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Daniele V. Morrone

Tutti cercano il nuovo Guardiola, ancora

Kompany al Bayern e Maresca al Chelsea significano la stessa cosa.

Dopo settimane di ricerca e vari candidati che hanno respinto l’offerta, a fine maggio il Bayern ha finalmente trovato un allenatore per la prossima stagione: Vincent Kompany. Negli stessi giorni il Chelsea ha scelto Enzo Maresca per avviare il nuovo ciclo. Nessuna delle due è una scelta immediata, perché entrambi restituiscono l’impressione di avere un curriculum troppo magro per la panchina a cui sono destinati.

 

Kompany ha 38 anni, ha allenato l’Anderlecht per due stagioni e poi il Burnley per altre due. Ha ottenuto una bella promozione in Premier League, dove quest’anno è arrivato circondato da un grandi aspettative. Ha finito però per vincere appena cinque partite ed è retrocesso con una differenza reti di -37. Maresca ha 44 anni e la sua stagione da cosplayer di Guardiola l’avevamo raccontata proprio di recente. Un’ottima stagione in fondo non troppo dissimile da quella di Kompany un anno fa: una stagione che ha confermato quello che si sapeva, e cioè che Maresca è preparato, ha idee interessanti e ha saputo applicarle per vincere un campionato complicato – ma di seconda fascia – come la Championship. Per ora, nulla di più.

 

Kompany e Maresca vanno a sostituire due tra gli allenatori più famosi del continente: Tuchel e Pochettino.


Il senso di sorpresa è palpabile tra chi segue il calcio: possibile che due tra le squadre più ricche al mondo decidano di fare sostanzialmente un salto nel buio con allenatori poco più che esordienti, con zero esperienza nelle coppe europee?

 

Non è la prima epoca storica in cui succede qualcosa di simile.


«Può essere la versione italiana di Pep Guardiola. È pronto a guidare una grande squadra e il Barcellona ha dimostrato che a volte si viene premiati quando si dimostra coraggio nella vita». Questa dichiarazione invecchiata male è di Nicola Legrottaglie riguardo la scelta di Ciro Ferrara allenatore della Juventus. Era il giugno del 2009 e doveva sostituire Claudio Ranieri. Nelle stesse settimane Leonardo viene nominato allenatore del Milan; ne era il direttore tecnico, ma viene convinto a fare l’allenatore e a sostituire Carlo Ancelotti, andato via dopo 8 stagioni. 

 

In quell’estate la tempesta del primo Barcellona di Guardiola si è appena abbattuta sull’Europa: la squadra catalana vince al primo anno ogni trofeo e lo fa con un allenatore giovane, con idee radicali e che fa giocare alla sua squadra un calcio futuristico.



Nessuna delle squadre che tentò la fortuna alla lotteria guardiolista riuscì a tirare fuori il biglietto vincente. Non bastava essere stato un giocatore iconico per poter guidare una grande squadra.

 

Juventus e Milan si accorgono presto che dietro la bella facciata non c’è nessuna metodologia rivoluzionaria. Ferrara non finisce la stagione, Leonardo sì, ma poi cede il posto a Massimiliano Allegri. Ad avere ragione quell’estate del 2009 invece sono le squadre che si affidano ad allenatori già affermati: Mourinho all’Inter, van Gaal al Bayern, Ancelotti al Chelsea.



Sono passati tre lustri da quell’estate e oggi possiamo dire che, in effetti, quello di Guardiola era il calcio del futuro. Lui, nel frattempo, è rimasto uno, ma la sua influenza tattica sul mondo del calcio non smette di esercitare il suo potere. È ancora a questa influenza, iniziata ormai 15 anni fa, che dobbiamo far riferimento per spiegare quello che sta succedendo alle panchine delle grandi squadre.

 

 

La storia del discorso tattico viene raccontata spesso come una dinamica di evoluzione darwiniana, ma sarebbe più appropriato parlare di una dinamica di dialettica hegeliana. Un continuo accavallarsi di tesi, antitesi e sintesi che partendo dallo scontro primigenio su cosa fare col pallone, se portarlo in conduzione fino in porta o passarlo al compagno, ci ha portati fino al calcio contemporaneo. In questo momento sembra aver trovato un vantaggio chiaro l’approccio proattivo volto al controllo del ritmo e delle intenzioni in campo del gioco di posizione. Perché? Per il successo della metodologia sviluppata negli anni e la sua facile replicabilità. Relativamente facile, certo. Oggi alcuni principi del gioco di posizione sono ubiqui nelle squadre che vogliono dominare le partite attraverso il pallone e c’è chi parla addirittura di un’egemonia del gioco di posizione come visione del calcio ad alto livello. Non senza toni critici.



