Alla voce “rivalità”, ogni vocabolario che si rispetti riporta la propria trasposizione del seguente concetto: sentimento di reciproca invidia ed emulazione tra rivali impegnati nella conquista di una medesima persona, cosa o finalità. Per rientrare nella definizione occorre quindi che le due parti in causa operino sullo stesso piano, anche solo per un periodo limitato, e che la competizione scaturisca dalla voglia di eguagliare l’avversario superando antipatia e gelosia per i risultati che l’altro ha raggiunto.
Partendo da questo presupposto, appare evidente come il termine “rivalità” accostato al rapporto tra le due franchigie NBA con sede a Los Angeles risulti posticcio. Le fredde cifre non lasciano scampo: quella in corso è la 35^ stagione in cui entrambe le squadre giocano nella città degli angeli, la partita disputata durante la opening night della nuova stagione è stata la gara numero 154 della stracittadina e, nonostante la vittoria dei Clippers al termine di un predominio quasi decennale, il record complessivo arride comunque ai Lakers con un eloquente 101-53.
Oltre 400 media accreditati, tutto esaurito allo Staples Center, Clippers padroni di casa e in controllo per tutto il quarto periodo e pubblico che a tre minuti dalla fine canta “Let’s go Lakers!”.
Il divario tra le due sponde del basket professionistico cittadino si fa ancora più ampio quando ci si addentra nel conteggio dei trofei in bacheca: 16-0 Lakers per quanto riguarda i titoli NBA, 31-0 per quelli di conference e 23-2 per quelli di division. Anche un aspetto solo in apparenza marginale come quello dei numeri ritirati rende bene l’idea del gap: i Lakers hanno tolto dalla disponibilità ben 11 numeri di maglia, dato secondo solo ai Celtics in tutta la NBA, mentre chiunque si trovi a vestire i colori dei Clippers può decidere senza limitazioni il proprio numero perché, a quanto pare, nei quasi 50 anni trascorsi tra Buffalo, San Diego e L.A. nessun giocatore si è guadagnato tale onore.
Infine, non esiste conteggio attendibile in merito a quella che rappresenta la vera ricchezza di qualsiasi club sportivo al mondo, ovvero il numero di tifosi, ma un’ipotesi realistica riassumerebbe in un rapporto di 10 a 1, ovviamente in favore dei Lakers, il confronto tra le rispettive fanbase. Il fatto che due stelle appena arrivate in città vengano sonoramente fischiate, come capitato a Leonard e George in occasioni diverse, diventa al massimo una nota di colore. Poco importa che entrambi siano hometown boys tornati a casa dopo un lungo pellegrinaggio, ciò che conta è che l’hanno fatto per vestire una maglia diversa da quella gialloviola.
È quindi lampante come l’espediente narrativo con cui buona parte della stampa specializzata ha flirtato in questi ultimi mesi, cioè l’elevazione del derby angeleno a rivalità conclamata, sia privo di concreto fondamento. D’altro canto, nella 34 stagioni trascorse dal trasloco degli allora San Diego Clippers, le due squadre non sono mai state tra le prime quattro posizioni della Western Conference nello stesso periodo e, soprattutto, non si sono mai incrociate ai playoff.
Nondimeno, la sensazione diffusa è che qualcosa negli equilibri stia cambiando. I Clippers hanno vinto 24 delle ultime 29 sfide e negli ultimi sette anni hanno sempre avuto un record migliore dei Lakers. Risultati frutto di uno sforzo encomiabile, anche se il tanto agognato titolo che avrebbe riscattato l’onore è rimasto un sogno sospeso nella traiettoria degli alley-oop dell’era Lob City. I Lakers, nel frattempo, si sono parimenti impegnati nell’opera di costante e convinta dissipazione del vantaggio accumulato in tre decenni di dominio cittadino assoluto.
