Larger than life
di Dario Costa
Forse non esiste un modo davvero adeguato per rendere onore a una figura gigantesca come quella di Kobe Bryant, perché cercare di tratteggiarne i contorni usando parole che provino anche a dare un senso alla sua tragica fine è umanamente impossibile. Ogni parola, d’altronde, ogni ricordo, ogni riflessione è destinata a perdersi nei rivoli dei fiumi di altre parole, ricordi, riflessioni. Ognuno ha avuto e conserverà per sempre il proprio Kobe: campione amato e odiato in pari misura, icona di stile e etica lavorativa, personaggio controverso dentro e soprattutto fuori dal campo.
C’è il Kobe 19enne e sacrilego che osa sfidare l’ultimo Michael Jordan davvero dominante all’All-Star Game ’98. C’è il supplementare di gara-4 delle Finals del 2000 con i Pacers, dove Kobe diventa Kobe. C’è il threepeat con l’amico/nemico Shaq. E ci sono i due titoli vinti da lìder maximo a fine anni 2000. E in mezzo ci sono gli anni dell’autocrazia, con gli 81 punti contro i Raptors come manifesto ideologico; quindi l’ostinato rifiuto di cedere lo scettro alla nuova generazione di campioni, e il crepuscolo della carriera consumato tra infortuni brutali e un ultimo giro di campo durato un’intera stagione.
C’è il Kobe che impara a tirare con la mano sinistra quando si frattura quella destra, quello che testa la cognizione tattica dei compagni di squadra durante i timeout o che alle Olimpiadi di Londra, quando è il più vecchio della compagnia, li raggiunge per colazione dopo aver già sudato in due ore di allenamento individuale. C’è il Kobe coinvolto nell’oscuro caso di violenza sessuale e quello che con acume pari alla crudeltà suddivide i compagni meno dotati di lui in ‘quick learners’ e ‘intelligent idiots’. C’è il Kobe che dopo il quarto anello conquistato passa l’estate con Hakeem Olajuwon a perfezionare il suo repertorio in post basso o quello che sostiene d’aver imparato a orecchio ’Sonata al chiaro di luna’ di Beethoven. C’è il Kobe che a bordo campo dispensa consigli su tagli backdoor e uscite dai blocchi alle figlie e quello che senza alcun imbarazzo coltiva il suo enorme ego anche dopo il ritiro.
Tutto questo carico immane di ricordi rimarrà nella memoria collettiva, semplicemente perché Kobe è stato l’epitome del concetto di ‘larger than life’. Non solo: in una perfetta definizione di Ramona Shelburne Kobe è stato ‘l’autore della sua stessa storia’, anche e soprattutto quando il ruolo che aveva deciso di interpretare era quello del cattivo o, molto spesso, dello stronzo. E quella storia l’avrebbe portato nella Hall of Fame, approdo logico e inevitabile che sarebbe arrivato il prossimo settembre. Allora per riassumere l’essenza di quello che Kobe ha significato può essere utile prendere a prestito le parole di un altro Hall of Famer come Steve Nash, suo compagno di squadra in un momento poco felice per entrambi, che proprio dal palco del Naismith Memorial chiudeva così il suo breve discorso 1you’ll never feel more alive than when you give something everything you have».
E questa è forse la vera eredità di Kobe: un lascito che va oltre le vittorie, i canestri decisivi e i record personali. L’impulso a dedicarsi a qualcosa con una devozione assoluta, sopportando il peso, il dolore che deriva da una tale abnegazione e affrontando il rischio di ritrovarsi dalla parte sbagliata della narrazione. Che si tratti di giocare a pallacanestro o di suonare il pianoforte importa poco: ciò che importa è che Kobe Bryant continuerà a rappresentare una fonte d’ispirazione per chiunque intenda offrirsi anima e corpo alla propria passione.
Cosa vuol dire fare i conti con Kobe Bryant
di Dario Vismara
Quando muore uno famoso, la tendenza a ridurre la sua figura a un mero racconto della propria esperienza con tale personaggio è tanto insopportabile quanto inevitabile. Nel caso di Kobe Bryant, però, non se ne può davvero fare a meno: ciascuno di noi ha il proprio ricordo di Kobe — che sia positivo o negativo, approfondito o superficiale, razionale o emotivo non fa davvero differenza — e la sincera necessità di condividerlo con il resto del mondo risulta irresistibile.
Perché davvero, come si fa? Kobe Bryant ha rappresentato talmente tanto per ciascun appassionato di sport di questo pianeta da rendere soverchiante la quantità di ricordi che è stata riversata su Internet alla notizia della sua tragica morte, sia da chi lo ha conosciuto che da chi lo ha solo osservato dal televisore. Qualche strano scherzo del destino ha voluto che negli ultimi due giorni Kobe abbia dominato la mia vita ancor più di quanto succeda normalmente, visto che ho avuto la fortuna e l’onore di fare la telecronaca del sorpasso di LeBron James ai suoi danni nella classifica marcatori ogni epoca.