Solo Carlo Ancelotti, tra gli allenatori della vecchia scuola, è riuscito a proporre qualcosa di diverso, e a farlo in modo efficace. Bisogna dire che ci è riuscito guidando il Real Madrid: con qualsiasi altra squadra presa negli ultimi 10 anni, non ce l’aveva fatta. Di tutti i suoi ex giocatori, nessuno ha saputo riproporre il suo approccio di calcio con successo, tranne uno: Zinedine Zidane – ma non a caso nella stessa squadra.

 

Quella di Ancelotti non è una ricetta così facile da replicare se sei il Bayern o il Chelsea, per esempio.



Sulla singola partita si può battere Guardiola. Lo ha fatto da poco Erik ten Hag in finale di FA Cup e Thomas Tuchel – cresciuto nella marinatura filosofica del gioco di posizione – ha vinto in finale di Champions League contro Guardiola con un Chelsea molto reattivo. Su una stagione intera, però, è diverso. Guardiola ha ormai imposto la sua dittatura illuminata sulla Premier League, e ha costretto gli avversari ad adattarsi o rimanere indietro.



Analizzando per scuole calcistiche, quella inglese ha raccolto a piene mani dal gioco di posizione da quando Guardiola è arrivato da loro. Di quella italiana, all’estero la matrice che sta raccogliendo più attenzione ora è sempre quella sempre del gioco di posizione, rappresentata da De Zerbi e Farioli. Chi negli ultimi anni ha raccolto successi fuori dal nostro Paese come Sarri e Conte, ha rapidamente esaurito il proprio ciclo all’estero e ora è tornato in Serie A. Gasperini, l’allenatore più influente del nostro campionato, resta un prodotto locale. Cosa resta? 

 

La matrice tedesca, quella non toccata direttamente dal passaggio di Guardiola al Bayern, e rappresentata da Jurgen Klopp, il grande rivale di Guardiola in Premier. Eppure questa scuola sembra che non stia reggendo il passo, se parliamo di mainstream. 

 

Escluso Klopp, la scuola tedesca non è riuscita a mettere radici nelle squadre di prima fascia. Uno dei suoi ideologi, Ralf Rangnick, è durato pochi mesi al Manchester United senza andare bene. Gli ultimi anni mostrano come la scuola tedesca (o austro-tedesca, per dirla meglio) per ora sembra essere più tagliata per avere successo nelle squadre minori, come nel caso di Oliver Glasner nel Crystal Palace. Quando insomma sei un underdog e puoi aggiustarti sui difetti avversari, con un mix di pressing alto e transizioni fulminee. Per chi vuole dominare in modo proattivo non sembra avere la stessa presa. Lo stesso Klopp ha dovuto smussare il proprio stile di gioco nel Liverpool, proprio per poter battagliare col Manchester City di Guardiola su stagioni intere. Con lo standard fissato da Pep, perdere anche solo un paio di punti poteva significare non arrivare al titolo a fine stagione. Il Liverpool ha vinto quando ha anche integrato alcuni fondamenti del gioco di posizione nel proprio stile di gioco.


L’unico vero avversario di Guardiola in Premier League, oggi, sembra Mikel Arteta, l’ex assistente di Guardiola ora all’Arsenal. La squadra rivelazione in Europa, arrivata ad una partita dal terminare tutta la stagione imbattuta è il Bayer Leverkusen di Xabi Alonso, l’ex giocatore del Bayern di Guardiola. Diceva il saggio da Treviri che la Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. E ora allora le grandi squadre d’Europa in cerca di allenatori sembrano voler riprovare la lotteria.

 

Cosa hanno in comune in comune Kompany e Maresca? A questo punto lo avrete capito: entrambi sono stati a contatto diretto col lavoro di Guardiola, da giocatore il primo e da assistente il secondo.

 

 

«Vincent ha tutto, tranne l’esperienza di aver lavorato finora in un top club. Ha una grande personalità e il suo stile di gioco si adatta perfettamente al Bayern: vogliamo essere dominanti, vogliamo avere la palla. Anche lui è sinonimo di questo. Siamo felici di averlo con noi e di fare i prossimi passi con lui» ha detto alla presentazione di Kompany il DS del Bayern Eberl. E alla fine sta qui il nocciolo della questione.

 

La posta in gioco, per club di quel livello, è troppo alta per tentare strade originali o troppo coraggiose tatticamente. Tante vale rischiare per prendere allenatori giovani ma che propongono un modello che si è già dimostrato di successo. Si emula per una ricerca di sicurezza: ciò che funziona per gli altri funzionerà anche per me.


In questo senso è stato proprio il successo di Arteta all’Arsenal, alla prima esperienza, a rappresentare un modello per gli altri club. Prima del suo arrivo l’Arsenal spendeva soldi senza riuscire a tornare competitiva. Un esempio che deve aver spinto le altre grandi a pensare che, in fondo, valeva la pena provarci. Un allenatore considerato molto preparato tatticamente, carismatico nella gestione del gruppo e che fa un determinato tipo di calcio. Quello alla lunga più vincente, quello della scuola di Guardiola.