Il declino dell’impero gialloviola
I Lakers che puntano al 17° titolo sono la squadra di LeBron James e Anthony Davis, su questo non c’è alcun dubbio. Così come non c’è alcun dubbio sul fatto che le acquisizioni di James in free agency e di Davis tramite trade dodici mesi più tardi siano anche le uniche due cose buone combinate dai Lakers negli ultimi otto anni. Un periodo di tempo nel quale si sono avvicendati sei allenatori, mancando dal 2013 l’obiettivo minimo dei playoff grazie a un record assai poco brillante di 27 vittorie di media nelle ultime sei stagioni.
Sono, per distacco, i risultati peggiori nella loro lunga storia, ma quanto successo in campo diventa persino poca cosa in confronto al disastro totale nella gestione tecnica e d’immagine della franchigia. E se la scarsa oculatezza dimostrata nelle scelte al Draft (i Lakers hanno pescato nella top-3 in quattro delle ultime cinque occasioni: nessuno di quei giocatori transita più da El Segundo) e l’altrettanto scarsa coerenza nella costruzione del roster sono pecche accomunabili a diverse altre realtà, a rendere i Lakers unici anche nella disgrazia è la drammaticità delle dinamiche che hanno coinvolto proprietà e alta dirigenza.
Siamo pur sempre a Hollywood, dice un vecchio adagio spesso usato come arma retorica per giustificare l’eccezionalismo gialloviola, ma le vicende che hanno contraddistinto la franchigia dopo la morte dello storico proprietario Jerry Buss nel febbraio 2013 delineano un copione zoppicante e tragicomico. In un susseguirsi di eventi e colpi di scena a metà strada tra Shakespeare e Succession, le battaglie intestine hanno coinvolto gli eredi di famiglia (con Jeanie ad avere la meglio sul fratello maggiore Jim) e lo staff dirigenziale (con il fedelissimo Kupchak cacciato per far spazio alla coppia Pelinka-Magic) che avrebbero dovuto riportare agli antichi splendori è invece finita in una assai poco dignitosa sequela di dimissioni, accuse, repliche e offese, tutto rigorosamente a favore di telecamera.
6 minuti e 16 secondi di assoluto, totale imbarazzo a firma Magic Johnson.
La credibilità come franchigia ha quindi toccato i minimi storici ma, essendo pur sempre i Lakers, questo non ha impedito di aggiudicarsi i favori del miglior giocatore degli ultimi 20 anni (seppur avviato verso la fase finale della carriera) e di quello che potrebbe candidarsi a essere il migliore dei prossimi dieci. Tutto è bene ciò che finisce bene, insomma: il ritorno ai massimi livelli è alle porte e l’egemonia sulla città rimane sottintesa. Tutto vero, se non fosse che nel frattempo, a Los Angeles, è arrivato qualcuno con idee decisamente diverse.
Steve Ballmer ha un piano e nessuna paura di attuarlo
Prendiamo per buona la retorica - in vero abusata - di Hollywood e della sua ineludibile vocazione alla drammaturgia. Ogni sceneggiatura degna di considerazione prevede che a un certo punto, quando lo spettatore meno se l’aspetta, compaia un personaggio nuovo pronto a sconvolgere l’andamento della trama. Certo, a prima vista Steve Ballmer, che ama definirsi “un tizio effervescente ma ottimista”, risulta poco credibile come agente del caos. Eppure se i Clippers oggi possono covare la legittima speranza di sovvertire l’ordine precostituito, in questo caso rappresentato dai cugini gialloviola, lo devono all’uomo che ha acquisito la franchigia dalle mani di Donald Sterling nel 2014.
