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Kyle Lowry e i Toronto Raptors non sono riusciti a dirsi addio
30 mar 2021
Sembravano destinati a lasciarsi alla deadline, ma ancora una volta Lowry è rimasto ai Raptors.
(articolo)
12 min
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Quando mancava poco meno di un’ora alla deadline del mercato NBA, i Toronto Raptors hanno fatto due mosse minori — cedere due riserve fuori dalla rotazione come Matt Thomas e Terence Davis per due seconde scelte future al Draft — che sembravano il segnale di un movimento molto più grosso in arrivo, come se stessero facendo spazio a roster per accogliere tre o quattro giocatori tutti assieme. Quelli che servivano alle altre squadre per pareggiare il contrattone da 30.5 milioni di Kyle Lowry. L’intera NBA lo aveva indicato come l'unico giocatore sul mercato davvero in grado di spostare qualcosa in termini di vittoria del titolo, quel veterano in grado di fare le fortune di più o meno tutte le contender che per lui avrebbero sacrificato la loro profondità pur di migliorare il proprio roster.

Sulla situazione di Lowry ha influito anche che i Toronto Raptors siano in assoluto la squadra più in sofferenza della NBA. Un po’ perché giocano in trasferta perenne, dato che stanno disputando le loro partite “casalinghe” a Tampa Bay, a causa delle restrizioni ai viaggi in Canada dovute alla pandemia. E un po’ perché hanno davvero avuto enorme sfortuna in termini di infortuni e di positività al COVID-19, che verso la fine di febbraio hanno fatto deragliare la loro stagione quando sembrava che avessero trovato una quadra con quattro vittorie in fila di cui tre contro Milwaukee e Philadelphia, tornando sopra al 50% di vittorie.

Nel mese di marzo però hanno perso 13 delle 14 partite disputate e sono precipitati al 13° posto nella Eastern Conference, a due gare di distanza dall’ultimo posto buono per il torneo play-in, e un po’ tutti si aspettavano che questa stagione maledetta venisse definitivamente mandata agli archivi cominciando a smantellare la squadra — che poi voleva dire soprattutto cedere Kyle Lowry, in scadenza di contratto a fine anno.

L’impronosticabile storia d’amore tra Lowry e i Raptors

Se Kyle Lowry non fosse stato Kyle Lowry per i Toronto Raptors, cioè il giocatore più importante nella storia della franchigia, oggi probabilmente avrebbe già debuttato con un'altra squadra. D’altronde Masai Ujiri, capo della dirigenza dei Raptors, ha sempre dimostrato di non farsi troppi scrupoli sin dai tempi di DeMar DeRozan, che quando è stato scambiato ai San Antonio Spurs per arrivare a Kawhi Leonard aveva uno status persino superiore a Lowry. E senza andare troppo in là, giusto giovedì scorso ha avuto il sangue freddo di cedere Norman Powell quando ha cominciato a giocare talmente bene da meritarsi un rinnovo attorno ai 20 milioni annui, spedendolo a Portland in cambio di un sostituto più giovane e meno costoso in Gary Trent Jr. E Powell — che non voleva andarsene e ha salutato con dispiacere i suoi compagni dopo sei anni di carriera tutti con Toronto — è stato comunque l’ottavo della rotazione di quei Raptors capaci di vincere il titolo due anni fa, nonché una delle storie di maggior successo del lavoro di sviluppo che sono stati capaci di mettere in piedi all’interno di una delle organizzazioni più serie di tutta la lega.

Con Lowry però è diverso. Perché se i Raptors sono diventati quel tipo di organizzazione è anche, se non molto, per merito suo. Perché quando è arrivato a Toronto nel lontano 2012 ci si aspettava che se ne sarebbe andato via in fretta, che non avrebbe sopportato di rimanere a lungo in una franchigia disfunzionale in un paese straniero in cui si pagano un sacco di tasse. E non è un caso che più di una volta sia stato vicinissimo a fare le valigie, anzi: l’aneddoto del suo mancato passaggio ai New York Knicks nel dicembre del 2013 (quando aveva letteralmente già pronte le valigie in salotto per partire verso la Grande Mela) è diventato parte della narrazione nella sua impronosticabile storia d’amore con i Raptors, nonché una delle più sottovalutate "sliding doors" degli ultimi 10 anni di NBA.

