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Kyrie Irving è più complicato di così
22 gen 2021
Cercare di dare un senso alla sua assenza di due settimane dai campi di gioco.
(articolo)
13 min
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Se seguite anche solo distrattamente la pallacanestro NBA, è molto probabile che vi siate già fatti un’idea su Kyrie Irving. E con ogni probabilità, se mettete per un attimo da parte il suo assurdo talento nel mettere il pallone dentro al canestro, non avrete di lui un’immagine positiva. Nel corso degli ultimi anni Kyrie Irving è diventato più un meme che un atleta professionista: da quando il suo nome ha sfondato i confini della pallacanestro per diventare “quel giocatore di basket convinto che la Terra sia piatta”, la sua immagine pubblica è crollata sempre più a picco.

E questo nonostante fosse uno di quei giovani che la NBA mette in copertina per spingerlo il più possibile come nuovo volto della lega. Prima del ritorno di LeBron James a Cleveland, Irving aveva avuto un triennio d’esordio in NBA semplicemente scintillante: prima scelta assoluta al Draft, Rookie dell’Anno, MVP dell’All-Star Game, la nomea di giocatore clutch e anche una serie di spot televisivi — quelli di “Uncle Drew” — di pregevole fattura. Il canestro da tre realizzato in gara-7 delle Finals del 2016 rimane poi uno dei momenti più memorabili del decennio passato, il singolo tiro più importante per la vittoria di un titolo nella storia della NBA, ma rappresenta anche uno spartiacque nella sua narrazione: è stato il picco della sua carriera finora e il momento in cui tutto è cambiato.

Da quel tiro in poi Irving — che al tempo aveva appena 24 anni e aveva già vinto tutto, anche con la Nazionale americana da MVP dei Mondiali del 2014 — ha cominciato ad aprirsi e a mostrare cosa c’era dietro alla maschera da giovane prodigio e “Uncle Drew” che si era costruito. Solo che al grande pubblico non è necessariamente piaciuto quello che ha visto: sono arrivate le parole da terrapiattista, i primi commenti incomprensibili, la richiesta di scambio dai Cavs (cioè lontano da LeBron James) con la minaccia di saltare un intero anno se non fosse stato accontentato, gli anni di Boston in cui ha provato a essere un leader senza sapere come fare e/o che gli altri nello spogliatoio lo riconoscessero come tale, infine la creazione di un nuovo superteam a Brooklyn, seppur rimandato di un anno visto l’infortunio di Kevin Durant.

Anche mentre è stato fuori nella scorsa stagione è stato accusato più o meno di tutto, a partire dal licenziamento di coach Kenny Atkinson che gli è stato quasi totalmente imputato. E mentre il resto della NBA si preparava a fare le valigie per andare a Disney World e chiudere la stagione nella bolla, lui — forte del ruolo ufficiale di vicepresidente dell’associazione giocatori, ruolo che aveva chiesto di ricoprire un po’ a sorpresa — era il volto principale della fazione che non voleva tornare in campo, anche se lui personalmente non aveva detto niente in pubblico e tutto quello che si diceva di lui era stato riportato da terzi.

È anche per questo motivo, probabilmente, che Kyrie Irving ha cominciato questa stagione con il dichiarato intento di non parlare più con la stampa, ma di esprimersi solo attraverso la sua publicist e le sue prestazioni in campo. “Mi impegno a presentarmi ogni giorno per lavorare, pronto a divertirmi, competere, performare e vincere dei titoli insieme ai miei compagni e colleghi nell’organizzazione dei Nets” aveva scritto in un comunicato spedito ai beat writer della squadra dopo che per una settimana non aveva parlato con loro. “Il mio obiettivo in questa stagione è lasciare che a parlare sia il mio lavoro dentro e fuori dal campo. La vita ci ha colpiti in maniera diversa quest’anno e richiede a noi, e a me, di muoverci in maniera differente. Perciò questo è l’inizio di quel cambiamento”.

Una controversia dietro l’altra

Quelle parole non sono piaciute poco solamente ai giornalisti, che giustamente rivendicavano il diritto e il dovere di porre delle domande e non solo di fungere da cassa di risonanza dei suoi “dispacci”, ma anche della NBA, che ha punito sia lui che i Nets con 50.000 dollari di multa. Una decisione che Irving ha commentato con una storia su Instagram diventata quasi uno spin-off a se stante, nella quale definiva i giornalisti come “pedoni” che non meritavano la sua attenzione.