Insieme al prezzo record di due miliardi di dollari pagato per subentrare al precedente e assai poco stimato proprietario, Ballmer porta con sé tutta la voglia di primeggiare accumulata in oltre 30 anni di carriera dirigenziale ai più alti livelli in Microsoft, oltre a quel pizzico di arroganza giustificata dai successi mietuti in campo imprenditoriale. Nato e cresciuto in Michigan, Ballmer vanta un percorso agonistico da corridore alquanto scarso («ero sempre ultimo, in allenamento così come in pista») accompagnato però dalla grande passione per lo sport. Abbonato ai Detroit Pistons prima e poi ai Supersonics una volta stabilitosi a Seattle per affiancare Bill Gates alla guida del colosso dell’high tech, Ballmer incontra la sua prima possibile esperienza come proprietario di una franchigia a metà anni 2000.
Proprio i Sonics, dopo la rottura tra il proprietario Howard Schultz e le autorità locali maturata a seguito del loro rifiuto di finanziare i lavori di ammodernamento necessari alla Key Arena, avrebbero bisogno di imprenditori locali disponibili a subentrare con capitali freschi. Ballmer è tentato, ma all’epoca i suoi impegni come CEO di Microsoft e come padre (i tre figli sono ancora tutti in età scolastica) sono prioritari. Non bastasse, David Stern, allora plenipotenziario commissioner, gli raccomanda di pensarci bene, perché non conviene comprare una franchigia NBA «a meno che tu non sia disposto ad accettare che qualcuno si sieda al tavolo dei tuoi figli mentre pranzano a scuola e si lamenti di come il loro papà sta gestendo la squadra». Il resto della storia è noto: Ballmer si sfila, i Sonics vengono acquistati da Clay Bennett e nel giro di due anni si trasferiscono a Oklahoma City e diventano i Thunder.
Nel 2014, però, lo scenario è del tutto diverso: un po’ perché Ballmer si è appena dimesso dal ruolo ricoperto in Microsoft e un po’ perché, libero da impegni lavorativi e familiari particolarmente pressanti, non ha nessuna intenzione di farsi sfuggire una seconda occasione. Sul piatto ci sono i Clippers: Sterling è costretto a vendere ma non vuole svendere, in corsa ci sono altri miliardari piuttosto celebri a Los Angeles, tra cui il magnate dei media David Geffen, ma alla fine la spunta proprio l’ex-braccio destro di Gates che si presenta dalla moglie di Sterling dicendo “allora, quanto voi?”. Ballmer viene accolto con scetticismo dai tifosi e soprattutto dagli addetti ai lavori: il suo arrivo non sembra poter invertire la tendenza della squadra a deludere le aspettative e l’atteggiamento tenuto a bordo campo conduce spesso a giudizi fuorvianti sulla sua persona e sulle motivazioni che l’avrebbero portato a comprare una squadra NBA.
Ballmer prova a spiegare cause e origini della sua esuberanza a bordo campo.
Per qualcuno è solo l’ennesimo ricco eccentrico (il suo patrimonio personale è stimato tra i 50 e i 55 miliardi di dollari) che vuole sedersi in prima fila o in una delle lussuose suites con vista sul parquet e divertirsi. Ballmer, però, siede dietro al canestro e, fin dal primo giorno da proprietario, ci tiene a precisare che sì, lui vuole divertirsi, ma vuole soprattutto guadagnare dei soldi. E se le scelte relative all’area tecnica, dal doppio incarico coach/GM concesso a Doc Rivers alla faraonica estensione contrattuale elargita a Blake Griffin, vengono bonificate dall’intervento del vecchio saggio Jerry West, bandiera proprio dei Lakers chiamata a modellare la franchigia, Ballmer fa subito intuire di non voler lesinare quanto a investimenti strutturali che contribuiscano a gettare le fondamenta di una nuova e più efficiente organizzazione.
La rilettura delle decisioni prese, avviata con il confino di Rivers alla sola panchina e la promozione di Lawrence Frank a responsabile dell’area tecnica, passa attraverso l’assunzione di professionisti dal curriculum importante come Michael Winger o del tutto inusuale per il ruolo come Lee Jenkins. Una volta presa confidenza con i contorti meccanismi del salary cap e con le mutevoli sfaccettature delle statistiche avanzate, Ballmer dà il suo benestare a operazioni di mercato che rivoluzionano il roster, demolendo la precedente identità della squadra e ponendo le basi per la trionfale sessione di mercato della scorsa estate.