In questi giorni mi sono ritrovato a leggere soprattutto di loro due, del loro rapporto così particolare, senza poter essere davvero rivali e neanche senza essere del tutto in confidenza, ma rispettandosi sul serio perché ciascuno ha capito quanto lavoro ha dovuto affrontare l’altro non solo per arrivare a quel livello, ma per rimanerci così a lungo. Forse dopo che Kobe aveva seppellito l’ascia della competizione e dell’ossessione i due avrebbero anche potuto diventare amici: negli ultimi giorni non hanno fatto altro che lanciarsi messaggi di amore da una parte all’altra degli Stati Uniti, ed è una bella immagine pensarli insieme mentre chiacchierano di quelle che sarebbero potuto essere delle grandi serie di Finale NBA e che invece non sono state.
Ho sempre detto che la NBA è una lega speciale per un giornalista perché offre una quantità di spunti davvero impareggiabile, e la NBA diventava automaticamente un posto più interessante da seguire con la sola presenza di Kobe Bryant. È stato un personaggio enorme quanto il suo ego e la sua voglia di vincere, capace di dominare ogni discussione per anni, rendendo difficile scrivere di lui ma proprio per questo ancora più soddisfacente, perché ti costringeva ad alzare il livello anche se con lui non avevi mai scambiato mezza parola.
Ogni volta che mi è capitato di entrare in un’arena da 20.000 persone, ho pensato a quanta personalità ci voglia per poter performare ad alto livello davanti a così tanta gente, a dove i giocatori trovassero il coraggio di prendersi la responsabilità di un tiro decisivo con la fortissima possibilità di deludere così tanta genere. Io che sono pavido di natura sarei andato a nascondermi da qualche parte pur di non affrontare una cosa del genere, e sapere che Kobe Bryant non solo accettava quelle condizioni ma addirittura le andava a cercare ossessivamente mi ha sempre affascinato. Quanta personalità ci vuole per essere Kobe Bryant, per volere sempre il pallone decisivo tra le mani, per voler sempre essere il motivo per cui si vince o si perde? A tanti giocatori questa responsabilità non piace; lui giocava quasi più per quello che per tutto il resto.
Kobe Bryant ha rappresentato così tanto per così tante persone da rendersi intimo con tutti. Non c’è persona che ieri non abbia provato la sensazione di aver perso qualcuno di caro, di qualcuno che c’è sempre stato e che — si pensava — ci sarebbe stato sempre. Anche se non era più in campo, anche se non era più così coinvolto con i Lakers, la sua presenza nelle nostre vite era tangibile, vicina, reale. Ora non c’è più, e ci ritroviamo tutti insieme a provare un senso di smarrimento a cui non riusciamo a dare un senso.
(Foto di Elsa/Getty Images)
Riunire haters e lovers
di David Breschi
È difficile e straziante dire qualcosa. Con Kobe non esistevano via di mezzo, o lo amavi o lo odiavi. Io faccio parte della seconda schiera, quella degli haters che avevano sempre da puntare il dito contro anche dopo ogni traguardo che raggiungeva. Ma nel mio piccolo sono stato anche un lover, perchè non si poteva non saltare dalla sedia dopo i suoi canestri impossibili, rimanere affascinati dalla sua caparbietà, ammaliati dall’intensità con cui si gettava a capofitto anche nella situazione più complicata, spesso uscendone vincitore.
Il suo impatto sul Gioco è stato enorme: Kobe è stato il primo imprinting con il basket di almeno due generazioni di giocatori, molti dei quali oggi sono nella NBA, alcuni raccogliendone il testimone. È stato un esempio per molti, è stato anche l’eroe dei due mondi che ha permesso di accorciare le distanze tra la pallacanestro americana e la nostra pallacanestro nell’epoca pre-social.
Voglio pensare che in questo momento ogni hater ed ogni lover di Kobe Bryant si stiano metaforicamente abbracciando, perchè ognuno di loro ha perso il proprio punto di riferimento. Ci mancherai, Kobe.
Il poster in cameretta che avevamo tutti
di Marco Vettoretti
Quando mi sono trovato davanti la barra gialla delle breaking news ho dovuto leggere la notizia più e più volte, prima di realizzare.
Perché dai, non può essere vero. Non lui. Non in questo modo, così inaspettato e devastante.
