi vinti tra il 2000 e il 2002, poi Kobe ne vinse altri due in età matura con a fianco Pau Gasol, 2009 e 2010, quest’ultimo contro i rivali storici dei Boston Celtics. Ai cinque anelli NBA aggiunse due medaglie d’oro olimpiche a Pechino 2008 e Londra 2012 con Team USA, un titolo di MVP della stagione, due di MVP delle finali e una serie di prestazioni individuali memorabili: gli 81 punti segnati il 22 gennaio 2006 contro i Toronto Raptors (seconda prestazione NBA di sempre dopo i mitologici 100 punti di Wilt Chamberlain), i quaranta o più punti messi a segno per nove partite consecutive nel febbraio 2003, i cinquanta o più punti messi a segno per quattro partite consecutive nel marzo 2007.
In mezzo, alcuni fatti di cronaca che contribuivano a consolidarne l’immagine ambigua: il matrimonio lampo con Vanessa Layne alla cui cerimonia non erano presenti suoi parenti stretti né compagni dei Lakers, i risaputi problemi di infedeltà nei confronti della moglie stessa, e addirittura un processo per una presunta violenza sessuale, di cui venne accusato da una receptionist di un resort di Eagle, Colorado, dove si era recato il 30 giugno 2003 per sottoporsi a un intervento al ginocchio all’insaputa della dirigenza dei Lakers. Il procedimento penale poi decadde e la cosa venne sistemata in sede civile con il versamento di una cifra importante, ma la macchia restò, così come il dubbio di ciò che realmente accadde in quella stanza.
Kobe decise di dare l’addio al basket nel corso della sua ventesima stagione con i Lakers, pubblicando il 29 novembre 2015 una dolente lettera su Player’s Tribune, Dear basketball, dove raccontava con precise pennellate una storia d’amore definitiva, quella tra lui e il basket. L’ultima stagione divenne così una lunga passerella d’addio, fino all’incredibile epilogo del 16 aprile 2016, quando Kobe segnò 60 punti con 50 tiri dal campo e condusse i Lakers a una rimonta tanto esaltante quanto inutile contro gli Utah Jazz, di fatto oscurando l’impresa dei Golden State Warriors che quello stesso giorno realizzarono il nuovo record di regular season con 73 vittorie e 9 sconfitte, meglio del 72-10 dei Chicago Bulls 1995-1996.
Al momento del suo ritiro, la mia percezione di Kobe era radicalmente diversa dagli inizi. Kobe aveva avuto la capacità di farmi cambiare idea, di trasformare la mia riluttanza in ammirazione sconfinata, e questo rovesciamento non era dovuto a un fatto singolo, incidentale. Non posso stabilire un momento in cui per così dire mi sono arreso all’evidenza del suo talento, della sua abnegazione. Kobe era riuscito a contagiarmi nel tempo, con i fatti, dimostrando con quanto fervore volesse sempre mettersi in gioco, quanto la famosa inflessibilità che mostrava con gli altri la pretendesse innanzitutto da se stesso. Era emerso come Kobe fosse un ossessivo degli allenamenti, aveva dimostrato di poter giocare sul dolore e di non volersi arrendere neanche di fronte agli infortuni più gravi (il 12 aprile 2013 tirò e segnò due tiri liberi che si era procurato in un’azione in cui si era rotto il tendine d’Achille). Era diventato un vero leader in campo, un mentore capace di spingere al limite i propri compagni e al contempo di mostrare loro la strada. E aveva anche mostrato di possedere un sottile talento per le storie e i meccanismi narrativi, come quando suggerì per se stesso il soprannome di “Black Mamba”, ispirato al nome dell’alter ego del personaggio di Uma Thurman in Kill Bill di Quentin Tarantino, un artificio con cui Kobe intendeva separare vita e opera. Il Black Mamba era il predatore, quello che scendeva in campo per vincere azzannando gli avversari, Kobe Bryant era l’uomo, il marito, il padre di quattro bambine (due nate a carriera in corso e due dopo l’addio) a cui aveva dato nomi che richiamavano sempre l’Italia, un luogo ormai idealizzato nella sua mente e dove forse, chissà, avrebbe voluto tornare.
Quello che ha rappresentato è condensato in quella che abbiamo imparato a chiamare “Mamba Mentality”, titolo di un suo celebre libro: l’etica e la perseveranza che vengono prima del talento, le sconfitte utilizzate come trampolino di lancio per nuove imprese, il forgiare una mente che non preveda altro sistema operativo che quello di andare sempre avanti, spostando costantemente verso l’alto i propri limiti, nonostante tutto. Forse Kobe era riuscito a farmi cambiare idea perché lui per primo era stato in grado di farlo. Aveva messo a frutto gli errori, le critiche, era maturato, era diventato adulto e responsabile, e mi aveva mostrato che era possibile redimersi, che non era mai troppo tardi per provarci.
