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Il problema di Kyrie Irving con la leadership
25 gen 2019
Perché il playmaker dei Boston Celtics continua ad attaccare i suoi compagni?
(articolo)
11 min
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È da tutta la stagione che i Boston Celtics non ce la raccontano giusta. L’unica costante dei biancoverdi in questa annata è stata l’incostanza: in una partita sembrano la squadra più forte della Eastern Conference; in un’altra perdono in casa contro New York o Phoenix. In una il loro attacco sembra inarrestabile; in un’altra sembra che non abbiano mai giocato insieme prima di quel momento. E non appena sembra che abbiano svoltato la stagione inanellando una serie di vittorie consecutive, ecco arrivare tre sconfitte in fila che rimettono tutto in discussione, seguite poi da quattro successi in fila.

L’ultima partita persa di quest’ultimo periodo ha portato Kyrie Irving per l’ennesima volta all’esasperazione, senza riuscire a trattenersi davanti ai media come già gli era capitato più volte nel corso dell’anno. Dopo la pessima gestione del finale di gara contro gli Orlando Magic - in cui Gordon Hayward, invece di eseguire lo schema disegnato, ha passato il pallone a Jayson Tatum che poi ha sbagliato -, il numero 11 dei Celtics ha attaccato direttamente i suoi compagni senza cercare tanti giri di parole: «Ci manca esperienza e abbiamo ancora tanto da imparare. So per certo che siamo meglio di tante altre squadre, ma dobbiamo dimostrarlo ogni singola sera. Fino a quando non lo faremo, fino a quando non capiremo che la profondità del nostro roster è un bene e fino a quando non mettiamo da parte i nostri desideri personali, non saremo una squadra migliore. Altrimenti continueremo ad avere i nostri alti e bassi, specialmente in trasferta».

Di tutte le parole che ha detto, le più interessanti a mio modo di vedere sono queste: «Fino a quando non capiremo che la profondità del nostro roster è un bene». È evidente che per qualcuno all’interno del roster il fatto che ci siano così tante bocche da sfamare non è visto come un punto di forza, e non è difficile individuare quel qualcuno nei tre giocatori che lo scorso anno hanno rappresentato la fondazione della squadra, ovverosia Jayson Tatum, Jaylen Brown e Terry Rozier. Loro tre, insieme al contributo fondamentale dei vari Al Horford, Marcus Morris e Marcus Smart, erano i volti in copertina di una squadra che è andata oltre le più rosee aspettative, arrivando a un passo dall’eliminare LeBron James dai playoff — impresa che, è bene ricordare, negli ultimi otto anni non è riuscita a nessuno nella Eastern Conference.

Proprio a partire da questo risultato bisogna spiegare la riluttanza dei giovani Celtics ad accettare la leadership che Irving si è di fatto preso senza chiedere il permesso a nessuno. Come è noto a tutti, Irving non era in campo per la cavalcata ai playoff che ha portato i Celtics a un passo dalle Finals per via di un infortunio al ginocchio. E mentre i suoi compagni si giocavano gara-7 tra le mura amiche, lui non era neanche presente al TD Garden — ufficialmente per un’operazione al setto nasale che gli aveva impedito di prendere un aereo, secondo le parole del GM Danny Ainge.

Non è così impensabile che Irving, che ha una personalità particolare, non fosse da considerare il leader di quello spogliatoio che senza di lui se l’era cavata egregiamente. E per questo le sue continue lamentele a mezzo stampa — oltre ai multipli “team meeting” a porte chiuse di questo inizio di stagione — non devono aver fatto piacere ai suoi giovani compagni, che sentono di essersi guadagnati status e credito per quanto fatto lo scorso anno. Specialmente non vedono di buon occhio l’idea di essere criticati davanti ai media da un giocatore che, al suo ottavo anno in NBA, non ha ancora disputato una singola partita di playoff senza LeBron James.

Uno stile poco inclusivo

A questo bisogna aggiungere che lo stile di gioco di Irving non è esattamente il più inclusivo della lega. Il cinque volte All-Star è al suo meglio non solamente quando ha il pallone tra le mani, ma quando lo può palleggiare il più a lungo possibile, giocando anche interi possessi senza passarla ai compagni e riuscendo comunque a cavarne punti su punti (tira con il 59% di percentuale effettiva nelle conclusioni con sette o più palleggi). È la cosa che fa meglio, è la cosa che lo rende “Uncle Drew” e che ha fatto diventare uno dei giocatori più elettrizzanti e amati della lega. Ma è anche uno stile difficile da digerire per chi gli sta a fianco, che si ritrovano continuamente “congelati” lontano dal pallone e dalla zona delle operazioni per interi possessi, bloccando quello stile “egualitario” che lo scorso anno li ha portati così lontano (pur attraversando momenti di secche offensive non trascurabili).

