Una delle cose che rendono bello il basket, ma bello per davvero, è la continua tensione tra squadra e individuo. Un singolo giocatore ha la possibilità di avere un impatto fondamentale su una partita, su una squadra, su un momento ben preciso. È anche per questo che gli atleti del NBA stanno diventando ogni giorno più grandi, più lunghi, veloci, enigmatici: quando hai annullato tutte le variabili tattiche, è il giocatore stesso la variabile tattica, un assioma che diventa ancor più valido durante i playoff. L’NBA è piena di giocatori in grado di crearsi un tiro, come un’arma che può sparare efficacemente in qualsiasi momento o situazione. Non è nemmeno necessario fare i nomi: questi playoff stanno rendendo abbastanza chiaro il tipo di soluzioni offensive che i migliori giocatori hanno nel proprio arsenali. Eppure quando parliamo di “crunch time” (ovvero gli ultimi 5 minuti di una partita con meno di 5 punti di scarto) la miglior arma da usare, anche nel 2017, è ancora una: Joe Johnson in isolamento.
L’uomo soprannominato non a caso “Iso Joe”, in condizioni normali, non è uno dei migliori attaccanti dell’NBA. Non lo era neanche nel fiore degli anni, a dirla tutta. Eppure dobbiamo riconoscergli (anche perché glielo riconoscono i numeri) un’incredibile capacità nel segnare canestri nei momenti finali delle partite tirate, quei canestri che convenzionalmente giudichiamo “contare di più”. Nel primo turno dei playoff 2017 – a quasi 36 anni - è stato il migliore per distacco: li ha segnati con una percentuale effettiva dell’75% ed è quello che ne ha mandati a segno di più insieme a Kawhi Leonard e Chris Paul, a quota 8. Johnson ha sfruttato l’assenza alternata delle due stelle della squadra, Gordon Hayward e Rudy Gobert, per incidere sulla serie contro i Clippers più di quanto ci saremmo aspettati, segnando 15.7 punti a partita (dopo aver viaggiato poco sopra i 9 di media in stagione), tirando sopra il 50% da 2, marcando in maniera efficace Blake Griffin finché è stato nella serie, ma soprattutto segnando i suoi iconici e remunerativi tiri nei finali di partita.
Il più significativo, proprio sulla sirena di Gara 1 per tastare il polso della serie, è arrivato dopo aver ricevuto la rimessa successiva al canestro del pareggio di Paul a 13 secondi dalla fine. L’azione ci dice molto su come viene ancora considerato Johnson in una franchigia NBA: Utah gli mette palla in mano senza chiamare timeout per non far organizzare la difesa dei Clippers, confidando nella sua capacità di crearsi un tiro da solo e portando solo un blocco con Ingles per forzare il cambio difensivo e mettergli sulle piste Crawford, più piccolo di lui. Il resto è puro Iso Joe: con estrema tranquillità porta l’avversario dentro l’area e poi trova la lucidità sufficiente per vanificare il raddoppio di Griffin e alzare la parabola quel tanto che basta per superare l’aiuto di De Andre Jordan (quindi tanto davvero) e segnare mentre la sirena suona.
Dopo aver segnato 13 punti nell’ultimo quarto di Gara 4, un suo canestro nel finale risulta decisivo anche per la vittoria di Gara 5. Sfruttando la mancanza di comunicazione della difesa dei Clippers, Johnson si guadagna un minimo vantaggio su Mbah-a-Moute, aspetta il recupero, si separa con lo step back e segna due punti che a 19 secondi dalla fine sono fondamentali per la vittoria dei Jazz. Anche qui, la lucidità di Joe Johnson nel momento decisivo della partita non è comune. Per lui il pallone non pesa di più.