La notizia della scomparsa di Kobe è calata su una qualunque domenica sera di gennaio come un tuono che squarcia il silenzio delle prime luci dell’alba. Il tempo si è fermato, la cena è rimasta nel piatto, la valigia da fare, il nodo alla gola. Ma perché? Perché fa così tanto male? In fondo è un uomo che non ho mai neanche visto dal vivo, il mio rapporto con lui è sempre stato filtrato da uno schermo. Poi mi sono messo a pensare a quante volte, nei suoi 20 anni di carriera, mi sono svegliato e mi son trovato a fare i conti con lui, con le sue vittorie, le sue sconfitte, la sua competitività, la sua ossessione; i tiri vincenti e quelli assurdi, presi anche con tre uomini addosso. Vent'anni sono tanti, e lui c’è sempre stato.
Sempre in gialloviola, sempre con il bavero della canotta tra i denti. Ha giusto cambiato numero, dall’8 al 24. E come ha scritto Fred Katz su Twitter ieri sera, c’è qualcosa di poetico nel fatto che le infrazioni di tempo che si possono commettere, e con cui tutte le squadre scese in campo nella notte hanno deciso di omaggiarlo, sono da 8 e 24 secondi.
Alla fine sono tornato così indietro con la memoria che mi è tornato in mente il mio primissimo ricordo legato a lui. È il 1997, Kobe ha da poco vinto la gara delle schiacciate. Alla porta della mia cameretta è appeso un poster griffato adidas, che lo ritrae mentre prima si porta la palla tra le gambe, e poi la schiaccia nel canestro con la mano destra. Dormendo al piano più alto del letto a castello, quel poster è sempre stato all’altezza del mio sguardo, e l’ho fissato, studiato, analizzato fino ad addormentarmi per giorni, settimane, mesi.
Oggi quel poster, quel letto a castello e quella cameretta non ci sono più. E da ieri sera, da quel maledetto volo in elicottero, non c’è più neanche Lui. Ciao Kobe, non ti dimenticheremo mai.
(Foto di Andrew D. Berstein/NBAE via Getty Images)
Chissà
di Niccolò Scarpelli
Chissà con chi sei adesso, cosa fai, con chi parli e cosa lei stai dicendo. Chissà se le starai ancora spiegando qual è il modo migliore per uscire dai blocchi, oppure la starai tenendo stretta a te, consolandola con quella calma serafica di chi sa che siamo solo di passaggio.
Chissà se sarai orgoglioso oppure triste.
Chissà se sarai disperato all’idea di averla portata con te, laddove il tuo fadeaway non ci è più concesso vedere. Chissà se anche tu credi che sia qualcosa di schifosamente spirituale il poter spendere l’eternità con l’amore più grande di tutta una vita. Chissà se lei avrebbe avuto il tuo stesso profilo. Chissà in che lingua parlate, e non c’è dubbio che le insegnerai tutte quelle che conosci. Chissà se tenevi chiusi gli occhi quando le cose si sono messe al peggio, oppure se hai accettato il destino con la stessa lucida consapevolezza con cui tenevi quella palla, anche le volte che faceva male, anche quando era ingiusto. Chissà se ti rendi conto che è talmente ingiusto, cazzo, che fa male solo pensarci. Chissà se lo sapevi che sarebbe andata così.
Chissà se anche nel momento in cui la tua mappa si è cancellata sei riuscito a ispirare qualcuno, quelli che ti rispettavano ancora prima di quelli che ti idolatravano. Chissà se hai spinto un padre ad abbracciare più forte le sue figlie. Chissà se hai costretto un qualche ragazzo, sparso per il mondo, a provare un grande vuoto dentro, un vuoto da colmare con la consapevolezza che ogni giorno è un regalo fantastico, un presente mai banale da riempire con tutto l’amore che possiamo. Chissà quante cose avresti ancora voluto darci. Chissà quante cose ci avrebbe dato lei.
Chissà se hai salutato tutti prima di andartene, oppure se hai lasciato solo il silenzio, lo stesso silenzio col quale adesso dobbiamo fare i conti. Chissà se la tua morte non ci permetta di capire qualcosa in più della nostra stessa vita. Chissà se davvero c’è un posto dove adesso presenti lei a tutti i grandi del passato. Chissà se anche loro vogliono farsi una foto, avere un ricordo. Chissà se anche loro, la Storia stessa, Eterna nel Tempo, ti avranno abbracciato con il calore di chi ti spalanca davanti le porte dell’Infinito. Chissà se lo hai mai capito veramente quanto contavi per tutti noi.
Chissà se adesso ridi del nostro dolore, perché in fondo sai meglio di tutti che le leggende non muoiono mai, che le persone non muoiono mai, fintanto che le portiamo, da qualche parte, dentro di noi.
Chissà quando vi rincontreremo, Kobe e Gigi. Chissà se il nostro grazie arriva fino a dove siete adesso.