Le grandi squadre oggi vogliono dominare il gioco, e vogliono farlo in un modo specifico. Questo è il modo più semplice per spiegare il perché, Guardiola, ha plasmato il modo in cui le grandi squadre pensano sia più facile arrivare a vincere o almeno assestarsi ai vertici. Ha scritto Daniel Storey su inews: «Se già sapevamo che i club di alto livello erano sempre più ossessionati dai processi e dalla filosofia, gli ultimi sette giorni hanno fatto il salto nel buio. Esiste una vaga teoria secondo cui questi dogmatici allenatori sono attraenti perché il loro calcio è più facile da replicare con successo con giocatori migliori. Il Burnley ha dominato in Championship quando aveva una delle squadre più forti e poi è crollato in Premier League quando non ce l’aveva: forse la prima ipotesi è più rilevante».

 

C’è un discorso più generale su come si rifonda un ciclo, e cioè come si edifica una squadra che viene da un momento storico difficile.


A proposito di grandi squadre, prendiamo l’esempio della Juventus. Il club in questi anni è passato da uno dei più celebri allenatori gestori, Allegri, all’architetto Sarri. Poi c’è stato il tentativo di allenatore-architetto Pirlo, per poi rinculare al gestore Allegri. Dopo due anni faticosi, la Juventus ha scelto l’allenatore architetto emergente della Serie A, Thiago Motta. La figura di Motta non è solo quella dell’allenatore che ha portato il Bologna in Champions League, ma è del come l’ha fatto, del lavoro che c’è dietro per rendere il Bologna una squadra dell’avanguardia tattica europea. Motta ha portato il Bologna a fare un gioco di posizione con varianti estremamente contemporanee. La scelta della tipologia di allenatore è anche un messaggio sulla direzione che vuole dare la Juve al progetto; con Motta si parla di rifondazione e non di continuità con la gestione precedente. E se vuoi rifondare ti serve qualcuno che, appunto, getti le fondamenta, in questo momento per le grandi squadre le fondamenta tattiche che a torto o a ragione sembrano più solide, sono quelle del gioco di posizione. Poco importa dell’esperienza dell’allenatore, quella se la fa direttamente allenando il club.

 

Secondo Adam Bate di Sky Sport: «I fattori in gioco sono molti, non ultimo il difficile processo di reclutamento del Bayern. Ma la scelta di Kompany evidenzia anche il cambiamento della visione di ciò che rende un allenatore d’élite, una crescente volontà di guardare oltre i risultati e verso uno stile che possa essere trasferito». 

 

In questo momento sembrano esserci più grandi squadre che grandi allenatori, o almeno allenatori affermati che non siano stati già masticati dall’élite. Allenatori che giocano un certo tipo di calcio, e che non abbiano il curriculum macchiato dal fallimento. Si può dire che, per motivi diversi, le grandi squadre sono talmente inallenabili da aver già consumato la credibilità di tutti gli allenatori sul mercato, così da dover andare a pescare al di fuori da esso (Maresca e Kompany, che qualche anno fa non avrebbero ancora avuto l’esperienza per allenare un top club). Il Bayern ha mangiato e ri-sputato Nagelsmann e Tuchel nel giro di un paio d’anni; il Chelsea ha fatto lo stesso sempre con Tuchel e poi con Potter, infine con Pochettino. La piscina da cui pescare un allenatore per una squadra come il Bayern è allo stesso tempo più ristretta di quanto non lo fosse anni fa, e necessariamente più ricca di nomi senza grande esperienza.


Il Bayern, però, è in crisi d’identità da qualche tempo. Dopo Guardiola, e i successi raccolti da Flick seguendo il suo stampo, non ha saputo trovare un senso preciso. Ora ha preferito scegliere Kompany invece che provare con tecnici più esperti e vincenti come Allegri o Conte – allenatori che però assicurano forse una visione a brevissimo termine, non di sistema. 

 

Questo sarebbe stato forse impensabile nel calcio pre-Guardiola: Kompany non è neanche un ex giocatore del Bayern, così come Maresca non ha mai giocato nel Chelsea. Il Chelsea spera di aver trovato nel cosplayer di Guardiola il nuovo Arteta, per ricostruire un progetto a lungo termine. Il contratto offerto a Maresca dalla squadra londinese è di cinque anni, altra cosa inedita e segno dei tempi. Un segnale fortissimo di voler affidare a Maresca le chiavi del progetto come fece l’Arsenal con Arteta a suo tempo. Sempre che il Chelsea decida di seguire questa strada fino in fondo e che non sia solo la moda del momento e poi chissà. 

 

Allenare una grande squadra è sempre più difficile, le cose cambiano in fretta.

 

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Daniele V. Morrone, nato a Roma nel 1987, per l'Ultimo Uomo scrive di calcio e basket. Cruyffista e socio del Barcellona, guarda forse troppe partite dell'Arsenal.