Esattamente come ha fatto nello spogliatoio con la leadership, Irving si è preso il pallone (28.2% di Usage Rate in stagione, il secondo Tatum si ferma a 22) senza chiedere il permesso a nessuno, aumentando ancora di più il suo dominio negli ultimi quarti (32.6%, il secondo Morris si ferma 10 punti percentuali più sotto). Quando la partita si decide “in the clutch” (ultimi 5 minuti di partita con punteggio entro 5 punti), il numero di possessi utilizzati schizza al 41.7%, dietro solamente a Harden, Conley, Booker, Walker e Mitchell — tutti giocatori che però attorno non hanno il talento di cui dispone Irving.

Quando le partite si decidono, la palla finisce sempre in mano a Kyrie.

Non si può dire però che Irving ne stia facendo un utilizzo poi così sbagliato, visto che i Celtics hanno di gran lunga il miglior attacco “in the clutch” della lega (132.3 punti su 100 possessi, dieci più dei secondi). Quella che sta disputando è certamente la sua miglior stagione in carriera e anche il suo impegno nella metà campo difensiva — storicamente ritenuta la parte più debole del suo gioco, anche se più che altro si trattava di scarso interesse — è decisamente a ottimi livelli per quelle che sono le sue possibilità. Irving si sta anche impegnando a fare quelle piccole giocate che fanno così piacere a Brad Stevens, il quale infatti fino ad adesso si è ben guardato dal criticare (almeno pubblicamente) il suo giocatore più importante.

Questo però potrebbe essere un altro motivo di tensione all’interno dello spogliatoio, visto che Stevens non ha mai ripreso o commentato le continue lamentele di Irving - che non hanno risparmiato nessuno dei suoi compagni, neanche quelli con più esperienza. A inizio stagione era arrivato a dire che «sarebbe bello avere un veterano con 14 o 15 stagioni alle spalle, per aiutarci a capire che si tratta di una lunga maratona piuttosto che di uno sprint»: un riferimento neanche troppo velato alla mancanza di personalità di chi, come Horford, di anni di NBA alle spalle ne ha 12, o anche Gordon Hayward (9 stagioni), Marcus Morris (8) e Aron Baynes (7), che non sono proprio giocatori di primissimo pelo.

Mettersi su un piedistallo

Un po’ come ha fatto Jimmy Butler a Chicago e a Minnesota ripetendo fino all’ossessione del suo essersi “fatto da solo” ai compagni, Irving fa continuamente riferimento al titolo vinto nel 2016 (con un suo tiro decisivo) e le altre due Finali giocate con i Cleveland Cavaliers (di cui la prima conclusasi però in gara-1 per infortunio) per legittimare presso gli altri il suo carisma. Come a dire: “Io ho vinto, so come si fa, perciò dovete stare ad ascoltarmi”. Non proprio un atteggiamento conciliante nei confronti dei compagni, che stanno velatamente iniziando a far capire di averne abbastanza di essere continuamente ripresi, specialmente davanti ai media.

Jaylen Brown, che sta vivendo una stagione complicata ma di sicuro non è uno stupido (e soprattutto ha perso ruolo da titolare, minuti e tocchi probabilmente più di chiunque altro), è quello che lo ha fatto capire più chiaramente: «Dobbiamo prenderci la responsabilità come gruppo: non può essere colpa di uno solo, o dei giovani, o dei vecchi. Siamo tutti assieme. E dobbiamo coprirci le spalle a vicenda. Non possiamo commentare, non possiamo darci la colpa l’un l’altro. Se cominciamo a farlo, tutti si rinchiuderanno nei loro piccoli gusci. E questo comincia dall’alto verso il basso, non dal basso verso l’alto». Concetti ripetuti più volte che sono sembrati una risposta a tutte le volte che Kyrie si è lamentato della mancanza di esperienza dei suoi compagni, o anche delle volte in cui Stevens ha punito i giovani (mettendo Brown in panchina o riprendendo più volte Tatum per i suoi tiri dalla media distanza) nel corso di questa stagione così altalenante.

Non è un caso che le parole di Brown siano arrivate dopo quelle di Irving a Orlando. E non è neanche un caso che lo stesso Kyrie si sia reso conto di aver esagerato, cercando di ricucire lo strappo non solo con le prestazioni in campo — al rientro contro Toronto ha chiuso con 27 punti e 18 assist, suo massimo in carriera, seguito da altri 38 con 11 nella sfida interna a Memphis — ma anche con i suoi commenti davanti ai media. Il tentativo di tendere un ramoscello d’ulivo nei confronti dei compagni, però, si è rivelato a dir poco disastroso.

