Le convocazioni in Nazionale sono quel sistema inventato apposta per dividere e far litigare le persone. Si tratta di scelte arbitrarie di un individuo che ragiona in funzione di un obiettivo, per questo sempre e comunque criticabili. Le polemiche sono la conseguenza inevitabile di una logica per cui, quasi per ogni giocatore convocato, ce n’è un altro migliore (per qualche altro individuo che compie scelte altrettanto arbitrarie). Se le polemiche per le convocazioni non bastano, subito dopo iniziano quelle riguardanti le assegnazioni dei numeri di maglia. Con i numeri non si scherza, il loro valore simbolico va oltre l’aspetto pratico del riconoscere i giocatori in campo.
Specie quando si tratta delle Nazionali, che più dei club si prestano all’ideale romantico di un calcio “puro” e a confronti con epoche passate più floride o non sporcate da soldi e giochi di potere. I numeri di maglia sono considerati i veri custodi dell’identità Nazionale, una loro assegnazione sciagurata rischia di mettere in pericolo i valori della Repubblica. La maglia numero 10, poi, contiene una mistica tutta sua. E per una Nazionale abituata a basare i propri successi su una grande solidità difensiva il numero 10, il “fantasista” (concetto che esiste solo in italiano), costituisce il perfetto controcanto religioso.
L’unico elemento libero dalla dimensione terrena della tattica, e deputato alla “creazione” divina del gioco. In grado da solo di prendersi sulle spalle la squadra e riscattare l’aridità degli altri dieci giocatori.
Così, esauriti lo sdegno e le rosicate perché Antonio Conte ha scelto di convocare Sturaro e non Jorginho o Bonaventura, l’indignazione e lo scherno si sono concentrate sull’assegnazione del numero 10 a Thiago Motta, un’ingiustizia talmente palese che è praticamente impossibile trovare una voce fuori dal coro. Sembra quasi una scelta indifendibile, forse persino provocatoria.
Montaggio impietoso che era il sottofondo mentale dei tifosi italiani.
Gli altri 10 “anomali”
La numerazione fissa dei giocatori fu introdotta nei Mondiali del 1954. In quell’edizione il nostro numero 10 fu Gino Cappello, allora attaccante del Bologna. Nella seconda metà degli anni Sessanta, invece, la 10 girovaga prima sulle spalle di Antonio Juliano, regista del Napoli, nel Mondiale del 1966; poi su quelle di Giacinto Facchetti, nell’Europeo del 1968, l’unico vinto finora dall’Italia; e poi su quelle di Mario Bertini nel Mondiale del 1970. Due centrocampisti e un difensore (per quanto di livello assoluto come Facchetti), in rose che potevano contare ad esempio su Gianni Rivera e Sandro Mazzola, giocatori molto più vicini all’ideale di numero di 10 e alle caratteristiche che di solito gli vengono attribuite: fantasia, tecnica, capacità di segnare e fare assist.
Stessa cosa nel Mondiale del 1978: la 10 va a un mediano, Romeo Benetti, e non ad esempio a Giancarlo Antognoni, che gioca invece con la maglia numero 9. Quattro anni dopo, nel trionfale Mondiale spagnolo, la 10 finisce sulle spalle di Giuseppe Dossena: nell’immaginario popolare il numero 10 è il giocatore più forte della squadra, il talento capace di risolvere ogni situazione. Dossena nel 1982, invece, non gioca nemmeno una partita.
Nell’Europeo del 1988 la 10 viene indossata da Luigi De Agostini, in grado di ricoprire diversi ruoli, ma decisamente lontano da tutto ciò che associamo al numero 10. Poi venne il turno di Nicola Berti (a Italia 90) e Demetrio Albertini (all’Europeo del 1996): centrocampisti in rose in cui figuravano Giuseppe Giannini, Roberto Mancini, Roberto Baggio, Gianfranco Zola e Alessandro Del Piero.