Addio mio odiato rivale
Di Nicolò Ciuppani
Io sono fondamentalmente un insensibile. Non posso nemmeno dire che mi dispiaccia di esserlo perché, appunto essendo tale, non è vero. Eppure è la prima volta in vita mia che una notizia del genere mi turba, mi fa stare male. Non si realizza prima, si dorme poco dopo, ci si sveglia a fissare il telefono con le lacrime che scendono mentre prepari il caffè e ti vesti per andare in ufficio. Non ne parli con nessuno, la tua ragazza ti chiede perché e tu non glielo spieghi, perché non c’è nulla da spiegare, o forse c’è da spiegare troppo.
Oggi siamo in lutto, ci scopriamo membri di una famiglia che non pensavamo di avere. Su WhatsApp le chat strapiene sono tutte quelle legate al basket, quelle delle vecchie squadre UISP e di quelle attuali, quelle delle varie redazioni dei siti, quelle degli amici. Gli amici che non seguono il basket ti chiedono conferma, perché sanno che segui il basket e tu confermi e basta e dici che ti spiace. Agli amici che condividono con te questo sport non dici nulla, perché tanto lo sanno tutti. Dici al mondo che ti dispiace, lo scrivi sui social, lo dici ai colleghi, la verità che fa più male è che vorresti che qualcuno dicesse “mi dispiace” a te.
L’ho detestato e odiato come si può fare solo con il più grande rivale. Se chiedi a qualunque tifoso di Phoenix di indicare il giocatore che simboleggia il nemico faranno solo il suo nome, senza nemmeno pensarci un attimo. E il fatto che lo abbia odiato così tanto e stia così tanto male oggi, è forse la prova stessa di quanto, in realtà, sia stato così importante per me, per noi.
Se ne è andato uno che, ti piaccia o meno, ha costruito le basi per questa gigantesca famiglia che oggi è a lutto in tutto il mondo. Ci ha lasciato “il giocatore preferito del tuo giocatore preferito”, troppo presto, ingiustamente.
Ed è surreale realizzare che eredità ha lasciato, persone che indossano la sua canotta perché non hanno altre canotte o perché non ne avrebbero voluta nessun’altra. La folla attorno allo Staples come fosse una chiesa. Le dediche dei giocatori, prima e durante e dopo le partite. “Lui avrebbe voluto così, avrebbe voluto che andassi in campo e dessi tutto”. Fanno male le facce dei veterani che ci hanno giocato assieme e contro, fanno ancora più male quelle della nuova generazione che lo hanno vissuto come un eroe e un esempio. Le infrazioni di 8 e 24 secondi in tutte le partite, coi cori col suo nome che si alzano. È stato così dannatamente importante che ormai ben due numeri sono inequivocabilmente uguali al suo nome. 8 e 24, e pure 81.
Se ne è andato l’avversario da battere, una persona criticabile, uno che detestavi, e realizzi che era uno di famiglia, una parte di te. Ripenso a un amico della mia ragazza, che ha vissuto solo nel suo mito e basta. E le rare volte che mi vedeva, e sapeva che mi interessavo di NBA, mi chiedeva di lui, me ne parlava, e penso a lui.
Pensavo passasse in fretta, invece oggi fa così male che ancora non riesco a scrivere il suo nome.
(Foto di Steve Freeman/NBAE via Getty Images)
Still Kobe
di Lorenzo Neri
Ha colpito più forte di quello che ti aspettavi. Come faceva in campo.
È comprensibile che la notizia della sua scomparsa - amplificata dal dolore per la perdita della piccola Gigi - abbia una così forte ripercussione emotiva su tutti noi, che di basket ci cibiamo e abbuffiamo quotidianamente. Perchè Kobe era il primo a farlo.
Potevi non essere il più grande ammiratore delle sue gesta, potevi essere tra quelli che aspettavano una prestazione sottotono per puntargli il dito contro, ma era impossibile non rimanere affascinati dalle emozioni che sprigionava, dalla passione e l’attaccamento che provava verso il gioco.
Quella passione che in lui è diventata ossessione, la più pericolosa tra le forme di amore, a meno che tu non abbia una forza mentale capace di saper incanalare quella rabbia - in questo caso agonistica - nella giusta direzione. Domarla.
Non voleva consensi, voleva essere coerente con lui stesso, con il lavoro svolto fin da piccolo.
Per la rabbia di chi lo odiava, sportivamente.
Per il bene di chi lo amava, sentimentalmente.
Lui è rimasto lo stesso, sempre.
Still Kobe.
Ho sempre odiato Kobe Bryant
di Lorenzo Bottini
Ho sempre odiato Kobe Bryant.
Ho sempre tifato contro di lui in ogni partita che ha giocato (tranne forse nelle Finali contro Boston) e ancora oggi rosico per tutti i suoi canestri contro Portland, contro Sacramento, contro Phoenix e soprattutto contro Philadelphia in quelle Finals del 2001 che segnarono a fuoco la mia passione per il gioco.
Ho sempre detestato la Mamba Mentality, una filosofia a metà tra un manuale di realizzazione personale da cesta degli autogrill e Scientology. Un’ossessione che si divora tutto quello che ha intorno, finendo per diventare una barriera tra sé e il mondo.
