Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.
Quattro anni fa Kylian Mbappé si era abbattuto sull’Argentina come un diluvio biblico. È difficile descrivere l’impressione di quella prestazione individuale sul nostro immaginario. Era dai tempi di Ronaldo il Fenomeno che non si vedeva quel tipo di potenza sprigionata in campo aperto. Era come guardare la Formula 1; era come guardare un grande predatore a caccia; era come guardare un essere vivente trasformarsi in energia pura, un proiettile levigato lanciato fra i corpi avversari, un fuoco.
Non era ancora il miglior giocatore al mondo. Per qualcuno era costato troppo, gioiello più prezioso della corona qatariota. Bene di lusso comprato a scopi propagandistici. Forse all’inizio del tramonto dell’epoca Messi/Ronaldo noi, da parte nostra, cercavamo un erede all’altezza del nostro desiderio di grandezza. Ma lo era davvero? In Mbappé avevamo visto la precocità, la differenza genetica che marchia i grandi talenti generazionali. Giocava in Francia, però, e il suo tempo non sembrava ancora arrivato.
Poi c’era stata quell’azione. Mbappé raccoglie palla sulla propria trequarti. L’Argentina è sbilanciata, ma davanti ha comunque quattro avversari. Mbappé però va dritto: la lunghezza del campo che ha di fronte per altri sarebbe un problema, per lui è un moltiplicatore di possibilità. Parte in corsa e in ogni centimetro sembra andare più veloce. Gli bastano pochi passi per superare i primi due avversari. Non li deve nemmeno dribblare, la velocità con cui attraversa il campo smaterializza i difensori, li rende impotenti. Arrivato al cerchio di centrocampo ne ha due davanti a sé. Mascherano dietro prova a rimontarlo, ma non riesce nemmeno ad avvicinarsi, nemmeno la possibilità di fare fallo. Marcos Rojo è davanti a lui, Mbappé devia la sua corsa verso destra, si lancia la palla in avanti, e sprinta ancora, col petto in fuori, con la tecnica solenne del centometrista. Rojo quasi non riesce a fare fallo, gli dà una strattonata che lo sbilancia e lo fa cadere. Mbappé andava così veloce che il suo corpo scivola sul prato verso il fondo come una macchina che continua la sua corsa dopo essere deragliata fuori strada.
C’è un senso d’urgenza nel modo in cui Mbappé gioca quella partita, quel mondiale, espresso da questa azione in cui si è rovesciato nella metà campo argentina con una corsa impazzita. Il calcio è uno sport lento, fatto di attese, momenti interlocutori, che ci ricorda sempre la relatività del tempo - che può stringersi o allargarsi smisuratamente. Mbappé, nel 2018, sembrava volersi ribellare a questi tempi lenti del calcio, prenderlo in mano e stritolarlo. Trasformarlo in uno sport furioso, adrenalinico, giocato alla massima velocità. L’unica possibile per la sua età, per uno stile di gioco che sembra la diretta conseguenza di un’energia in eccesso. Portare il calcio a una velocità che può abitare solo lui.
Era stato il miglior giovane del Mondiale, il primo teenager a segnare in una finale dai tempi di Pelè, sembrava poterci riuscire, a piegare il calcio alla sua fretta. Essere il miglior giocatore al mondo subito: dimostrarlo in ogni azione. In ogni azione: prendere palla, saltare tutti, tirare oltre il portiere. Cresciuto nel mito di Cristiano Ronaldo, ha coltivato il mito dell’onnipotenza individuale. Di un giocatore che può ridurre uno sport di squadra in un’esibizione individuale. Di un uomo che può attirare tutte le luci dei riflettori, e veder accrescere mostruosamente il proprio potere sotto queste luci.
La presa del potere, per Mbappé, non è però andata proprio secondo i piani. Il calcio ha i suoi tempi, la sua etichetta. Non c’è niente di facile, i giudizi cambiano in fretta. Gli ultimi gradini per ascendere all’élite dello sport sono sempre quelli più alti. I quattro anni di Mbappé che sono trascorsi da quella partita non sono facili da decifrare.
Ha segnato 169 gol con la maglia del PSG, vinto diversi campionati ma nessuna Champions League, nessun Pallone d’Oro. Ancora non è quindi stato incoronato, ufficialmente, come il miglior giocatore al mondo. Di fronte a questo, il contratto più ricco della storia del calcio gli ha gettato addosso una strana ombra. Non è andato al Real Madrid, preferendo una convivenza difficile con Neymar e Messi. Si odiano, o si ignorano quando va bene. Sembrano appartenere a mondi troppo diversi per parlarsi, o anche solo per passarsi il pallone.