Se si fosse concretizzato quello scambio, saltato perché James Dolan non si fidava più dei Raptors dopo "il pacco" ricevuto con Bargnani, non ci sarebbe mai stato questo.

Se Vince Carter ha messo Toronto “sulla mappa” della NBA con i suoi voli sopra il ferro (ma poi anche lui se ne è andato in malo modo), Lowry — insieme a DeRozan, Dwane Casey in panchina e Masai Ujiri nella dirigenza — l’ha portata a essere un modello per tutte le altre franchigie. E anche se c’è voluto il titolo del 2019 insieme a Leonard per guadagnarsi definitivamente il rispetto di tutta la lega (ricordate i meme su "LeBronto"?), Lowry ci ha messo giusto una manciata di partite per meritarsi l’amore della città con il suo coraggio da giocatore di hockey prestato al basket e la sua intelligenza cestistica, ma anche cambiando e maturando come uomo (la sua irascibilità e il poco rispetto per gli altri, allenatori in primis, erano leggendari) per poter crescere insieme alla franchigia, diventandone un’icona. Non è un caso se nel 2017 i Raptors gli hanno dato un’estensione di contratto da 100 milioni di dollari probabilmente fuori scala rispetto al suo reale valore di mercato. E non è un caso che anche lo scorso giovedì la valutazione che la franchigia aveva su di lui era ben superiore rispetto a quello delle altre squadre, portandoli a non cederlo nella sorpresa di un po’ di tutta la lega.

Il prezzo irraggiungibile fissato da Ujiri

«Nella concitazione del momento, sono rimasto sorpreso dalle offerte per Lowry perché, ad essere onesti, lo vedo come un giocatore in grado di fare la differenza per qualsiasi squadra» ha detto Masai Ujiri in conferenza stampa dopo la deadline del mercato, spiegando la sua decisione. «Io l’ho visto coi miei occhi, l’ho vissuto sulla mia pelle. So quello che è in grado di fare e che tipo di uomo sia. Probabilmente ho una percezione alterata e di parte sui nostri giocatori, ma spero che mi perdonerete se l’ho valutato fin troppo. Eppure è quello in cui credo in questo momento». La sincerità di Ujiri è ammirevole in un mondo in cui spesso — come tutto lo sport professionistico, d’altra parte — dire cosa si pensa può essere usato contro di te in qualsiasi momento. «Kyle è cresciuto nella nostra organizzazione ed è diventato un simbolo di quello che vuoi in un atleta che compete ogni singolo giorno» ha continuato Ujiri. «Onestamente per il rispetto che abbiamo per lui non avremmo potuto fargli uno sgarbo [mandandolo a una destinazione non gradita, ndr], perciò le nostre opzioni erano limitate. Ma glielo dovevamo». Anche Ujiri sapeva che cedere Lowry adesso prima che se ne possa andare a zero in estate era la cosa giusta da fare secondo il "Manuale Del Bravo GM Che Massimizza Ogni Suo Asset", manuale di cui peraltro potrebbe benissimo essere l’autore. Ma al di là del romanticismo di non aver ceduto il proprio giocatore franchigia solo perché era la mossa giusta da fare, ci sono stati anche altri ragionamenti più concreti che hanno portato a quella decisione.

Ujiri ha fissato l’asticella del prezzo di Lowry a una determinata altezza e ha tenuto duro fino alla fine nel non andare sotto quel minimo indispensabile, cioè ricevere un asset che potesse far parte della ricostruzione dei Raptors attorno a Fred VanVleet, OG Anunoby e Pascal Siakam. Per questo motivo, secondo quanto riportato da varie fonti, non ha accettato le offerte di Los Angeles Lakers e Miami Heat che si erano rifiutate — per certi versi giustamente — di includere due giovani come Talen Horton-Tucker e Tyler Herro nelle loro offerte. Ma per loro Lowry era un veterano che poteva dare una grossa mano, sì, ma pur sempre un 35enne in scadenza di contratto e con alte richieste in estate (pare che cerchi un biennale da 20-25 milioni a stagione e non sia uno che faccia particolari sconti). E anche i Philadelphia 76ers, la contender che più di tutte avrebbe avuto bisogno di un tiratore dal palleggio del calibro di Lowry, alla fine ha deciso di ripiegare su un’opzione a costo più basso come George Hill per le alte richieste sia di Ujiri (soprattutto in termini di scelte al Draft, con Danny Green che sarebbe stato girato a una terza squadra) che di Lowry, nonostante da anni ormai il nativo di Philadelphia lanci segnali per un suo ritorno a casa.

