Kostas Manolas se ne è andato all’improvviso, come un rapinatore in fuga si è presentato all’aeroporto con una valigetta di contanti, stufo della sua vita e pronto a lasciarsela alle spalle. È stato fermato dalla Guardia di Finanza perché trasportava più di ventimila euro, e nessuna persona sana di mente, e che non ha niente da nascondere, cerca di partire con in tasca ventimila euro in contanti.
Abbiamo smesso di chiederci cosa sta facendo Manolas, abituati ormai alle sue stravaganze, pensavamo a un rientro anticipato a casa prima di Natale: con i problemi fisici patiti ultimamente forse non c’era motivo di restare a Napoli. Invece il giorno dopo è uscita la notizia del suo trasferimento all’Olympiacos: Manolas con la maglia a righe bianche e rosse, irsuto, che guarda in camera col suo sguardo buffo da finto cattivo. Due mesi fa era considerato ancora uno dei migliori difensori della Serie A, oggi ha già l’aria dell’ex giocatore, finito a riposare le membra nel campionato di casa, nella squadra che lo ha cresciuto, ad appena trent’anni: un’età in cui un difensore di alto livello è ancora al massimo delle proprie possibilità. Ha gli stessi anni del compagno di reparto Kalidou Koulibaly, un giocatore che consideriamo nel prime e proiettiamo persino nel futuro. Ad Atene è stato accolto da eroe, con cori lanciati in riva al mare.
È un ritorno difficile da interpretare. Manolas era davvero troppo consumato a livello fisico per continuare a giocare nel Napoli? Luciano Spalletti non aveva più fiducia in lui dopo il grave errore contro la Juventus? Alla fine di quella partita Kostas aveva detto «Siamo fortissimi» e Spalletti aveva risposto con una classica freccia di veleno dalla sua faretra: «Siamo quello che si fa, non quello che si dice».
Oppure è solo un misto di tutte queste cose, unite alla leggendaria pigrizia di Manolas, a una nostalgia di casa che non è mai riuscito a nascondere. Ogni volta che poteva parlava di Naxos come il paradiso in terra.
Per salutare uno dei migliori difensori dell’ultimo decennio di Serie A, abbiamo raccolto i suoi migliori momenti, quelli che lo raccontano meglio, e che quindi sono inevitabilmente momenti strani. Perché Manolas è, effettivamente, strano, senza alcuna connotazione negativa ma solo seguendo la definizione di “strano” che offre per esempio la Treccani: «Riferito a persona, che ha un carattere, un modo di pensare e di sentire e in genere un comportamento diverso da quello della maggior parte degli uomini».
Manolas che imbruttisce ai pariolini
Mi è capitato di incrociare Manolas in aeroporto, passargli a fianco e avvertire il leggero spostamento d’aria che provoca: non ho mai visto di persona un calciatore così grosso. Non è tanto un fatto di altezza ma di struttura. Ci sono persone più spesse delle altre, che sembrano possedere strati supplementari di carne, muscoli e sangue.
Quando è arrivato in Serie A, nel 2014, era al massimo delle sue possibilità fisiche, ed era uno splendido vitellone. I calzettoni tirati giù a metà a scoprire dei polpacci erti, non di quelli ultra-definiti ma di quelli quasi cilindrici da bambinone. Manolas ha sempre avuto qualcosa del neonato gigante, come quei pre-adolescenti cresciuti troppo all’improvviso, e sinceramente era difficile prevedere potesse essere così veloce. Eppure era una bestia: il miglior difensore nei recuperi in profondità del campionato italiano per molti anni. Prima di arrivare alla Roma si era fatto notare al Mondiale con la maglia della Grecia, dove aveva sfoderato prestazioni sontuose e mostrato un repertorio da difensore feroce e completo.