Irving era solito commentare di tutto sul suo account Instagram (d’altronde era lì che si informava sulle più strampalate teorie del complotto, Terra piatta compresa), ma dopo questa storia ha smesso di essere particolarmente attivo.

Poi è stato riportato a più miti consigli e davanti alla stampa si è presentato con la versione più paracula possibile, riempiendo i giornalisti di complimenti per le loro domande e rispondendo in maniera affabile come nulla fosse successo. I media erano finiti sul suo personalissimo taccuino dei cattivi per il modo in cui avevano interpretato alcune sue parole prima dell’inizio della stagione. In un podcast di Kevin Durant, Irving aveva detto «Ho sempre avuto la sensazione di essere la miglior opzione in tutte le squadre nelle quali ho giocato fino a oggi, ma questa è la prima volta nella mia carriera in cui se mi guardo intorno sono portato a pensare: “Anche questi figli di p*****a al mio fianco possono segnare”». Parole che tutti hanno immediatamente collegato a LeBron James, il quale dal canto suo non ha fatto niente per negare di esserci «rimasto male» per quanto detto dal suo ex compagno.

Irving ha poi creato un altro piccolo problema al suo attuale coach Steve Nash, minandone l’autorità dicendo che «non vedo un vero e proprio capo-allenatore nella nostra squadra: KD potrebbe essere il capo-allenatore, così come altri giorni potrei esserlo io. Sarà uno sforzo collaborativo». I due hanno poi discusso in una diretta Instagram di quanti possessi in post basso si sarebbero spartiti, con Irving che ha sparato una cifra totalmente senza senso come otto di media a partita. Parole che prese singolarmente non hanno chissà quale importanza, ma che messe assieme a quelle del suo passato non hanno certamente aiutato a migliorare la percezione attorno a sé.

Se non altro in campo ha ricominciato subito con le marce altissime. Sin dalla pre-season - al netto del curioso rituale “incensando” l’arena prima della partita che ha fatto alzare al cielo più di un paio di occhi - Irving è sembrato in condizioni fisiche scintillanti. Nella prima settimana di regular season — complice anche il sensazionale ritorno dall’infortunio di Durant — ha mostrato la parte migliore del suo repertorio, pur con qualche inevitabile incidente di percorso come il finale di gara contro Washington. Già due giorni dopo però il numero 11 di Brooklyn ha giocato una partita eccezionale contro gli Utah Jazz, distruggendoli praticamente da solo (con KD fermato per una settimana di quarantena) con 29 punti e un canestro più bello dell’altro.

9 su 9 per cominciare la partita. Tra i tanti dettagli straordinari del suo gioco, la capacità di estendere il gomito e l’avambraccio dando forza al pallone indipendentemente da dove si trovi o in quale situazione di (dis)equilibrio sia è quella che lo rende davvero speciale.

Dopo quella apparizione però i Brooklyn Nets non hanno più visto Kyrie nelle successive due settimane, nelle quali Irving non si è più presentato agli eventi della squadra.

Gone Kyrie

Non è ancora chiaro se sia una coincidenza oppure no, ma dopo gli eventi del 6 gennaio a Washington — con l’assalto dei sostenitori di Donald Trump al Congresso statunitense — Kyrie Irving ha fatto perdere le sue tracce. La sua assenza dalle partite è stata giustificata con un generico “motivi personali” e lo stesso Steve Nash, quando gli è stato chiesto se sapesse dove fosse o se sapesse il motivo della sua decisione, ha ammesso di non essere stato avvisato e che sarebbe stato Irving a parlarne quando se la sarebbe sentita.

Il numero 11 dei Nets ha saltato il back-to-back contro Philadelphia (vittoria) e Memphis (sconfitta), poi la sua assenza si è prolungata alla gara contro OKC (persa malamente), e infine ha saltato un altro back-to-back contro Denver e New York (due vittorie per Brooklyn). Nel frattempo tra la partita contro i Thunder e quella contro Denver è successo di tutto: alcuni media hanno cominciato a far circolare le voci più disparate, da chi prospettava un suo possibile ritiro a chi, come Joe Vardon di The Athletic, riportava che una dozzina di suoi ex compagni e colleghi erano seriamente preoccupati per la sua salute fisica e mentale.