Ho ironizzato spesso sul suo gioco, sulle caterve di tiri presi in ogni situazione possibile, provando a far vincere la propria squadra attraverso le proprie erculee prestazioni piuttosto che condividerle nel collettivo. Un continuo io contro tutto il mondo.
Ho mal sopportato il Farewell Tour del 2016, un circo con troppe fermate per un acrobata troppo avanti nella carriera. Anche l’ultima partita contro Utah era il manifesto di tutto ciò che ho sempre odiato di Kobe Bryant.
Ero uno dei tifosi che si alzavano a cantare nello spot della Nike che sanciva l’uscita di scena del Mamba dal mondo che aveva dominato per venti anni, praticamente tutta la mia vita di appassionato NBA. In qualche modo non ero ancora pronto a un basket senza Kobe, senza un villain così affascinante da poter fischiare in ogni occasione.
Kobe aveva interiorizzato il suo ruolo da cattivo per antonomasia portandolo a un livello zen. Kobe godeva nel farti a pezzi lentamente, long 2 dopo long 2, come se il basket fosse una tortura cinese. Ti girava attorno visualizzando nella sua testa ogni movimento da compiere per strapparti il cuore per poi scattare e prenderti alla giugulare. Come un Mamba appunto.
Un rettile prestato allo sport, un animale a sangue freddo che poteva finire solo al sole della California.
Odiare Kobe è stato un piacere sottile, di quelli che ballano sopra e sotto la percezione del dolore. Una danza rituale della quale i ballerini conoscono perfettamente le posizioni e le mosse. Da una parte il campione bello e imbattibile, anche nelle sconfitte più buie; dall’altra chi spera disperatamente di vederlo fallire almeno una volta. Nel mezzo un amore sconfinato per un gioco, la scarica elettrica che riesce a tenere insieme due particelle così opposte.
Per questo ieri, mentre accendevo distrattamente il pc appena tornato a casa, ho sentito come se si spegnesse in me l’energia di mille centrali nucleari. Parafrasando le parole di Kanye West, che ieri ha postato una foto bellissima: non sempre chi muore presto diventa un eroe. Kobe ha avuto 20 anni di straordinaria carriera per diventare il villain perfetto per poi andarsene da eroe. Imperfetto, in chiaroscuro, ma pur sempre un eroe.
Un uomo che stava imparando ad essere normale e che aveva trovato nella figlia Gianna Maria il suo legame imperituro con la pallacanestro. Lei purtroppo non avrà mai il tempo di diventare la nostra peggiore nemica.
(Foto di Andrew D. Bernstein /NBAE via Getty Images)
Dear Kobe
di Francesco Andrianopoli
Immagina di avere 16 anni negli anni ‘90: ti sei appassionato all’NBA da pochi anni, i suoi campioni sono al tempo stesso abbacinanti e inarrivabili, lontani nello spazio e nel tempo. Poi un giorno, attraverso i canali informativi zoppicanti e incerti dell’epoca, iniziano a girare voci di un ragazzo che si è dichiarato per il Draft: uno che ha più o meno la tua età, un anno e spiccioli in più (e già questo fa strano), ma soprattutto uno che è cresciuto in Italia, che parla perfettamente italiano. È uno come te, o quantomeno, nella splendida mitomania di un 16enne, ti convinci che sia uno come te.
Nel giorno del Draft 1996 tu hai 16 anni e lui ne ha 17: i soliti canali informativi ti comunicano, sinteticamente, che è finito ai Lakers, e per combinazione si tratta proprio della squadra per cui avevi una casuale simpatia; quella curiosità da oggi si trasformerà in vero e proprio tifo, diventerà passione pura, perché adesso in quella squadra c’è lui, e quindi ci sei tu.
Nel giorno delle Finali di Conference contro i Blazers, Gara-7, tu hai 20 anni, lui 21, e sono momenti indimenticabili: tu gridi davanti a uno schermo in piena notte, lui guida i Lakers a una improbabile rimonta. È forse il momento più alto della tua esperienza da tifoso, ed è certamente il punto più alto della sua carriera fino a quel momento. Questa immedesimazione non durerà per sempre, ovviamente: si cresce, le meravigliosamente stupide ossessioni dei 16 anni vengono meno, e d’altra parte la sua figura inizia ad essere scrutinata e vivisezionata nel profondo, facendo emergere anche i lati più sgradevoli del suo carattere, anche gli episodi più oscuri della sua vita e della sua personalità.
C’è un clima diverso attorno a lui, che si traduce anche in campo: da enfant prodige amato e coccolato da tutta la lega diventa un antagonista, un villain, un giocatore che tutti temono ma ben pochi amano, soprattutto tra i suoi compagni. Il livello delle sue prestazioni individuali cresce a dismisura, si accresce la sua bacheca dei trofei, ma crescono anche le polemiche, gli atteggiamenti sprezzanti, la natura divisiva e polarizzante della sua figura.