C’era però una domanda che aleggiava al momento del suo ritiro: come sarebbe stata la vita dopo per un campione con un animo simile? Cosa ne sarebbe stato della sua esistenza senza adrenalina, senza competizione? Stavamo di nuovo sottovalutando la profondità e complessità del suo percorso. Se da atleta tutta la verità per lui prendeva forma nel presente delle sfide, quando diventò “CEO, producer, writer” (come si definiva su Twitter), Kobe iniziò a coltivare la memoria del passato e la mise al servizio di un futuro collettivo da immaginare. Kobe desiderava che la sua anima continuasse a vivere, dentro qualcun altro o sublimata in forma artistica, cioè al di là della mera reificazione del gesto sportivo. La competitività era rimasta intatta, ma aveva cambiato orizzonte: se da giocatore Kobe pensava che la vita fosse soffio, a carriera conclusa aveva capito che la vita poteva essere vento.
Aveva aperto un’accademia sportiva, la Mamba Sports Academy, per trasmettere a bambini e ragazzi la sua profonda conoscenza del basket, e aveva fondato i Granity Studios, una società di contenuti multimediali con l’obiettivo di creare narrazioni in grado di educare e suggestionare in particolare i più giovani. Con il cortometraggio Dear basketball, adattamento della sua lettera di addio al basket, aveva vinto nel 2018 l’Oscar per il miglior cortometraggio di animazione, e sembrava promettere molto altro, prima che il destino scegliesse altrimenti in quella giornata di nebbia in cui si stava recando in elicottero a una partita della figlia.
L’ondata di commozione collettiva che ha seguito la sua morte era inevitabile. Secondo Associated Press, nel corso del 2020 è stato dato il nome “Kobe” a più di millecinquecento bambini e a qualche decina di bambine. Quello che per una vita era stato un nome quasi solo suo, ispirato al taglio di carne bovina che i suoi genitori mangiarono non molto prima del parto, e che era sempre stato sufficiente per identificarlo, senza bisogno di aggiungerci il cognome, ora è diventato di tanti. Altri “Kobe” nati quando lui era ancora in vita sono nel frattempo diventati adulti, e ce n’è addirittura uno che è riuscito a diventare un giocatore NBA: Kobe Brown, dei Los Angeles Clippers. Allo stesso tempo nel mondo sono comparsi centinaia di campetti e di murales con la sua immagine. Una morte prematura, specie se causata da un incidente, è così ingiusta e gratuita che in qualche modo non smette mai di ricordarci che poteva benissimo non accadere, e perciò ci induce alla santificazione del defunto.
Meno scontato era prevedere come Kobe avrebbe continuato a essere evocato non soltanto per coltivarne la memoria o per alimentare la nostra nostalgia, ma come vera forza propulsiva capace di ispirare delle ambizioni o di mostrare una direzione nelle avversità. In qualche modo, Kobe è diventato la sua storia. Nel mondo dello sport sono innumerevoli, e trasversali, le manifestazioni di chi si è appellato al suo nome come fosse un’aura, un’energia di cui nutrirsi.
Devin Booker, oggi stella di prima grandezza dei Phoenix Suns, è stato rookie nella stagione 2015-2016, l’ultima di Kobe in campo. Fin da ragazzino Booker si è ispirato a lui come giocatore, al punto da fargli dichiarare in più occasioni che già prima di conoscerlo il suo esempio aveva plasmato la sua vita e la sua carriera. Poi, durante quella stagione, le loro strade si sono incrociate in campo, e contro i Lakers del suo idolo Booker ha realizzato una partita da 28 punti. Una prestazione che colpì molto Kobe, al punto da indurlo a regalare al giovane giocatore dei Suns un paio di scarpe con la scritta motivazionale “Be legendary”. Dopo la morte di Kobe, Booker si è tatuato quella scritta su un avambraccio: per avere sempre con sé un pezzo di Kobe e non dimenticare il suo obiettivo.
Jayson Tatum, stella dei Boston Celtics, rivali storici dei Los Angeles Lakers, durante i playoff 2022 ha indossato in suo onore un polsino viola con il numero 24 al braccio, e dopo la vittoria in Gara 7 contro i Miami Heat nelle finali della Eastern Conference ha mandato un messaggio al numero di telefono che era stato di Kobe, con scritto: “I got you today”.
In una storia riportata da The Ringer, quando il quarterback Dak Prescott dei Dallas Cowboys si contorceva a terra dal dolore dopo aver subito la frattura del piede sinistro, è stato avvicinato dall’avversario che lo aveva colpito, Logan Ryan dei New York Giants, che per scuoterlo gli ha detto: “Cosa farebbe Kobe?”