Non nominare il nome di LeBron invano

Bisogna credere alla buona fede di Irving, che dopo la vittoria con Memphis si è scusato pubblicamente per quello che aveva detto («Ha ragione Jaylen: ho fatto un pessimo lavoro con i miei compagni, parlando pubblicamente e provando così a tirare fuori qualcosa da loro. Voglio tirare fuori il meglio, ma non posso farlo attaccando in maniera personale»). Il problema, semmai, è che ha continuato a mettersi su un piedistallo rispetto a chi gli sta intorno. Con frasi come «Non sai mai in quale modo possono essere accolte critiche di questo genere, non puoi valutare quanto sia fragile un ragazzo o che periodo stia attraversando» o «Sono stato in una squadra da titolo, ho già provato e testato tutte le difficoltà del caso. Ma non posso pretendere che loro sappiano già fare lo stesso» ha di fatto continuato a criticare i suoi compagni, definendoli sia fragili che inesperti — parole che ovviamente non ha riservato per se stesso.

Irving ha poi spinto con forza il pallone nella propria porta compiendo un autogol comunicativo goffissimo, rivelando al mondo di aver chiamato LeBron James per scusarsi. Parole che sono diventate immediatamente la notizia, facendo passare le sue scuse nei confronti dei compagni in secondo piano. O anche terzo o quarto, come accade ogni volta che viene tirato in mezzo LeBron: d’altronde si è scritto di più del fatto che, di tutte le persone possibili e immaginabili, al momento della telefonata ci fosse Kevin Love a cena insieme a James.

Irving ha rivelato di aver chiamato il suo ex compagno chiedendogli scusa «per essere stato quel giovane che voleva tutto e subito, senza capire che la responsabilità di essere il migliore al mondo e guidare una squadra al titolo non è per tutti». Nello spiegare che tipo di atteggiamento avesse avuto nei confronti di James, Irving ha puntato ancora una volta il dito nei confronti dei suoi compagni. Ma non solo: è andato addirittura oltre, facendo capire che in questa analogia ora lui è LeBron, mentre gli altri sono i giovani Kyrie che non capiscono cosa serve per vincere. «Quando è venuto a Cleveland, LeBron ha provato a mostrarci cosa vuol dire vincere un titolo. E per lui è stata dura. Tirare fuori il meglio da un gruppo non è cosa da tutti. […] Io ero il 22enne che voleva tutto, che aveva appena fatto l’All-Star Game, che ne era stato MVP, e che tutto d’un tratto si ritrovava in squadra questa presenza enorme. E che doveva adattare il suo gioco a questo tizio. Finisci per prenderla sul personale».

Kyrie racconta alle telecamere quando ha chiamato LeBron.

Irving ha poi concluso con un colpo di egocentrismo di altissimo livello, dichiarando che «Bisogna essere dei veri uomini per chiamare qualcuno e dire “Ehi, ho sbagliato, ero giovane, non guardavo allo schema generale delle cose come facevi tu”» — mettendosi ancora di più su un piano umano diverso rispetto agli altri, dicendosi da solo di essere «un vero uomo». Frasi che messe una in fila all’altra rendono l’insieme delle sue dichiarazioni non solo confuse (come spesso gli è capitato, e non solamente con le frasi sulla Terra piatta), ma addirittura dannose sia per il messaggio che voleva far passare sia per l’effetto che possono avere sui suoi compagni, specialmente quelli più giovani.

La grande prestazione contro i Toronto Raptors e le successive tre vittorie contro Memphis, Atlanta e Miami hanno calmato le acque, almeno per ora. Ma si vedrà nella seconda parte di stagione e soprattutto ai playoff se le parole e l’atteggiamento di Irving avranno avuto l’effetto sperato di tirare fuori il meglio da questo gruppo. Però specialmente lui dovrebbe sapere quali possono essere gli effetti di una leadership troppo “paternalistica” nei confronti dei compagni più giovani.

Dopotutto è stato lui stesso a volersene andare da Cleveland e dall’ombra di LeBron perché non voleva più giocare con lui e non sopportava il peso che aveva all’interno della franchigia. Ora però Irving si ritrova a voler fare il James, e dovrebbe sapere meglio di chiunque altro come si possono sentire i suoi compagni di fronte al suo atteggiamento. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità: Kyrie Irving sembra averlo capito da sempre, ma non ha ancora trovato il modo di esercitarli nel modo migliore per le sue squadre.

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