L’entusiasmo con cui il nuovo proprietario affronta ogni piccola grande sfida finisce per contagiare tutto l’ambiente, ora davvero convinto di poter superare la “maledizione di Clippers”. Certo, per liberarsi del fardello rappresentato dall’imbarazzo dei 30 anni precedenti occorre ancora compiere un ultimo passo: vincere. Pur con tutte le migliorie apportate durante la gestione Ballmer, infatti, la squadra non è mai andata oltre il secondo turno dei playoff, soglia che ci si aspetta venga varcata la prossima primavera. I risultati sportivi non sono andati di pari passo con quelli economici, visto che il valore complessivo della franchigia è stato stimato da Forbes lo scorso febbraio a 2,2 miliardi di dollari, con un apprezzamento significativo rispetto al prezzo pagato nel 2014 e destinato a lievitare ulteriormente qualora i piani per la costruzione di una nuova arena in proprietà esclusiva dovessero concretizzarsi.
Ora resta da sfatare il tabù che vuole i Clippers perdenti seriali, e quale modo migliore per farlo che battere i prestigiosi dirimpettai? Di certo Ballmer appare carico e convinto, e se i Clippers dovessero riuscire nell’impresa sarà sì grazie a Leonard e George, ma soprattutto grazie a lui. Perché prima del suo arrivo nessuno avrebbe nemmeno preso in considerazione l’ipotesi che il futuro cestistico di Los Angeles potesse tingersi di colori diversi da quelli dei Lakers.
La nuova NBA dei nerds
Per molti aspetti, l’estate scorsa potrebbe essere definita come la versione NBA de “La rivincita dei nerds”. Il trionfo dei Toronto Raptors, squadra oggetto di sarcasmo più o meno velato fin dalla sua nascita, è sfociato in una sessione di mercato che ha ribaltato vecchi schemi e gerarchie acquisite. L’ultimo decennio aveva già visto in fase avanzata l’opera di demolizione del concetto di big market a favore di un modello commerciale dove è possibile diventare una celebrità globale anche giocando a Oklahoma City o Milwaukee, ma quanto successo durante la free agency ha segnato un punto di svolta forse definitivo.
Durant e Irving hanno deciso di andare a giocare insieme a New York, come si rumoreggiava da mesi, scegliendo però quelli che sono, e nonostante tutto restano, i cugini minori. E se nel caso dello smacco inflitto dai Nets ai Knicks ha senza dubbio influito la cronica incapacità gestionale di quest’ultimi, al cui confronto la telenovela Lakers appare una sfortunata parentesi, la manovra con cui i Clippers si sono portati a casa Leonard e George rappresenta un sorpasso ancor più clamoroso ai danni dei dirimpettai. Non solo perché entrambi i giocatori a un certo punto sono stati promessi sposi, più o meno palesi, dei colori gialloviola, quanto perché a differenza dei Knicks i Lakers potevano comunque vantare la firma di James e l’arrivo di Davis.
Invece Leonard, dopo un lungo temporeggiamento, ha scelto l’altra metà di Los Angeles, imponendo di fatto lo scambio che ha portato anche George nella città degli angeli, e la sua decisione è stata tutt’altro che istintiva o casuale. Perché è senza dubbio vero che destinazioni come Los Angeles o New York mantengono la loro attrattiva, ma in questo momento più che l’araldica e l’ampiezza del mercato potenziale la differenza la fanno stabilità, programmazione e voglia di investire da parte della proprietà. Insomma, tutte quelle cose che in concreto vanno a formare quell’entità altrimenti eterea che chiamiamo “cultura di una franchigia” e di cui la tanto celebrata Spurs Culture rappresenta il Sacro Graal. Essere i cugini minori, ultimi eredi di un lungo cammino disseminato di sventure e fallimenti, in questo caso, rappresenta un dettaglio di poca importanza.