Il futuro incerto di Ujiri e dei Raptors

In questo discorso si inserisce poi un’altra dinamica personale passata un po’ sotto traccia al di fuori di chi si occupa quotidianamente della franchigia, e cioè che Masai Ujiri è in scadenza di contratto e sembra ormai destinato a dire addio ai Raptors. Sin dall’inizio della stagione Ujiri rispedisce al mittente le domande sul suo futuro sostenendo che discuterà del suo contratto con la proprietà al termine della stagione, con le classiche parole di rito sul suo impegno e il suo amore per la franchigia («I Raptors sono nel mio cuore e nel mio sangue, li amerò fino alla morte. Ma andrà tutto bene. Per i Raptors andrà tutto bene»). Già da diverso tempo il suo nome viene accostato a diverse altre dirigenze — si parlava insistentemente dei New York Knicks prima che cominciasse l’era Leon Rose, mentre a Washington probabilmente farebbero carte false pur di averlo — e ogni proprietà anche con un minimo dubbio sui propri referenti delle operazioni cestistiche dovrebbero pensare di offrirgli un più che sostanzioso contratto. Stiamo parlando pur sempre di uno dei cinque migliori GM della lega: se una squadra con ambizioni di titolo (i Clippers su richiesta di Leonard? I Bucks su quella di Antetokounmpo?) dovesse fallire ancora, inevitabilmente il suo nome diventerebbe di grande attualità.

I Raptors hanno già il sostituto pronto in casa in Bobby Webster, uno dei GM più rispettati e in ascesa della lega, che è già sotto contratto a lungo termine e diventerebbe il numero 1 della dirigenza andando in continuità con quella precedente e con una transizione morbida. Forse anche per non fare un torto al suo diretto sottoposto e alla franchigia che comunque gli ha dato così tanto alla fine Ujiri non se l’è sentita di scambiare un’icona del livello di Lowry per (figurativamente) un tozzo di pane e un contratto scomodo solo per poi prendere la porta dopo qualche mese e lasciare tutti a Tampa Bay. Per quanto ci piaccia pensare alla NBA come un business senza emozioni — e in molti casi lo è —, rimane una componente personale e affettiva da dover considerare. Ujiri è l’uomo che ha portato i Raptors al titolo e per questo verrà ricordato per sempre con amore, ma aggiungere alla sua legacy il titolo di “Quello che ha scambiato sia DeMar DeRozan che Kyle Lowry” (nota a margine: i due migliori realizzatori nella storia della franchigia) forse era un po’ troppo anche per lui.

Le prospettive dei Raptors per il resto della stagione e per il futuro

Da qualunque parte la si guardi, questa stagione dei Raptors sarebbe stata persa sia con Lowry che senza. Tenerlo permette alla squadra di non “sbaraccare” completamente e di rimanere abbastanza competitiva per agganciare l’ultimo posto buono per il torneo play-in, anche se il suo recente problema al piede (anche se è tornato in campo questa notte nella sconfitta con Detroit) e il tremendo rendimento nel mese di marzo non fanno ben sperare sotto questo punto di vista.

https://twitter.com/steven_lebron/status/1376350309069565952

Quanto sono andati male i Raptors a marzo? Talmente male che Norman Powell in tre giorni coi Blazers ha vinto una partita in più rispetto a Toronto in tutto il mese.