Sono crepe che intaccano il suo allure irreale, ma in qualche modo lo rendono anche fallibile, imperfetto, e quindi più umano, più sfaccettato: non un eroe omerico, ma una persona vera, una persona che sa quello che vuole e dedica ogni stilla della sua energia per ottenerlo, anche se quello stesso impulso inarrestabile che lo muove e lo stimola finisce spesso per portarlo fuori strada, sul campo e nei rapporti umani.
Arriva infine la fase calante della sua carriera, e a questo punto succede qualcosa di strano, di imprevedibile: al calare delle sue prestazioni, aumenta l’amore dei suoi tifosi, aumenta la stima dei suoi detrattori, e l’ultima stagione non è un canto del cigno, è una grande festa pagana; scherzando con gli amici lo definisci un funerale vichingo, senza poter nemmeno immaginare che quella parola assumerà un significato molto più sinistro soltanto pochi anni dopo.
Quel percorso si completa con Dear Basketball: un messaggio un po’ melenso, sicuramente molto retorico, ma puramente positivo, che non ha più nulla di sprezzante o divisivo, un messaggio che è stato ulteriormente coltivato e arricchito negli anni successivi. Questi ultimi anni dopo il ritiro sono stati forse, e paradossalmente, i migliori della sua figura di icona dello sport: tenendosi sempre lontano dagli atteggiamenti amareggiati, nostalgici o malinconicamente astiosi che caratterizzano molti ex campioni, ha sempre fornito opinioni positive, incoraggiamenti, riconoscimenti agli ex avversari, suggerimenti e consigli a chiunque gliene chiedesse, e in primo luogo alle sue adorate figlie, a cui si dedicava a tempo pieno.
In questi ultimi anni è arrivata a compimento la sua parabola, che lo ha portato da giovane prodigio a stella, poi ad anti-eroe e infine a personaggio a tutto tondo, a figura paterna amata e rispettata. In una vicenda già tragica di per sé, quello che lascia il peggior retrogusto, ciò che la rende veramente insopportabile, è che in quell’incidente è morto - ancora prima che il campione, il personaggio pubblico o l’uomo - un padre con sua figlia.
Oggi tu hai quasi 40 anni, lui ne avrà 41 per sempre: vorresti dirgli qualcosa di speciale, ma riesci ad essere solo un po’ melenso e molto retorico. Dear Kobe, grazie di tutto.
Un’eredità senza eguali
di Ennio Terrasi Borghesan
Quando succede un trauma spesso ci si lascia andare a reazioni difficili da spiegare. Risposte soggettive, personalissime, private che possono essere rese pubbliche per cercare di passare più rapidamente allo stadio dell’accettazione e dell’elaborazione. Quello che è successo ieri sera in California è, di fatto, un trauma. Per me, personalmente, lo è per mille motivi. Uno che mi viene in mente a freddo, quasi di getto, è l’impossibilità di immaginare nuovamente un momento in cui potrò guardare una clip di highlights di un atleta che è stato scenografia della mia vita e della passione per uno sport di cui scrivo.
Fino a ieri pomeriggio guardav(am)o video di Kobe Bryant, parlav(am)o di Kobe Bryant, pensav(am)o a Kobe Bryant. Ai momenti della sua vita che mi e ci hanno legato a lui, quelli personali come la fortuna di avergli potuto fare una domanda nel corso dell’ultimo Mondiale in Cina o quelli “pubblici” come le giocate più belle di una carriera unica e irripetibile.
Avendo avuto, nel corso della mia vita, la fortuna di vivere Kobe Bryant, riesco a pensare intensamente a quella legacy che esula da statistiche, titoli, schiacciate e canestri allo scadere. Non è facile, non mi sarei mai potuto immaginare quando potesse non esserlo, ma ci riesco. E allora penso a chi era, per me, Kobe Bryant. Penso all’essere stato attore protagonista di un film che è parte della mia vita giorno dopo giorno, un protagonista di un livello tale che è difficile pensare allo stesso film senza di lui.
Penso alla sensazione di totale magnetismo che lo circondava. Alla capacità di polarizzare conversazioni, tra amici o sconosciuti, che potevano trascinarsi per ore. Alla sua passione per il gioco e la volontà di trasmetterla oltre i 28 metri per 15 di un parquet: scrivendo, raccontando, insegnando.
Alla sua totale nonchalance e naturalezza nel potere passare a disquisire, con competenza, dei talenti della nazionale lituana o greca per “realizzare” la giornata di chi aspetta tutta la vita per rivolgergli una domanda o un semplice saluto, tra l’imbarazzato e l’emozionato. In italiano, lingua che era anche la sua e che ce l’ha sempre reso più vicino di altri.