Nondimeno è un dettaglio che i Clippers non vogliono trascurare o dimenticare, anzi, il fatto di essere underdogs per antonomasia, più blue collar e meno blue blood, è un tassello su cui costruire la loro nuova identità. Durante la prima sfida stagionale, giocata nelle vesti di squadra di casa, i messaggi sul videoboard dello Staples Center avevano come elemento comune la voglia di distinguersi dal glamour connaturato nell’immagine dei cugini. ‘L.A. our way’, ‘Grit over glam’, ‘We over me’, ‘Street lights over spotlights’: tutti slogan studiati per sottolineare come la franchigia di Ballmer intenda affermarsi come alternativa ai Lakers, anche da un punto di vista concettuale.
Questa volontà di caratterizzarsi come inseguitori e sfavoriti non deve però ingannare quanto al reale obiettivo, che è e rimane quello di conquistare la città e la NBA intera. Obiettivo confermato anche dallo spot che New Balance ha cucito addosso al loro uomo simbolo e che riassume in maniera pressoché perfetta l’essenza di ciò che i Clippers aspirano a rappresentare: la Los Angeles working class che si allena lontano dai riflettori, in silenzio ma decisa a vivere appieno il proprio momento.
Prova attoriale di altissimo livello per il Fun Guy appena atterrato in città.
Ballmer, Rivers e Leonard, insomma, vogliono vincere e voglio farlo a modo loro, ma soprattutto vogliono provare a prendersi la città. Non sono gli unici, nonostante tutto.
American Pompei
Invece di sintonizzarsi sui notiziari relativi al traffico, problema ormai endemico e senza soluzione apparente, gli abitanti di Los Angeles si svegliano ogni mattina ascoltando gli aggiornamenti sugli incendi in corso, su quelli domati e sugli altri in espansione. Il fuoco, negli ultimi anni nemico implacabile per i residenti di tutta l’area metropolitana, non ha risparmiato nemmeno personaggi famosi e beniamini delle folle. E la poco umile dimora di James, situata nel quartiere di Brentwood, non è stata l’unica presa di mira dalle fiamme nelle paurose sequenze di incendi divenute ormai prassi quotidiana in California.
Quello che ha colpito la stella dei Lakers è stato solo uno dei sedici incendi che lo scorso novembre hanno devastato intere zone abitate, bruciando 75.000 acri e costringendo all’evacuazione oltre 200.000 persone. Nel tentativo di arginare le fiamme, le autorità locali hanno disposto la sospensione dell’energia elettrica lasciando al buio tre milioni di utenti. La crescente siccità e l’innalzamento delle temperature medie hanno reso un problema drammatico quello che era un fenomeno saltuario durante le estati più torride. Un po’ per la crescente preparazione e per il tempismo più efficace, e in buona parte per mera fortuna, gli incendi del 2019 hanno avuto effetti meno devastanti anche solo rispetto all’anno precedente (600.000 acri bruciati con le fiamme che si sono spinte fino a Santa Monica), ma è impossibile ipotizzare l’impatto che fenomeni simili, ormai inevitabili date le condizioni climatiche dell’area, potranno avere nei prossimi anni.
Così come è difficile prevedere più in generale l’impatto che il cambiamento climatico avrà sulla città, con il fabbisogno di acqua che potrebbe raggiungere livelli critici entro il 2050 a causa del lento ma costante prosciugarsi del fiume Colorado, che alimenta circa il 70% della rete idrica della California del Sud. E se il livello del fiume Colorado è in continua diminuzione, quello dell’Oceano pacifico Procede in direzione contraria, tanto che secondo un recente studio della University of Southern California nel giro di dieci anni le spiagge della zona potrebbero ridursi in una percentuale tra il 31% e il 67%, ivi compresi luoghi iconici come Malibu.