In questa stagione, oltre ai già citati problemi di infortuni, COVID e status di perenne trasferta con cui hanno dovuto convivere, i Raptors hanno pagato enormemente una gigantesca falla nel loro roster, cioè la mancanza di stazza sotto canestro e un po’ in tutto il roster. La squadra di coach Nick Nurse è penultima in NBA a rimbalzo difensivo (solo i derelitti Timberwolves fanno peggio) e ultimissima per falli commessi, senza riuscire a difendere contro gli avversari senza mandarli perennemente in lunetta. Pur essendo sotto media a rimbalzo offensivo riescono in qualche modo a essere anche terz’ultimi nella difesa in transizione, lasciando troppi punti comodi agli avversari nei primi secondi dell’azione. Non a caso coach Nick Nurse ha scherzato — ma nemmeno troppo — dicendo che «All’inizio e alla fine dei nostri possessi difensivi siamo orribili, ma in mezzo non siamo così male».

La difesa dei Raptors era poi una di quelle abituate a concedere tanti tiri da tre agli avversari, un tipo di scommessa che aveva pagato nelle scorse stagioni anche per Milwaukee e Miami, ma che si è ritorta contro a tutte queste squadre in questa stagione in cui la mancanza di pubblico (e un generale miglioramento dei tiratori in tutta la lega) hanno fatto impennare le percentuali dall’arco fino al massimo nella storia della NBA. Scommettere sulle percentuali avversarie ora come ora non paga, e i Raptors non riescono neanche a compensare concedendo meno tiri al ferro agli avversari, visto che li subiscono con oltre il 65% (ottavo peggior dato della lega, complice la suddetta mancanza di stazza).

Toronto già negli ultimi anni doveva trovare modi sempre più fantasiosi per sopperire alla loro generale mancanza di talento puro, e la transizione verso la squadra di VanVleet-Anunoby-Siakam (tutti e tre alle prese con il COVID nell’ultimo mese, e Siakam anche con un pesante diverbio nei confronti di coach Nurse) non è andata come sperato, almeno fino ad ora. I Raptors sono mediocri da qualunque parte li si guardi: hanno anche la giusta selezione di tiro (sono terzi per tiri da tre e penultimi per quelli dalla media distanza, giusto per dare un esempio), ma fanno enorme fatica a segnarli con percentuali efficienti, tirando -1.7% in meno rispetto a quello che dovrebbero rispetto alla tipologia di tiri che si prendono.

Per questo non si poteva cedere Lowry senza avere un’iniezione di talento in prospettiva che potesse giustificarne il sacrificio. È possibile comunque che avere i Bird Rights di Lowry possa tornare utile in estate per poter imbastire una sign & trade che soddisfi tutte le parti coinvolte: il giocatore con il contratto da 20-25 milioni che cerca, i Raptors con un pacchetto migliore rispetto a quelli offerti alla deadline e la prossima squadra di Lowry che senza spazio salariale non potrebbe permettersi un giocatore del suo calibro per giocarsi il titolo. D’altronde solo Miami, Dallas e New York tra le squadre da playoff potrebbero avere abbastanza spazio per firmarlo senza l’aiuto dei Raptors, e non è detto che nessuna delle tre lo faccia o che un’altra squadra più “disperata” non possa inserirsi. Cosa potrebbe succedere se, per esempio, i Philadelphia 76ers dovessero fallire l’assalto al titolo e si vedessero messi sotto pressione da Joel Embiid e Ben Simmons per fare una mossa per vincere subito? Ecco allora che il discorso per Lowry potrebbe riaprirsi, magari anche a condizioni più vantaggiose rispetto alla deadline appena passata.

«Vogliamo continuare a costruire sul nucleo di questa squadra» ha detto Ujiri, facendo intendere comunque che c’è un periodo di ricostruzione in arrivo (con o senza di lui). «Abbiamo la nostra prima scelta al Draft che non sappiamo dove finirà. Dobbiamo mantenerci aperta ogni opzione. La nostra idea iniziale era di giocarci questa stagione dando tutto quello che avevamo, perché penso che i nostri ragazzi se lo meritino. Non è andata bene per noi e dobbiamo andare in un’altra direzione. L’organizzazione intera se lo merita. E poi avremo flessibilità in estate. Ci sono tanti modi differenti per migliorare». Nello scegliere di non scambiare Lowry i Raptors hanno rimandato la decisione più dura, ma non è detto che abbiano preso quella sbagliata.

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