Cinque minuti dopo essere arrivato a Roma, Kostas Manolas aveva già l’accento romano. Il fisico abbondante, il doppio taglio, la barbetta tagliata male, le tute della Roma: non vi stupireste a trovarlo all’angolo di un bar di una delle periferie di Roma sud o Roma est, o fuori da un centro scommesse in cui si fuma dentro e si discute degli over in Bundesliga con le mani infilate nelle tasche del piumino.
Il 30 agosto già era in modalità adorativa nei confronti di Totti e alla prima partita grossa, contro la Juventus allo Stadium - una sfida ad alti contenuti drammatici - ha dato il primo segno di follia. Dopo un intervento dimostrativo in pressing di Morata, si è rialzato e gli è andato dritto addosso, due spallate e poi testa contro testa da campetto. Due giovani galli che sgambettano. In quei giorni su Facebook i tifosi gli dedicano la pagina “Manolas che imbruttisce ai pariolini”, dando una cornice allo scontro fra la rudezza borgatara di Kostas e l’aria precisina e borghese del nuovo attaccante della Juventus. Già in Grecia Manolas si era fatto una reputazione di difensore pazzo. Guardate questa mezza rissa con la maglia dell’Olympiacos. Manolas si prende qualche secondo scenico prima di assecondare la scintilla e “partire” al suo avversario. Ci eravamo fatti un’idea sbagliata di Manolas: era un difensore pazzo, ma non di quelli che proliferano nella violenza ma di quelli imprevedibili e inclini a una certa fragilità infantile.
Kostas Manolas, primo giocatore a diventare cieco durante una partita (e a riacquisire la vista solo poco dopo)
Dopo quella ruvidezza iniziale, Manolas infatti inizia a prendere le sembianze di un personaggio verdoniano. Un difensore fortissimo, duro come la pietra, con mezzi fisici da olimpionico, eppure capace di vivere nel costante timore della morte, ipocondriaco fino allo sfinimento. Dopo ogni contrasto Manolas si rotola a terra diverse volte, affonda la faccia nel prato, spalanca la bocca e sembra non potersi rialzare più. Ogni contrasto pare poterlo mandare giù per sempre. Col tempo nessuno gli crede più, lo lasciano per terra a rotolarsi aspettando che si riprenda. Magari qualcuno gli si avvicina e gli chiede come sta, giusto per assecondarlo come si fa coi bambini che camuffano i capricci coi malanni. Contro il Napoli però le sue richieste d’aiuto non potevano essere ignorate, perché dopo un normale contrasto con Higuain, un piccola manata, a partita iniziata da poco, ha dichiarato di non vedere più niente. Cieco nel bel mezzo di una partita così importante, è possibile? Chiede il cambio e in panchina Luciano Spalletti, che lo conosce bene, non lo vuole nemmeno sentire. Seguono momenti surreali e incomprensibili, discussioni ridicole a distanza, il tecnico che non sa che fare. Alla fine Manolas convince tutti che non può continuare e viene sostituito da Ervin Zukanovic.
Il cortocircuito tra due delle persone più squilibrate del calcio italiano, Spalletti e Manolas, ha contribuito all’epilogo recente, ma ha anche prodotto momenti memorabili. Il difensore descrive il tecnico usando le parole “cattivo” o “duro”. I loro litigi negli anni a Roma sono stati diversi e con vari gradi di intensità. Contro la Sampdoria, contro l’Atalanta, contro il Torino, quando dopo un gol ha esultato con una faccia torva nei confronti di Spalletti. In quel periodo il tecnico è nel pieno dell’apocalisse Totti e risponde col classico stile passivo aggressivo: «Ce l’aveva con me anche lui? Mi sembra di non entrarci niente stavolta, ma se serve, ci sono». Quando Spalletti è tornato all’Olimpico da avversario ha salutato Manolas con una pacca e quello lo ha ignorato e poi ha risposto con freddezza. Eppure si sono voluti anche bene.