L’anima nera del PSG sembra averli risucchiati. Una versione distopica e decadente dei Galacticos: una collezione di grandi calciatori degradati a grandi ego. Uomini che giocano solo per sé stessi, in un’epoca del calcio alla fine della storia. Mercenari del selvaggio west, che non credono più a niente. A Mbappé questa atmosfera sembra essersi appiccicata addosso, più che a Messi o a Neymar. Rispetto a loro non è un giocatore a fine carriera, non ha scritto la propria storia altrove, non si sta solo facendo usare dal Qatar. Sembra in un certo senso averne sposato la causa. È l’immagine del club più di ogni altra cosa, anche perché il suo nuovo contratto gli dà un potere quasi presidenziale, che mal si addice alla purezza che desideriamo per i grandi sportivi. Al PSG Mbappé si è costruito un’immagine da cattivo. Un giocatore dal talento sproporzionato ma distante, gestito in modo manageriale, così freddo da rifiutare l’epica. Forse è stato il primo grande campione a intuire che il miglior calciatore al mondo non ha solo successo economico ma anche potere politico. Da fuori rimane difficile capire cosa voglia Kylian Mbappé per sé stesso, non capiamo perché sia ancora al PSG, se non per i soldi, o per qualche oscura macchinazione che ci sfugge.
Al PSG, nelle notti di Champions League, è stato spesso l’ultimo ad arrendersi, ma infine si è arreso. La grandezza, il blasone, non si comprano: la Champions pare essere l’ultima frontiera non conquistata dai soldi degli sceicchi. Mbappé si è fermato su quella soglia insieme a tutto il PSG. Allora la conquista al trono deve passare per forza dalla Nazionale.
Un anno e mezzo fa è incappato in un Europeo negativo che gli ha guastato i piani. Ha sbagliato gol facili e rigori decisivi, nella catastrofica eliminazione della Francia con la Svizzera. Questo Mondiale in Qatar doveva essere il suo, e l’ha affrontato col desiderio di riprendersi tutto. Ha segnato un gol all’Australia, due alla Danimarca, due alla Polonia. Anche quando non ha segnato ha continuato a sprigionare un’aura oscura. Un suo singolo gesto, una sua singola espressione di volontà, poteva incenerire il campo. Gli avversari lo sapevano, gli costruivano attorno gabbie durissime. La sua gravità nera sulle partite apriva vantaggi a cascata per i compagni. Il fatto che la scivolata di Amrabat sui suoi piedi sia diventato un gesto iconico di questi Mondiali racconta la sua superiorità: l’estrema opposizione degli esseri umani all’avanzata inesorabile della forza disumana. Una vittoria momentanea, vacua, perché l’avanzata di Mbappé è, appunto, inesorabile.
In Qatar Mbappé è diventato la punta acuminata di una Francia mefistofelica, che pian piano ha preso la sua forma. Una squadra che sembra scendere in campo per dovere, per poi vincere per inerzia. Per la legge inappellabile della propria superiorità, ribadita solo dopo che è stata dimostrata tutta l’impotenza altrui. Le squadre avversarie sembrano dover scalare salite ripidissime, per poi ripiombare al suolo dopo un’intuizione di Griezmann, un tiro sporco di Giroud, uno strappo improvviso di Mbappé. Una squadra che come il diavolo prolifera nei dettagli.
Eppure questa magia nera non sembrava essere riuscita, domenica pomeriggio, quando a dieci minuti dalla fine dei Mondiali l’Argentina era in vantaggio 2-0, padrona del campo. La presenza minima della Francia, in quel momento, non sembrava poter bastare. L’Argentina era scesa in campo col desiderio e l’ambizione di vincere non con l’astuzia, non col calcolo, ma giocando meglio dell’avversario: palleggiandogli in faccia.
Per Mbappé cosa avrebbe significato, quella finale, persa 2-0 senza battere colpo? Certo, aveva giocato un Mondiale fenomenale, ma la scena infine se l’era presa ancora Leo Messi. La finale li aveva messi di fronte: il campione di un presente che sa di passato e il campione di un presente che sa di futuro. Una sceneggiatura persino grossolana. Messi, fino a dieci minuti dalla fine, si era preso tutto: la partita della sua incoronazione regale. Aveva segnato il rigore dell’1-0 e dopodiché aveva assicurato il risultato da grande narratore onnisciente del gioco del calcio. Ogni suo smarcamento, ogni suo passaggio, era la manifestazione più superficiale di una specie di Grande Piano che esisteva solo nella sua testa, e che si sarebbe rivelato a noi più avanti. Sul secondo gol, per esempio, quel tocco d’esterno, spalle alla porta: il gesto tecnico più prezioso di un’azione maestosa.