Utah Joe
Se prima delle recenti prestazioni nei playoff non vi eravate accorti del trasferimento di Joe Johnson agli Utah Jazz, tranquilli: siete in buona compagnia. In un mercato NBA strangolato dall’affare Durant, il suo accordo da free agent con Utah è passato sotto traccia. Inoltre è stata una scelta difficile da capire: preferire il sale di Salt Lake City al sole di Miami per un giocatore di 35 anni senza poi molto da chiedere all’NBA non sembrava avere molto senso all’interno delle logiche che muovono la Lega (Golden State tifava Clippers perché pare che in Utah non esista vita notturna), senza considerare che poco tempo prima aveva ignorato le avances spintissime di LeBron James per raggiungerlo a Cleveland. Ma Johnson, come sempre, deve aver fatto i suoi calcoli: alla vita notturna ha preferito una squadra ambiziosa che aveva bisogno di uno come lui. Al nucleo giovane della squadra mancava proprio un giocatore in grado di segnare punti dalla panchina e di aiutare con la sua esperienza di veterano. Johnson è arrivato in Utah pronto anche a riconsiderare il suo ruolo in campo: ridurre il minutaggio gli ha fatto bene, in cambio ha portato i suoi punti, la sua abilità in isolamento, un’etica del lavoro non comune e ultimamente anche una certa passione per il Brikam yoga.
Money Joe
Facciamo un passo indietro. L’altra cosa che accostiamo a Joe Johnson, oltre alla capacità di segnare in the clutch, sono i soldi. In sedici anni di NBA ha guadagnato 203.542.249 dollari, secondo solo a Dirk Novitzki tra i giocatori in attività. Non che sia un giocatore che non meritasse di essere pagato: parliamo pur sempre di un sette volte All-Star, ma la sua carriera fin qui è stata spesso definita dal fatto che fosse pagato troppo. Il contratto da 119 milioni di dollari per sei anni firmato nel 2010 con gli Atlanta Hawks è ancora considerato una delle storture del sistema economico che regola l’NBA ed è stato visto spesso come un’ombra nella sua carriera. Con questo peso sulle spalle, Joe Johnson è diventato il simbolo di quei giocatori che mettono i soldi davanti a tutto il resto. La sua carriera alla guida di squadre da 50 vittorie che non riescono mai a superare il secondo turno dei playoff è spesso stata considerata insufficiente per la quantità di soldi che ha guadagnato. Eppure neanche giocatori che consideriamo molto di più come Chris Paul, Vince Carter e Tracy McGrady non sono stati in grado di portare le proprie squadre in finale. Joe è sicuramente meno forte di questi, eppure l’aver guadagnato molto più di loro (anche se c’è da aspettare il nuovo contratto di CP3) non è una colpa.
Johnson è stato in grado di massimizzare le sue qualità: la sua integrità fisica e la sua consistenza in campo l’hanno portato ad accumulare numeri notevolissimi ed essere pagato così tanto. Tra i giocatori in attività solo Nowitzki, Jason Terry e Vince Carter hanno giocato più partite di lui. In tutta la carriera - fin qui - ha avuto pochissimi infortuni (ironia della sorte l’unico che ricordiamo – quello all’occhio nei playoff quando era ai Suns – gli ha tolto forse l’unica possibilità di competere realmente per un titolo). È nono per numero di triple realizzate ogni epoca, ha segnato oltre 20.000 punti (42esimo nella storia ad arrivarci), con una striscia di 937 partite consecutive con almeno un canestro.