La rissa con Dzeko
Fra i momenti francamente strani vissuti da Kostas Manolas anche una rissa in Nazionale con il capitano della sua squadra di club. A fine partita Dzeko prende un po’ per il collo, o per il mento, Kostas. Si puntano l’indice contro, si dicono qualcosa, poi rientrano mentre alle spalle si lasciano caos e devastazione. Sull’episodio scherza il presidente della Roma James Pallotta, in una surreale intervista video sui canali del club. Gli dice che l’unico modo per avere chance in una rissa con Dzeko è puntare alle ginocchia.
Nella stessa intervista Pallotta sostiene che Manolas negli anni sia cambiato in maniera incredibilmente positiva: «All’inizio eri una persona molto sicura di sé, un giovane presuntuoso».
The Greek God
Il giorno di Roma-Barcellona a Trigoria si respira l’arietta magica delle grandi occasioni. All’andata la Roma aveva perso 4-1: un risultato durissimo che nessuno dei giocatori ritiene giusto. Ma con un ottimismo paradossale i giocatori quella mattina si svegliano convinti che l’impresa è alla portata. È un sentimento d’euforia raccontato da Lorenzo Pellegrini in una recente intervista a The Player’s Tribune, in cui aggiunge: «Eravamo tutti convinti, tranne uno: Kostas Manolas». È una scena difficile da immaginare, un gruppo di giocatori preso da una suggestione collettiva, ipermotivati con quella motivazione stupida e gloriosa degli atleti di alto livello, e poi una persona che andava in giro dicendo che ne avrebbero presi altri quattro. Non che avrebbero perso, ma che ne avrebbero presi quattro. È proprio quello che diceva Manolas spargendo pessimismo tragico nello spogliatoio, e per fortuna lo conoscevano troppo bene per dargli retta.
Associamo la civiltà greca alla libertà, all’edonismo e al piacere. Ma è anche la civiltà della tragedia, del suicidio nobile, di persone che si trafiggono gli occhi per non dover più guardare l’orrore della propria vita. Uno dei più grandi esponenti del pessimismo storico greco, Erodoto, credeva che il desiderio di gloria degli uomini si sarebbe inevitabilmente scontrato col fallimento perché il mondo è governato da questi dei irascibili e vendicativi. Per Nietzsche i greci vivevano in uno stato di grande pessimismo, e di fatto hanno perfezionato le arti per sublimarlo e superarlo.
Kostas Manolas.
È difficile non interpretare in senso cosmico e divino il fatto che a decidere la più importante partita della storia recente della Roma sia stato proprio Manolas. Tutto zompettante sui polpacci glabri e pallidi, si è inserito sul primo palo da calcio d’angolo, e ha girato il pallone del 3-0 fatale in rete. L’esultanza successiva è una di quelle in cui lo sport ci mostra degli esseri umani in preda a una gioia talmente radicale da confinare con la disperazione. Manolas grida correndo verso la tribuna e in sostanza non sa che fare, se non gridare e sbarrare gli occhi fino quasi a farsi arrivare le palpebre sopra la fronte. «Gettare lo sguardo nell’abisso» diceva Nietzsche. Peter Drury nel frattempo decorava il momento con la sua telecronaca epica: «Il Dio greco a Roma. Roma risorge dalle sue ceneri. Un Dio greco dal Monte Olimpo». Manolas ha poi ammesso di riguardare mattina e sera quel gol, gustandosi la telecronaca.
Una descrizione enfatica che poco si associa alla fragilità patologica di Manolas, ma che finisce per alimentarne le contraddizioni: difensore duro e fisicamente portentoso, eppure con una percezione di sé stesso debole e infantile; pessimista e cupo, ma capace di trasformarsi anche in trascinatore e uomo del destino.
Un grande difensore
Manolas è buffo e divertente, ma è stato un grande difensore del nostro campionato. Pochi sono stati capaci di abbinare le sue abilità nel recupero in profondità all’attenzione in marcatura in area di rigore. Aveva giornate di disattenzioni, ma non così frequenti. In campo aperto, se riusciva a prendere contatto con l’attaccante, era quasi impossibile da superare. Quando partiva in corsa, alzando il mento e tenendo il busto fermo come i velocisti su pista, c’era un momento in cui accelerava in modo sempre un po’ inspiegabile. (Mi scuso se ne parlo al passato come se si fosse ritirato, ma è un pezzo di congedo dall’Italia).