Dov’era Mbappé, in tutto questo? Tutto questo Messi lo aveva fatto per lui, per l’Argentina, per la Coppa del Mondo, ma in un certo senso - perverso, mi rendo conto - anche contro Mbappé.
Dieci minuti prima, intorno al ’70, Mbappé aveva mancato un suo momento. Si era accentrato da sinistra verso il centro e, circondato come sempre da diversi corpi, aveva vinto un rimpallo. Era stato il caso, ad aggiustargli la palla sul destro, appena dentro l’area di rigore. Non un tiro semplice, ma un tiro che Mbappé poteva segnare. Un tiro però finito alto: non sembrava la sua giornata.
Poi succede la catastrofe, l’evento che inghiotte tutto quello che è successo prima, costruendo un mondo nuovo. Otamendi non rinvia, Kolo Muani gli ruba palla, aspetta di subire fallo. Mbappé, dal dischetto, segna l’1-2; calcia incrociando il tiro forte, abbastanza forte da battere anche Martinez che intuisce l’angolo. A quel punto l’aria vibra di una tensione pazza. La paura di perdere tutto, per l’Argentina, è così forte che diventa una profezia auto-avverante. Eppure resta crudele che a perdere il pallone sia proprio Lionel Messi, mentre lo porta in orizzontale. Un pallone che nessuno in quel Mondiale, fino a quel momento, era riuscito a togliergli. Visto che abbiamo la sensazione di trovarci dentro una partita sceneggiata, sappiamo che in quel momento può arrivare il gol della Francia, e quindi che è quello il momento di Mbappé.
Si dice che nella giungla si sparga uno strano silenzio poco prima dell’attacco di una tigre. Perché se una tigre non vuole farsi sentire e vedere, allora non ci sarà modo di sentirla e di vederla. Kylian Mbappé se n’è stato acquattato paziente in mezzo ai difensori argentini, in attesa che per un singolo momento gli avversari abbassassero la guardia. È un giocatore che si ciba delle paure altrui, che prolifera nel terrore. Non è più il diciannovenne che corre per il campo come una macchina da rally impazzita; come Cristiano Ronaldo ha imparato a coltivare i suoi momenti nelle attese.
Rabiot alza una brutta palla per Mbappé, che la appoggia a Thuram e scatta dietro Otamendi. Thuram gliela restituisce, e Mbappé non la controlla, non se la porta avanti, non temporeggia per un tempo più propizio. Si piega verso il suolo, colpisce il pallone a mezza altezza con il collo esterno del piede. Il tiro è forte, radente, ed entra per il 2-2. Parliamo della potenza, della velocità, della tecnica di Mbappé, ma dovremmo parlare più spesso dell’intensità mentale con cui gioca le sue partite, e che gli permette di essere presente nell’unica finestra che un contesto contrario come quello della finale gli ha concesso.
Non è la prima volta che Mbappé scappa via alle spalle di Otamendi. Era successo anche in una delle prime occasioni in cui si rivelò al mondo, nella sfida tra Monaco e Manchester City del 2017.
A 23 anni, con già una Coppa del Mondo in bacheca, avrebbe potuto anche accettare una partita anonima, interlocutoria, concedere l’uscita gloriosa a Messi. Il giorno dopo avrebbe compiuto 24 anni, e il calcio sarebbe stato suo. Mbappé, però, non vuole aspettare, vuole prendersi tutto, in ogni partita, in ogni azione, in ogni tiro.
Per i francesi Mbappé era la cosa più vicina all’idea di eroe nazionale; da imparziali è impossibile non ammirarne la grandezza. Eppure, in quel momento, Mbappé assume la parte del cattivo, e sembra starci benissimo. Di Maria scoppia in lacrime sulla panchina dell’Argentina, e tutto quello fatto da Messi, anche solo per un attimo, sembra vano. I due vecchi sacerdoti della tecnica, il cui Mondiale è un imponente e sofisticato monumento barocco, battuti da questa specie di cyborg, da questo scherzo evolutivo, che non pare fare il minimo sforzo a compiere l’impossibile. Messi contro Mbappé è la tecnica contro la forza, la vecchiaia contro la gioventù, l’uomo contro la macchina. Sono riduzioni comode per i nostri schemi morali, ma durante la partita sono schemi che ci sembrano veri.