Sotto molti punti di vista, in definitiva, Los Angeles rappresenta l’avanguardia del global warming e pare destinata a un futuro caratterizzato dalla lotta impari contro la natura. Non bastasse, oltre a problemi già drammatici come quelli rivenienti dalla siccità e dal livello dei mari, sulla città continua a pendere la gigantesca spada di Damocle del Big One. Se per quanto riguarda gli effetti del riscaldamento globale esistono diverse teorie, anche se ormai a differenziarle è soltanto l’orizzonte temporale del loro impatto, l’arrivo del terremoto che potrebbe radere al suolo buona parte del paesaggio urbano, colpendo duramente una popolazione di circa 13 milioni di abitanti, è certificata dal progressivo movimento della faglia di San Andreas, che si estende per oltre 800 miglia e su cui poggia l’intera zona. E il terremoto che ha colpito la California lo scorso 4 luglio appare come un piccolo anticipo di quello che potrebbe arrivare da un momento all’altro, anche se rispetto alla magnitudo riscontrata la scorsa estate (6,4) quella che si stima possa essere prodotta dal Big One (8,2) è ben poca cosa. In città si vive in quello stato di precarietà che è ormai un marchio di fabbrica, tra fiducia nel contributo salvifico della ricerca scientifica, spasmodica preparazione per la catastrofe e una sorta di fatalismo rassegnato.
Eppure, nonostante sia in tutta evidenza in perenne bilico tra catastrofe ecologica e rovina totale, Los Angeles continua a essere meta sognata, rincorsa e agognata da moltissimi, non solo dalle stelle della NBA. Dopo una breve fase interlocutoria a cavallo tra il primo e il secondo decennio dei 2000, infatti, la città sembra aver riguadagnato tutta l’attrattiva e la centralità che sembravano perse a favore di San Francisco sotto l’effetto della Silicon Valley. Hollywood ha saputo rivitalizzare il proprio ruolo produttivo aprendosi al mercato globale, così come la scena musicale cittadina è risorta dopo anni di relativa marginalizzazione sulle spalle di Kendrick Lamar e Billie Eilish.
Il volubile mondo dell’arte contemporanea, sempre pronto a fiutare in anticipo le tendenze, ha visto alcuni tra i nomi più prestigiosi investire pesantemente sulla città. Il mercato immobiliare locale, che a dire il vero non ha mai registrato flessioni significative, è tornato a ruggire con forza dopo l’annuncio della vittoriosa candidatura per le Olimpiadi del 2028.
Sotto ogni punto di vista Los Angeles è tornata a essere terra di conquista, un destino iniziato nel lontano 1542, quando Juan Rodriguez Cabrillo piantava la bandiera spagnola, dopo aver massacrato senza pietà la tribù dei Tongva che popolava l’area da tempo immemore, fondando El Pueblo de Nuestra Senora la Reina de los Angeles da Porciunula. Passata in mani messicane, verrà poi incorporata negli Stati Uniti d’America e prenderà l’attuale nome il 4 aprile 1850.
La città degli angeli si avvia quindi a compiere 170 anni e, nonostante uno stato di salute alquanto precario, il suo fascino continua a sedurre aspiranti conquistadores. Tra questi LeBron James e Kawhi Leonard, che sognano di entrare a downtown in testa alla parata, tra due ali di folla festante. Per realizzare questo sogno, però, dovranno primeggiare sugli ingombranti dirimpettai, prima, e sul meglio del resto della NBA, poi. Perché, per citare l’icona della tifoseria locale Jack Nicholson: «Questa città accoglie solo i vincenti».
La battaglia per Los Angeles è ufficialmente aperta, e i trionfatori potranno ammirare la sagoma dello skyline che si staglia tra le palme rispecchiandosi nei riflessi dorati del Larry O’Brien Trophy.