Ci sono dei momenti nella storia del calcio, come la contestazione a Maldini il giorno del suo addio, che all’esterno generano la stessa incredulità delle destituzioni dei dittatori. «Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti», disse una volta Winston Churchill nell’aforisma che meglio riassume questo sentimento.
Vedere Arda Turan che, con il pallone tenuto fermo con la suola, risponde ai fischi dei suoi stessi tifosi con un pollice alzato, mentre gli avversari cantano il suo nome lasciandolo camminare sul campo, fa lo stesso effetto (con le dovute proporzioni) dei video dell’Unione Sovietica subito dopo la sua implosione, con i cittadini euforici che con mazze pesanti abbattono le statue di Lenin.
E la domanda che sorge è sempre quella: come si è arrivati a questo punto senza che nessuno se ne accorgesse? Com’è possibile che il più forte e rappresentativo giocatore turco dei nostri tempi venga contestato dai suoi stessi connazionali per due sconfitte relativamente comprensibili?
Il potere dei simboli
Questa storia parte da una premessa necessaria: Arda Turan non è solo il miglior giocatore turco della storia contemporanea. Arda Turan è, soprattutto, un simbolo.
Il centrocampista del Barcellona è nato ad Istanbul ed è cresciuto in quartiere centrale ma umile, Bayrampaşa. Questo quartiere è il suo primo cordone ombelicale con la cultura popolare e nostalgica turca. Lui stesso, al sito della UEFA, ricorda le piazze di Bayrampaşa come i suoi primi campi d’allenamento, aggiungendo però con una nota di tristezza: «Era molto divertente ma adesso i bambini non possono più farlo. Forse appartengo all’ultima generazione che l’ha potuto fare».
È proprio Arda che ricollega il passato umile e svantaggiato alle sue caratteristiche tecniche, la ricerca e la capacità di superare sfide difficili: «C’erano giorni in cui giocavo contro cinque persone, con solo il portiere dietro di me. Mi sono sempre piaciute le sfide. Ero un bambino coraggioso e non sono cambiato».
L’immagine superficiale di Arda Turan, quindi, è di un giocatore “cresciuto tra la gente”, che “non si è dimenticato da dove viene”. È abbastanza noto che il calciatore del Barcellona sia impegnato da anni in attività benefiche a favore del proprio paese e del proprio quartiere, sia a livello macro (nel maggio del 2014 ha commemorato il massacro di Khojaly, l’uccisione di 161 civili azeri da parte dell’esercito armeno nell’ambito del conflitto del Nagorno-Karabakh; la Turchia, per questioni storiche e religiose, è da sempre vicino all’Azerbaijan in questo conflitto) sia a livello micro (secondo il suo biografo, Arda paga regolarmente tutte le bollette di luce e acqua del palazzo in cui è cresciuto).
Arda Turan è un tifoso del Galatasaray, di gran lunga la squadra più popolare di Turchia (i tifosi del Galatasaray sono circa il 40% di tutti i tifosi turchi). È entrato a far parte della squadra a dodici anni, fortemente voluto da Fatih Terim, il più importante e conosciuto allenatore turco, e successivamente ne è diventato capitano e stella.
Arda Turan che gioca a carte a Bayrampaşa.
Questa storia di mitologia nazionale poteva fermarsi con il trasferimento di Turan all’Atletico Madrid, dove il fuoriclasse turco rischiava di mischiarsi tra i tanti giocatori tecnici ma non abbastanza per emergere ad altissimi livelli in Europa. E invece la sua storia ha incontrato quella di Diego Simeone, della nascita del cholismo, dell’Atletico guerriero, di quello stile machista ma raffinato che è tutto confluito nel cosiddetto ardaturanismo.