Se la sua assenza si fosse limitata a quello, cioè a una pausa legata a problemi personali o di reazione a quanto accaduto a Washington — è sempre bene ricordare che Irving non avrebbe voluto giocare nella bolla per non distogliere l’attenzione sul movimento Black Lives Matter —, nessuno avrebbe davvero avuto niente da rimproverargli. Se Irving anche solo con una storia su Instagram avesse detto “Ho bisogno di tempo, vi chiedo di rispettare la mia privacy, tornerò a giocare presto” si sarebbe risparmiato un bel po’ di quello che si è detto su di lui.

Ma è passato immediatamente dalla parte del torto quando sono emersi i video di lui che festeggiava il compleanno della sorella Asia in un party in cui dozzine di persone sono senza mascherine — in chiara violazione di qualsiasi ragionevolezza sociale, del protocollo NBA e, forse ancor più importante, uno schiaffo in faccia ai suoi compagni di squadra che erano in campo a cercare di vincere le partite mentre lui si era preso giorni lontano dalla squadra per poter festeggiare la sorella. Anche una partecipazione silente a un evento su Zoom della candidata al ruolo di procuratrice distrettuale Tahanie Aboushi mezz’ora prima della palla a due dei Nets contro i Nuggets ha creato un piccolo caso, mentre la NBA analizzava le immagini della festa per decidere la sua punizione. Alcuni ipotizzavano anche che i Nets potessero pensare di cancellare il suo contratto, tanto la situazione si era fatta insostenibile.

Alla fine Irving se l’è cavata con un breve isolamento, una multa e due partite di sospensione senza stipendio, che unite alle sanzioni già ricevute per non aver parlato coi giornalisti hanno portato il totale dei soldi lasciati per strada vicino al milione di dollari dopo neanche un mese di regular season. Lo scambio per James Harden ha aiutato a distogliere l’attenzione su quanto stesse succedendo attorno a lui, anche se una parte delle analisi si è comunque concentrata sul fatto che l’incertezza sulla sua posizione (in quel momento non si era nemmeno sicuri che sarebbe effettivamente tornato a giocare a pallacanestro) avesse accelerato la decisione dei Nets, mettendosi al riparo da ogni possibile brutta sorpresa con un altro All-Star al fianco di Kevin Durant.

Il General Manager dei Nets Sean Marks ha negato che la situazione di Irving abbia in qualche modo influito sulla decisione di prendere Harden, ma non avrebbe neanche potuto dire niente di diverso. Allo stesso modo ha evitato di commentare approfonditamente quanto fatto dalla sua stella, dicendo solo che «senza dubbio l’organizzazione è delusa di non aver avuto uno dei nostri giocatori in trincea insieme a noi» e che sarebbe stato Irving stesso a tempo debito a parlarne. Dopo due settimane piene di assenza, quel momento è poi arrivato martedì, alla vigilia del suo ritorno in campo contro i Cleveland Cavaliers.

Mental break

Il discorso attorno alla salute mentale degli atleti professionisti è cresciuto negli ultimi anni, tanto da non rendere più uno stigma quello di parlarne apertamente. Quando si è presentato davanti alla stampa, Irving ha evitato di rispondere alle domande sul suo stato mentale, annuendo e basta quando gli è stato chiesto se stesse bene. Non ha parlato specificatamente del motivo che lo ha portato a «prendersi una pausa», come ha detto lui stesso, ma solo che «avevo delle questioni familiari da risolvere» e che si prendeva «piena responsabilità per la mia assenza, scusandomi anche con i tifosi».

Quando gli è stato chiesto se fosse contento di essere tornato, la sua faccia nel dire «sono molto eccitato» è stata questa, e non ha mai abbandonato le braccia conserte per tutta la conferenza.