Negli anni passati la numerazione veniva decisa tramite un sorteggio o seguiva criteri rigidi come l’ordine alfabetico in base ai reparti, per cui, oltre a 10 “anomali”, si sono viste stranezze come la numero 9 indossata da Tassotti a USA 94 o da Ancelotti, sia nell’Europeo del 1988 che nel Mondiale del 1990. Sconfitto questo tentativo di desacralizzazione, l’assegnazione dei numeri di maglia è tornata di recente a essere libera, il che non ha impedito ad esempio che all’Europeo del 2008 la 10 finisse sulle spalle di Daniele De Rossi, che con Thiago Motta, l’ultimo “intruso”, si giocherà il posto tra i titolari nella formazione di Antonio Conte.
Nessun aiuto dal cielo
Limitandoci solo ai precedenti in Nazionale, senza scomodare quindi i casi assurdi di Lupatelli e D’Anna (portiere e difensore centrale) al Chievo, di Lassana Diarra con la 10 del Real Madrid o di Gallas all’Arsenal, si può vedere come Thiago Motta sia in ottima compagnia, e anzi non sia il più “immeritevole” ad aver indossato la numero 10 dell’Italia. Ed è chiaro che non sia il gesto in sé, quello di aver affidato la 10 a un giocatore che in realtà un numero 10 non è, ma l’averla data proprio a Thiago Motta, uno dei giocatori meno amati nella rosa dei 23 scelti da Conte, ad aver scatenato la “crociata” in difesa della numero 10.
Anche nei momenti più difficili della sua storia, l’Italia ha avuto un numero 10 a cui affidare le poche speranze che, in un modo o nell’altro, le partite possono essere vinte. La 10 a Motta è stata la certificazione che in questo Europeo non esisterà neanche questa speranza ai limiti dell’irrazionale. Che dovremo fare i conti con i nostri limiti terreni, che nessun Baggio, nessun Totti, nessun Del Piero, arriverà a svoltarci la partita. Dovremo bastare a noi stessi.
Baggio, il 10, sbuca dal torpore e ci salva dall’eliminazione.
Forse ci si è spinti troppo in là, se è dovuto perfino intervenire l’agente di Thiago Motta, Alessandro Canovi, per giustificare l’assegnazione del numero di maglia: «Non è stato Thiago a chiedere la numero 10, gli è stata data e non poteva certo rifiutarla». Davvero in un calcio in cui i numeri vengono scelti per scaramanzia, in onore di date particolari (l’anno di nascita, etc.) e sulle maglie trovano spazio anche operazioni matematiche (Zamorano e Pogba, ad esempio) l’assegnazione della 10 conserva ancora questa sacralità in grado di generare polemiche così accese?
Nell’ultimo giro di convocazioni prima dell’Europeo, in cui erano presenti sia Thiago Motta che Lorenzo Insigne, probabilmente il giocatore della rosa azzurra più “meritevole” della 10, nessuno ha scelto di indossare la numero 10. Non potendo evitare di assegnarla in una competizione ufficiale come l’Europeo, in cui la numerazione va da 1 a 23 senza possibilità di “buchi”, la scelta è ricaduta su Thiago Motta.
Il 12 e il 13 aprile scorso si sono giocati i quarti di finale di ritorno di Champions League. Thiago Motta era l’unico nazionale italiano in campo. Nel PSG è stato il settimo giocatore per minutaggio complessivo e ha giocato da titolare 9 partite su 10 in Champions, saltando solo quella meno significativa di tutte, l’ultima del girone contro lo Shakhtar Donetsk. In carriera ha vinto 7 campionati in 3 Paesi diversi e 2 Champions League e, infortuni permettendo, si è sempre imposto come titolare in squadre di altissimo livello come il Barcellona, l’Inter o l’attuale PSG.
In una Nazionale senza stelle e in cui il livello qualitativo medio è inferiore rispetto alle altre squadre di prima fascia, la numero 10 a Thiago Motta ci ha indignato perché in qualche modo ha certificato la nostra caduta dal calcio di primo livello. In Francia non ci saranno vie di fuga, nessun genio cui affidarsi nei momenti più complicati. Gli strumenti con cui dovremo provare ad andare avanti sono pochi, ma se non altro sono tutti sotto i nostri occhi.