Nella partita contro il Barcellona, offre una grande prestazione contro grandi giocatori, che riesce a sovrastare quasi sempre in anticipo, o a recuperare quando era in svantaggio, mangiando anche diversi metri di campo a persone teoricamente molto veloci. In questa prestazione individuale contro la Juventus, nei duelli con Matuidi e Cristiano Ronaldo, si capisce quanto fosse tosto come avversario nel corpo a corpo. Le persone gli rimbalzano contro.
Anche in giornate tecnicamente più limpide del solito, Manolas non era a suo agio quando doveva impostare il gioco. In questo non è mai stato un difensore contemporaneo. Le squadre avversarie della Roma o del Napoli studiavano spesso il proprio piano difensivo lasciando libero Manolas di giocare, sicure dei suoi piedi troppo grezzi o delle sue decisioni sbilenche, sempre troppo conservative o troppo rischiose. Se la carriera di Manolas forse non si è mai spinta fino ai club d’élite, è soprattutto per questi difetti, ed è un fatto che ci dice qualcosa in più sulla valutazione del ruolo del difensore nella complessità del calcio contemporaneo. Dieci anni fa, Manolas sarebbe stato ritenuto senza dubbio fra i migliori interpreti dell’arte difensiva.
L’intervista in cui sembra molto più matto di Radja Nainggolan
In questa intervista chiacchiera con Radja Nainggolan, che dei coatti romani è una specie di divinità pagana, una loro uber-rappresentazione al pari di Ranxerox. Eppure messo accanto a Manolas, Nainggolan sembra la persona più normale della coppia. Ci sono diversi passaggi notevoli di questa intervista. A un certo punto Nainggolan gli chiede quand’è l’ultima volta che ha pianto, e lui risponde “contro il Barcellona” e Radja gli risponde “per finta?” come insinuando qualcosa. Qualcosa che forse ha a che fare con l’amore di Kostas per le sceneggiate; la risposta contiene della coda di paglia: «No, io non piango mai per finta» dice, come un bambino che deve giustificarsi. Poi Nainggolan parla esplicitamente dell’ipocondria di Manolas, «Ha male pure alle orecchie quando parla» lo prende in giro col linguaggio da vecchia zia. «C’ha sempre qualcosa. In campo si rotola cento volte, pesta sempre col piede a terra».
«Mi chiami cento volte al giorno» dice Nainggolan, e cosa si dicono al telefono, viene da chiedersi. Poi gli dice di scegliere tre personaggi, magari non calcistici, da portare a cena. Magari qualcuno del cinema, «Non guardo film» risponde Manolas, come se fuori dal campo si spegnesse e potesse esistere come una pianta da appartamento. Poi dice che porterebbe David Beckham e Monica Bellucci, le due persone con cui avrebbe voluto stare a cena qualsiasi ragazzino cresciuto nei primi anni 2000, senza un minimo sviluppo o evoluzione dei propri gusti. Qual è il tuo posto preferito di Roma? Casa mia. E Nainggolan fa una faccia delusa.
Al Napoli sembrava poter fermare una coppia insuperabile con Koulibaly, almeno questo era nell’immaginario comune. È rimasto solo un ideale, visto il declino di Manolas. Un declino soprattutto fisico. In due anni e mezzo di Napoli ha saltato più partite che in cinque stagioni con la maglia della Roma. Ora dice di essere felice di essere tornato all’Olympiacos non a fine carriera ma in un momento in cui sente ancora di dare molto. Un trasferimento arrivato all’improvviso, una scelta romantica e controintuiva rispetto a come siamo abituati a leggere le carriere dei calciatori. Una scelta però molto da Manolas, un giocatore in cui pigrizia, follia e romanticismo confinano tra loro.
Ci mancherà.