Nonostante la sua ritrosia a parlare, con l’andare delle domande Irving si è un po’ aperto e ha fatto capire — seppur velatamente — che la sua salute mentale nelle ultime due settimane non gli permetteva di scendere in campo. «Tante persone da fuori credono di sapere cosa penso, ma non mi conoscono per niente. Quando le questioni della vita diventano soverchianti bisogna fare un passo indietro e capire cosa è importante. Amo giocare, questo non è mai stato in discussione. Il mio obiettivo e il mio impegno è sempre quello di portare qualcosa di speciale a Brooklyn, ma non parlo solo di un titolo: parlo di unità, di uguaglianza, di qualcosa di più grande della pallacanestro».

Non siamo necessariamente abituati a sentir parlare un giocatore con questo tono, ed è uno dei motivi per cui Kyrie Irving è così difficile da comprendere. Lui stesso ha ammesso che spesso non è facile da capire quando parla, perché sembra sempre girare attorno a un concetto senza mai esprimerlo per davvero, nonostante i suoi tentativi di essere onesto. Questo è forse il suo più grande problema: Irving ha anche dei contenuti profondi e molto interessanti da condividere, ma non è in grado di spiegarsi come vorrebbe o come potrebbe — anche perché gli sfugge quanto sia importante raccontare se stessi per evitare che siano gli altri a parlare di lui senza considerare il suo punto di vista, come successo nelle due settimane della sua assenza non giustificata. Quanto sarebbero state diverse le cose se solo avesse detto: “Lasciatemi stare per un po’?”.

A differenza di molti altri, Irving ha nel suo recente passato una lunghissima serie di iniziative sociali in cui ha investito tempo e risorse decisamente notevoli, probabilmente superiori al 90% dei suoi colleghi NBA. Ma a differenza loro non gli interessa e/o non è in grado di raccontarne: negli ultimi giorni Stephen Jackson, forse per dargli una mano con la sua immagine pubblica un po’ incrinata, ha rivelato che Irving ha comprato una casa per la famiglia di George Floyd, ma quando gli è stato chiesto di parlarne lui ha detto solamente di «aver fatto la mia parte».

https://twitter.com/SportsCenter/status/1351600213753032705

Queste sono solo alcune delle iniziative di Irving nell’ultimo anno: ne eravate a conoscenza?

Quello che si è ormai capito sia dalle sue azioni che dalle sue parole è che la pallacanestro non è il suo unico interesse, e probabilmente non è neanche più il principale. «Mentirei se dicessi che non sento sulla mia pelle quello che succede nel mondo o che non gli dia importanza» ha detto in conferenza stampa. «Sento una responsabilità enorme nel continuare a servire la mia comunità e i più sfortunati. Ci sono ancora troppe persone oppresse là fuori. Vorrei poter vedere un cambiamento quotidianamente, ci sono tante cose più importanti di un pallone che entra in un anello».

«Per me la cosa più importante è trovare un equilibrio: non c’è niente di normale nella vita che vivo» ha detto Irving verso la fine della conference call. «È qualcosa che ho dovuto accettare e abbracciare, provando a sfruttarla a mio vantaggio per portare il cambiamento che vorrei vedere nel mondo. Ma devo essere onesto nel riconoscere che richiede una quantità enorme di energia. Ho chiesto aiuto, e ora tante persone attorno a me, persone che sono più adatte alla posizione che devono ricoprire, per aiutarmi a togliere certi pesi dalle mie spalle. Io posso solo continuare a ricoprire il mio ruolo in questa grande squadra del cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, e so di non essere solo in tutto questo».

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Un post condiviso da Kyrie (Kaire) (@kyrieirving)

Dopo aver parlato coi media ha condiviso questo messaggio: “Sono umano. Niente di diverso da te. Sto guarendo”.

Come scritto da Tom Ziller in una delle sue ultime newsletter, «è strano applaudire gli atleti quando riescono a separare ciò che succede fuori dal campo da come riescono a performare dentro, ma poi criticarli quando uno come Kyrie si prende del tempo per prendersi cura di situazioni familiari o di se stesso». Al di là di tutto, Irving rimane un ragazzo afro-americano di neanche 30 anni con un talento straordinario nel fare canestro, le risorse economiche per portare un cambiamento e mille altri casini da sistemare nella sua vita, errori recenti compresi: il fatto che debba affrontare tutto questo in pubblico è solo una difficoltà ulteriore in un momento già complicato di suo e due settimane sono il minimo che possiamo concedergli.

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