Senza mai essere stato il miglior giocatore dell’NBA, Joe Johnson è sempre stato un giocatore molto versatile e in grado di mettere la dannata palla nel cesto, una caratteristica che gli allenatori amano a prescindere quasi da tutto. Johnson ha giocato guardia quasi tutta la carriera, evolvendo il suo gioco a seconda delle necessità. Da tiratore rapido e implacabile nei Suns del 7 seconds or less di D’Antoni (chiuse la stagione 2004-05 col 47.8% da 3, una delle migliori percentuali ogni epoca) a veterano che parte dalla panchina nei giovani Utah Jazz. In mezzo una carriera enigmatica per gli avversari: con i suoi 201 centimetri e 108 chili di muscoli marcare nell’uno contro uno Joe Johnson era (e rimane) un bel problema. Inoltre in questa nuova era di small ball Johnson può giocare anche da stretch four, una duttilità molto importante soprattutto nei finali di partita. Trovargli un accoppiamento non è mai semplice, come sa bene Doc Rivers: può battere un avversario più grosso dal palleggio e soprattutto portare in area e tirare sopra a testa di un avversario più piccolo. Può segnare aprendosi da 3 o tagliando verso il ferro lontano dalla palla, fare punti sia come portatore di palla nel pick and roll, sia come rollante. In più Joe Johnson è un ottimo passatore (4 assist di media in carriera, nonostante il soprannome).
Buzzer Joe
Se dovessi usare un personaggio per rappresentare Joe Johnson non avrei dubbi nello scegliere Jamie Foxx in Django Unchained. Oltre a somigliarli molto, come Django rimanda questa idea del pistolero che arriva, punisce l’avversario sulla sirena e poi se ne va (con molti soldi).
La sua capacità di essere determinante nei minuti finali delle partite, infatti, contiene in sé un’ulteriore sfumatura che arricchisce la già clutch-istica carriera di Joe: i buzzer beater, ovvero i canestri vincenti segnati proprio all’ultimo, sulla sirena. Negli ultimi 10 anni di NBA nessuno ha fatto meglio di lui, con 8 canestri segnati con le maglie di Atlanta, Brooklyn e Utah. Meglio di LeBron, secondo classificato a quota 4, meglio di Durant e Curry, meglio di Kobe Bryant. Questo numero non può essere un caso. È la conferma delle qualità che lo hanno portato ad essere determinate in ben tre partite del primo turno dei playoff e che in più in generale tante vittorie hanno portato alle sue squadre.
Non è facile spiegare il perché di tanta efficienza in quello che è sicuramente il momento più complicato di una partita senza scomodare alcune qualità intangibili. Anche lo stesso Johnson interrogato non sembra avere una risposta univoca: «Ogni volta che un allenatore crede in me al punto da mettermi la palla in mano nel finale, faccio tutto quello che posso per prendere il miglior tiro possibile. È quello che ho sempre fatto. Ma non solo: credo che chiunque mi abbia allenato, da Mike Woodson a D'Antoni, da Avery Johnson a Jason Kidd a Lionel Hollins, mi abbia sempre messo in condizione di segnare quei tiri. Abbiamo avuto ottime giocate da rimessa e in uscita dal timeout. E per per un motivo o per un altro ci hanno sempre dato ottimi risultati. Ciò nonostante, dal canto mio ho sempre provato ad impormi sul mio marcatore. Perché a fine partita quando sei uno contro uno - e sei sotto di uno o pari – non c’è nessuno lì che ti aiuta. A quel punto, nessuno raddoppia perché nessuno vuole che il proprio uomo segni. Quindi sei lì col tuo marcatore, uno contro uno, ma io ho sempre sentito che ero io quello in vantaggio».
È un peccato non aver mai visto Johnson prendersi uno dei suoi isolamenti con il risultato in bilico in partite più importanti, per capire quanto fosse grande questo vantaggio. Golden State, come da pronostico, ha finito per triturare i suoi Jazz tenendolo a soli 8 punti di media col 32% al tiro, eppure di Iso Joe ci rimane l’idea di un giocatore che l’NBA ha frainteso e che forse nel finale della carriera può ancora riscrivere il suo contributo. Un giocatore in grado di offrire sempre una soluzione non convenzionale, ma soprattutto di essere decisivo. Essere decisivo quando conta, quando la partita sta finendo e l’unica speranza è che la tua arma sia più letale di quella del tuo avversario.