Gianmarco Tamberi, il nostro supercampione del salto in alto, vittima di un brutto infortunio alla caviglia alla vigilia delle Olimpiadi di Rio 2016, alle quali avrebbe saltato per l’oro, e capace di tornare per vincere quell’agognata medaglia alle Olimpiadi di Tokyo 2020 (poi diventate Tokyo 2021 per la pandemia), ha detto qualche anno fa: «La mentalità di Kobe ha costruito l’atleta che sono oggi. Siamo condizionati dagli altri, dobbiamo scegliere degli esempi positivi perché portano risultati positivi. Kobe è stato fondamentale nel mio recupero dall’infortunio».
E ancora. La tennista giapponese Naomi Osaka nel 2020 ha vinto l’edizione pandemica degli US Open, dopo una finale in rimonta contro Victoria Azarenka, e si è presentata alla cerimonia di premiazione con addosso la canotta di Kobe, dichiarando in quell’occasione di averla indossata dopo ogni partita del torneo, perché sentiva di riceverne una forza particolare.
Lo stesso potere nell’indossare le maglie di Kobe è stato citato anche dalla cestista WNBA Skylar Diggins-Smith, che ha raccontato di aver acquistato una replica della sua divisa della Lower Merion con il numero 33, provando queste «Indossi quella maglia e ti senti come in Space Jam. Tutto prende vita. È come se, OK, ho quel potere. Chiunque dovrà vedersela con me avrà dei problemi».
Infine Von Miller, quarterback entrato nella NFL con la scelta numero 2 assoluta nel draft 2011 da parte dei Denver Broncos. Nel 2016 Miller ha guidato i suoi al SuperBowl e lo ha vinto da MVP della partita. In quel momento, sportivamente parlando, Miller era sul tetto del mondo. Negli anni successivi i Broncos non sono però riusciti a ripetersi, hanno peggiorato i risultati, e Miller ha subito un paio di infortuni ravvicinati, di cui uno molto grave, la rottura del tendine del peroneo, che lo ha tenuto fuori per un’intera stagione. Come se non bastasse, nello stesso periodo è venuto anche a mancare il suo mental coach. In una situazione tanto delicata, Miller ha rilanciato le motivazioni tatuandosi un’immagine di Kobe sulla gamba infortunata, e caricando sul suo iPhone una compilation di 393 clip motivazionali da ascoltare e guardare ossessivamente, in più di metà delle quali compariva Kobe. Miller è tornato a giocare, e nel 2022, stavolta con i Los Angeles Rams, ha vinto un altro SuperBowl. Prima di scendere in campo per quella partita così importante, Miller ha mostrato ai giornalisti il tatuaggio sulla gamba e ha detto: «È questa la Mamba Mentality. Cercare di essere la migliore versione di se stessi».
Ecco la verità ultima, il segreto della pervasività dell’esempio di Kobe. Un invito semplice, un messaggio potente. Non è necessario essere degli atleti professionisti per farsene contagiare. La storia del ragazzo e poi dell’uomo che nonostante tutto ha provato incessantemente a migliorarsi, che giorno dopo giorno ha lottato per andare oltre i propri limiti, è valida per tutti. Perché questa in fondo è l’unica possibilità che ci è data in vita: ciascuno per quello che è, ciascuno per quello che fa.
Alla fine della sua ultima partita, dopo aver versato tutto se stesso, Kobe ha tenuto un discorso al centro del parquet di Los Angeles che mai più avrebbe calcato. Poco prima della famosa chiusura a effetto («What can I say? Mamba out»), ha pronunciato una frase che mi torna in mente ogni volta che lo sento citare da altri campioni o da semplici appassionati: «This has been, this has been absolutely beautiful. I can’t believe it comes to an end». Parlava del suo viaggio nel basket, ma è inevitabile pensare lo stesso del suo viaggio terreno. Ma in fondo né l’uno né l’altro sono davvero terminati. Le storie hanno un rapporto molto stretto con l’eternità, e come ha scritto Emanuele Trevi, non è nelle cose che abbiamo portato a termine che sopravviviamo veramente. La natura umana non si rispecchia mai, se non superficialmente, in un prodotto finito. Se c’è una possibilità di prosecuzione del nostro destino oltre il limite della morte, noi sopravviviamo in tutto quello che non siamo riusciti a fare, nel tempo che non ci è bastato, nei rimpianti, nelle imprese interrotte. E che magari qualcun altro può raccogliere. È in questo senso, al contempo impalpabile e molto concreto, che a cinque anni dalla morte la dimora di Kobe è più che mai qui, tra noi.