Oggi pens(iam)o a Kobe Bryant, ed è un pensiero che potrebbe facilmente andare oltre le ore che compongono una singola giornata. È un pensiero, diverso, differente, unico e irripetibile. Come la sensazione che riesco a immaginare come indissolubile da ieri in poi. Le nostre timeline sono piene dei ricordi o del silenzio di chi, di Bryant, è stato compagno, avversario, mentore, emulatore, ammiratore, tifoso o hater.
È un ricordo che potrebbe non terminare mai, perché sarà semplicemente impossibile pensare a Kobe Bryant senza pensare a ieri sera. La nostra capacità di “aggrapparci” ai nostri ricordi del Kobe giocatore e del Kobe uomo dovrà entrare a far parte di noi. E questa, in un modo quasi paradossale, è l’ennesima eredità di un uomo che non avrà eguali.
(Foto di Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images)
Avrei sempre voluto che Kobe mi parlasse in italiano
di Marco D’Ottavi
Un giorno di diversi anni fa, per un esame a cui era segnato solo un nostro amico, tramite i computer della facoltà aggiungemmo lo studente Kobe Bryant. A ricordarlo ora non sembra un’idea così geniale o divertente, eppure è quello che facemmo per combattere la noia di quelle giornate passate sui libri. Durante l’appello il professore, doveva essere una materia complicata e un professore complicato, lesse il suo nome con fare interrogativo aspettandosi una risposta che non arrivò mai. Accusò gli studenti Erasmus di essere degli sfaccendati e la storia si chiuse lì, con l’unico essere umano al mondo che non conosceva Kobe Bryant.
Questo è sicuramente l’aneddoto più stupido che lega la mia vita a quella di Kobe Bryant eppure è stato uno dei primi a tornarmi in mente quando, insomma, siamo dovuti venire a patti con questa notizia impossibile. Perché Kobe non è stato solo un grande giocatore di basket, ma è stato un compagno, uno di cui si parlava con gli amici perché era più grande, più stronzo, più forte, diverso. Non era una questione statistica, era una questione umana. Per me era la sua complessità ad essere così attraente, una complessità che oggi mi appare insormontabile, unica, speciale. Kobe era l’uomo solo su un’isola, quello che conosceva tutti gli schemi avversari, che ti fulminava con lo sguardo se sbagliavi, che ti parlava in italiano se gli stavi simpatico, quello ossessionato. Domani sarebbe stato il maestro integerrimo, il padre invidiato, l’allenatore severo.
So che questa cosa la posso scrivere solo qui, perché per molti di voi sarà stata ancora più dura, molti l’avranno amato in maniera ancora più viscerale, sportiva e umana, ci saranno cresciuti ancora più a contatto, l’avranno tifato oppure odiato. Per tutta la vita ho sperato che Kobe mi parlasse in italiano un giorno. Questo non avverrà, ma va bene così: tanto altro resta.
50 tiri
di Davide Casadei
Domani mi devo svegliare presto per andare a lavoro, dai ma chi me lo fa fare. Potrei dormire prima, guardarla in diretta e poi tornare a letto. Si può fare. Alla fine 3 ore di sonno in periodo di playoff le ho sempre fatte. Ma ne vale la pena?
E’ il 13 aprile del 2016, l’ultimo strascico di una stagione fallimentare in casa gialloviola. Un record di 17-65 che certifica il punto più basso raggiunto dai mai brillanti Lakers post Finals 2010, quelle contro gli odiati Celtics. Sono stati mesi di polemiche e tumulti interni, in cui una franchigia che a rigor di logica dovrebbe guardare al suo promettente gruppo di giovani è divorata da un qualcosa che non le permette di allontanarsi. Una supernova è implosa anni fa nella galassia del basket oltreoceano, generando un buco nero a cui nemmeno la gravità può sfuggire. Il buco nero si chiama Kobe Bryant, e da quando ha annunciato il ritiro tutti noi scienziati e non lo osserviamo con stupore. La rottura del tendine d’Achille ci ha consegnato un giocatore al rallentatore, con capacità atletica e aerobica dimezzata e la cui età lo rende sempre più simile a un vecchio leone stanco ai margini del branco. La sua eleganza in palleggio e il suo footwork enciclopedico rimangono tuttavia immutati, scolpiti nelle menti dei tifosi che ora lo acclamano in ogni arena dopo anni spesi ad insultarlo per l’ennesimo fade-away a segno sulla sirena.
Kobe sa perfettamente che esiste una sola versione possibile di essere Kobe. Ha passato tutta una vita per diventare ciò che tutti gli riconoscono universalmente essere: un lavoratore infaticabile e un vincente per natura. Così si segna sul calendario gli appuntamenti come una rockstar al suo tour d’addio, per darci le ultime briciole razionate di Kobe. E’ uno scrittore navigato che manipola le narrative del suo racconto. E’ il burattinaio ossessionato che non può permettere a nessuno di intromettersi nel suo gran finale. “He was the most intelligent professional athlete I had ever encountered, curious and demanding and savvy and competitive and relentless and infinitely complicated” scrive Jackie MacMullan. Infinitely complicated.