Grazie a Simeone, Arda Turan all’Atletico si è trasformato in un’icona, in qualcosa di diverso da tutti gli altri, in un’eccezione, per tutta una serie di motivi. Tecniche, perché in una squadra che militarizzava il controllo dello spazio era l’unico a cui era consentito controllare il possesso. L’ha spiegato alla perfezione Valentino Tola: «Volendo, il contributo più sensibile offerto da Arda alla fabbricazione dei gol dell’Atlético stava nell’aver guadagnato, proprio tenendo palla e forzando l’avversario, la punizione o il calcio d’angolo da cui poi scaturivano le infallibili coreografie preparate da Simeone. Il tenere palla per tenerla è insomma ciò che ha consacrato il turco giocatore eccezionale in quell’Atlético, ma proprio in quanto eccezione».
Ma anche culturali. Turan, in una squadra che faceva della coesione la sua forza, dove Courtois in prestito per tre anni imparava subito il castigliano, ha quasi sempre continuato a parlare turco, anche con la stampa. A Madrid aveva anche un suo gruppo di amici autonomo rispetto ai compagni di squadra, il cosiddetto frente kebab, che incontrava nella capitale iberica per mangiare insieme ed ascoltare musica turca fino a tarda notte.
Turan, in altre parole, era l’unico in grado di incarnare alla perfezione lo spirito del nuovo Atletico e allo stesso tempo avere una connotazione propria così forte da riuscire a risaltare, al punto di essere in grado di costituire una sub-cultura autonoma. Come se il trasferimento all’Atletico non avesse annullato la sua carica mitologica ma anzi gli avesse fatto scoprire un altro lato della sua vera natura, cioè quella di essere un giocatore capace di unire la tradizione calcistica turca alle ultime evoluzioni del calcio moderno.
In questo modo, l’incontro tra cholismo e ardaturanismo conciliava due tipi di tifoseria che sembravano diametralmente opposte: quella hipster europea e quella nazional-popolare turca.
Turan e la nazionale
Paradossalmente, però, nel momento di massima affermazione a livello di club, Turan ha passato i suoi peggiori anni in nazionale. L’impresa all’Europeo del 2008, con la sconfitta per 3-2 contro la Germania in semifinale, vede un Turan ancora molto giovane e semi-sconosciuto. Nei successivi otto anni la Turchia non riesce a qualificarsi né per l’Europeo del 2012, battuta dalla Croazia ai play-off, né per il Mondiale del 2014, dopo essere arrivata terza nel proprio girone di qualificazione.
L’Europeo del 2016 dovrebbe essere teoricamente quindi quello del riscatto nazionale turco da una parte e della sua affermazione simbolica dall’altra. Ma Turan ci arriva con gran parte della sua mitologia già sottilmente erosa.
Non ci sarebbe nemmeno bisogno di sottolineare che solo il fatto di trasferirsi dall’Atletico Madrid, che attraverso la retorica cholista è diventato il club underdog per eccellenza, al Barcellona, che invece rappresenta nel calcio l’establishment europeo, mini alla base una delle condizioni necessarie al fascino di Turan, cioè quello del giocatore che mette il talento al servizio del sacrificio per battere avversari più ricchi (appena arrivato a Madrid dichiarò: «Sono qui per giocare nell’Atlético, se mi avesse chiamato il Real non avrei firmato»). Che poi è esattamente l’immagine che la Turchia voleva dare di sé stessa prima dell’inizio dell’Europeo.
Arda Turan consolato dal suo compagno nel Barcellona Iniesta.
Al Barcellona Turan diventa uno come tanti, per sua stessa ammissione, e a causa del blocco al mercato della squadra catalana per i primi sei mesi della stagione 2015/16 rovescia del tutto il suo rapporto con la nazionale: da massima espressione della sua specificità a livello di club, la Turchia diventa una sorta di palestra in attesa del ritorno in campo con il Barça. In questo senso, non devono aver giovato nemmeno le voci che vogliono un rifiuto dello stesso Turan ad un prestito semestrale al Galatasaray, per integrarsi meglio con la sua nuova squadra.