Il modo in cui i supplementari si sono incastrati sulla narrativa Messi vs Mbappé ha qualcosa di eccessivo. Messi che segna il 3-2 con una zampata di destro, il suo piede debole; Mbappé che poi raccoglie un pallone anonimo, calcia e la palla viene respinta dal braccio di Montiel. Segna il rigore del 3-3, eguaglia il record di gol di Pelè nei Mondiali. Di Maria piange ancora. Non esistono precedenti nel calcio di una cosa simile: i due migliori giocatori che nella finale del trofeo più prestigioso si rispondono colpo su colpo. Sembra una sceneggiatura scritta (ma è meglio non pensarci, altrimenti verrebbe da pensare che sia stata scritta dal Qatar, che ha trasformato la finale in una resa dei conti fra i due suoi campioni del PSG).
Mbappé sembra provare gusto a scarabocchiare la tela disegnata da Messi. Il suo profilo assume le tinte del Dio distruttore che era stato, per esempio, Novak Djokovic a Wimbledon 2019. In quell’occasione il serbo aveva rifiutato la sconfitta in modo diabolico e spettacolare. Aveva rifiutato di prestarsi alla cerimonia d’onore di uno degli sportivi più amati di sempre, Roger Federer. Sembrava aver tratto un’energia supplementare all’idea di poter guastare la festa, di stare dalla parte del torto.
C’è un’immagine che circola di Mbappé che esulta con sguardo truce. Probabilmente sta guardando in direzione della panchina francese, ma dalla prospettiva sembra stia proprio esultando in faccia a Messi. Cosa passa nella testa di quei giocatori, in quei momenti? Dopo aver segnato il gol del 3-3, Mbappé avrà pensato anche a Messi?
Nei tempi supplementari Mbappé sparge attorno a sé terrore. Lo raddoppiano, lo triplicano, lo trattano come un serpente che va maneggiato con cura. Basta un piccolo errore per avere in cambio un morso letale. Oltre l’ultimo minuto dalla fine della partita, al quarto minuto di un recupero che doveva averne tre, Mbappé riceve palla sull’esterno. Sono passati 124 minuti dall’inizio della finale, e Mbappé trova chissà dove la forza per fintare, sterzare, fintare, sterzare. Saltare il primo uomo, saltare il secondo, entrare in area di rigore con la palla sul proprio destro. In quel momento abbiamo visualizzato quell’immagine: Mbappé che dopo quell’azione ipnotica calcia in porta il gol del 4-3, il suo quarto personale in una finale di coppa del mondo. Un gol iconico come quello di Maradona 86, come quello di Pelè 70. Sarebbe stata una delle più incredibili, violente, brutali dimostrazioni di forza di un essere umano su un campo da calcio. La palla però gli viene sporcata, e poi rinviata da Dybala con l’urgenza di uno che sta buttando via una bomba.
Il gol avrebbe dimostrato un assunto comunque valido: che Mbappé a tratti sembra non aver bisogno di nessuno, per vincere le partite. Tutte le partite, persino una finale di coppa del mondo.
È stato soprattutto lui a permettere lo spettacolo incredibile a cui abbiamo assistito durante la finale. Il suo talento, la sua forza di volontà, a riaprire una partita chiusa, a far sperare una Nazione intera e a gettarne un’altra nella disperazione. È curioso che in un’epoca di dissacrazione del calcio per nazionali, in cui la Champions League è sembrata produrre storie e spettacolo in modo più potente, Mbappé stia scrivendo la propria storia soprattutto attraverso i campionati del mondo. Mentre trasformava il Mondiale in Qatar nella sua personale campagna militare, il suo rivale per il trono del calcio, Erling Haaland era a casa, non qualificato. Non abbiamo nemmeno la certezza riuscirà a partecipare, prima o poi, a un Mondiale.
Ora, cosa succederà nei prossimi quattro anni? Mbappé è atteso da grandi decisioni.
A fine partita viene a lungo consolato da Emmanuel Macron, con un’attenzione speciale. Esce dal campo sfilando col premio della Scarpa d’oro in mano accanto alla coppa. Come Zidane, unico vincitore tra gli sconfitti. In questo paradosso la sua mostruosa forza individuale, la sua capacità di piegare la realtà che diventa più tangibile nei grandi eventi. Mentre andava via, già lo vedevamo tornare più forte. Mentre celebravamo Messi, issato in trionfo in mezzo alla folla, stavamo salutando un’epoca al tramonto, sapevamo che quella di Kylian Mbappé era già iniziata.