E così quella notte italiana tra 13 e 14 aprile mi metto sul divano di casa mia e decido di guardare uno spettacolo di cui so già premesse, sviluppo e conclusione. Un film visto migliaia di volte realizzato da un regista di cui personalmente non ho mai apprezzato l’immaginario e le sceneggiature pur riconoscendogli grandi qualità artististiche. A circa un minuto dalla fine del solito copione un pensiero si insidia nella mia testa. D’un tratto mi rendo conto che sarà l’ultima volta in cui potrò lamentarmi di questo melodramma, in cui potrò sbuffare sull’ennesimo midrange senza senso con 18 secondi sul cronometro, l’ultima volta che potrò vedere quella maschera greca coi denti digrignati alzare un pugnetto con gli occhi assatanati. Vi prego fermate il tempo, non sono ancora pronto... boom tripla ma no un attimo, palleggio, arresto, tiro, canestro la sta davvero vincendo da solo e anche se non conta nulla, non importa.
Libero a segno, libero a segno, sostituzione, standing ovation, Mamba out, luci spente allo Staples. Sono 60. Con 50 tiri. La copia spudorata della partita che sapevo avrebbe fatto. E allora perché piansi allora, e piango ancora ora scrivendolo? Perché tu che hai sempre voluto fare di testa tua, che hai sempre avuto tutte le risposte.
Perché non me lo sai spiegare, Kobe?
(Foto di Matt Sayles/A.M.P.A.S via Getty Images)
Lower Marion High School, là dove tutto è iniziato
di Michele Pettene
Ho iniziato a sentire discussioni sulla legacy di Kobe Bryant - l’eredità lasciata dal giocatore e dalla persona al mondo - quando ancora il Black Mamba era nel pieno della sua carriera. Questo perché l'impatto di Kobe sul suo sport e sul mondo sportivo (e non) è iniziato molto tempo fa, non certo ora e solo perchè è tragicamente scomparso dal Pianeta Terra.
Impossibile non lasciarsi ispirare dall'etica lavorativa inarrivabile, una leggenda con solide base reali confermata nelle ultime ore dai tanti aneddoti che chiunque abbia toccato con mano l'approccio di Bryant al gioco sembra aver vissuto. Impossibile non rimanere a bocca aperta di fronte a un'impresa dichiarata e a maggior ragione ancor più epica: tutti noi, e saremo stati prossimi al miliardo di persone, in un momento della nostra vita abbiamo pensato/sognato/gridato "voglio essere come MJ!". Solo uno può dire di avercela fatta, o perlomeno di essersi avvicinato il più possibile. Fermatevi, ripensateci, rielaborate: per me è incredibile.
Kobe Bryant è colui che nel 1996 non volle andare al college per un unico vero motivo, oltre a ritenersi già pronto per il livello NBA: aveva timore che Michael Jordan si sarebbe ritirato mentre lui era all'università, impedendogli di giocarci contro. Sono parole che ho sentito dire direttamente dal suo amato coach della Lower Merion High School, Gregg Downer. L'unico, insieme a Phil Jackson, capace di comprendere cosa ardeva dentro quell'adolescente dall’inglese stentato e dall’italiano perfetto già così divorato dal desiderio di migliorare e vincere.
Proprio qui, nella palestra del liceo di Kobe completamente rinnovata grazie all'aiuto finanziario del Black Mamba, nel mio piccolo ho toccato con mano una parte di questa legacy, di questo approccio ossessivo e maniacale: la Lower Merion non ha più avuto un talento del suo calibro, eppure dal 1996 - anno del titolo statale con Kobe al comando - ha avuto solo stagioni vincenti, finali statali, titoli.
Coach Downer mi ha confidato che è solo grazie a Bryant, al suo continuo ritornare anno dopo anno nella scuola dove è cresciuto per dimostrare ai ragazzi cosa occorresse per tirare fuori il meglio di sé: farsi il culo più di chiunque altro. Gli studenti hanno recepito e, pur non dotati nel basket come la loro fonte d'ispirazione, hanno preso sul serio la sfida elevandosi sulla concorrenza, mantenendo viva la cultura vincente impiantata di pura forza da un essere superiore, speciale, unico. Anche dietro ai banchi di scuola, mi ha detto il preside, con la media complessiva alzatasi sensibilmente dall’arrivo di Kobe alla Lower Merion: se volete un posto al mondo capace di testimoniare concretamente l’effetto-Mamba, lo trovate a nord-ovest di Philadelphia, la città dov’è iniziato tutto.