Anche tecnicamente Turan perde quasi del tutto la sua specificità. Nella rivoluzione verticale di Luis Enrique, infatti, il centrocampo viene ridotto a breve via di passaggio per il tridente MSN, quasi un intralcio a volte, e lui sembra accettarlo senza alcuna remora: «Il sistema del Barcellona è così: se c'è qualcuno che sa fare meglio di te colpi di tacco e tunnel, devi passare la palla a lui. Con Messi e Neymar il mio compito è quello di lavorare di più per metterli nelle condizioni migliori». Arda diventa un pezzo indistinguibile di un sistema più grande di lui, in un gioco più vicino alla cerebralità degli scacchi che alla marzialità della battaglia.
In questo modo, la sua immagine inizia a stridere con quella dell’ultima Turchia di Terim, che si ispira, almeno nella mentalità, proprio all’Atletico di Simeone, come riconosciuto dallo stesso Turan: «Sicuramente il suo stile mi ricorda quello di Simeone, anche se Fatih mette più enfasi sull’attacco».
Le prime due prestazioni all’Europeo, contro Croazia e Spagna, che lo vedono appesantito fisicamente e incapace di incidere in qualunque modo sulla partita, segnano la trasposizione della perdita della specificità tecnica alla perdita della specificità morale. Turan viene accusato dai suoi tifosi di aver diviso lo spogliatoio per problemi legati ai premi in denaro e di pensare solo a girare spot pubblicitari, una metafora pivotale per segnalare la prevalenza dell’apparenza sulla sostanza.
Alla luce delle pesanti sconfitte nelle prime due giornate, proprio lo spot della Nike per la presentazione delle nuove divise, pensato per essere una sorta di manifesto della nazionale turca all’Europeo, che vede Turan motivare i suoi compagni dicendo che «non si perde quando si perde, si perde quando si molla», diventa il simbolo dello scollamento tra immagine esteriore e realtà.
Come spesso accade in letteratura e psicologia, il disvelamento della nuova realtà avviene anche tramite un parricidio. Terim, un allenatore che Turan ha sempre definito come un secondo padre, lo sostituisce al 65esimo del secondo tempo della prima partita e da lì sono iniziate insistentemente a diffondersi voci di malumori tra i due.
Dopo la famosa partita contro la Spagna, in cui Turan rimane in campo per tutti i 90 minuti, Terim si pone pubblicamente contro i suoi uomini: «Ho visto una squadra che non mi piace, una che molla e accetta la sconfitta senza fare niente. Quelli che conoscono il mio calcio, la mia carriera e la mia personalità sapranno che non ho nulla a che vedere con quelli che si arrendono». Sembra una dichiarazione ricamata sopra allo spot Nike pre-Europeo.
E se il nome di Arda non c’è, l’implicito riferimento a lui è quasi automatico. Turan è l’unico che deve mostrare in campo i valori della vera Turchia (spirito di sacrificio, non arrendevolezza, volontà di esprimere la propria identità contro chiunque) anche perché è l’unico a possedere il background personale per poterli simbolicamente rappresentare.
In una squadra che è sempre più composta da figli della diaspora turca in giro per l’Europa (Calhanoglu, Özyakup, Emre Mor: sono tutti nati e cresciuti all’estero), Turan assume anche un valore politico identitario. Non è un caso che lo stesso Erdogan sia intervenuto a difenderlo, dichiarando che «fischiare il capitano della Nazionale non è un atto spiegabile».
Arda Turan non è un giocatore qualsiasi, Arda Turan è il capitano della nazionale. La sua statua doveva immediatamente rappresentare il posto che la nazionale turca si voleva dare in questo Europeo, e quello che la Turchia si vorrebbe dare attualmente in Europa. Il fatto che il giocatore e l’uomo non le assomiglino più, ha fatto diventare quella statua una farsa, quasi una presa in giro.
E chissà che quei fischi durante Turchia-Spagna non abbiano rappresentato davvero la causa della sua distruzione.